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Deontologia portami via

Creato il 29 aprile 2013 da Federico85 @fgwth
La foto di Luigi Prieti fermato e immobilizzato ha fatto il giro del mondo (prensalibre.com)

La foto di Luigi Prieti fermato e immobilizzato ha fatto il giro del mondo (prensalibre.com)

Attentato. Il gesto compiuto da Luigi Preiti ha scatenato l’anima peggiore di parte del giornalismo italiano. Un’anima plasmata da un’inquietante mescolanza di cinismo, voyeurismo e a tratti vero e proprio sciacallaggio. Mentre la crema della crema del gotha giornalistico italiano si trovava nella bella cornice del Festival di Perugia a discettare e simposiare sui massimi sistemi della stampa nazionale e mondiale, accade tutto nel giro di pochi attimi all’ora di pranzo. In Piazza Colonna, a Roma, un uomo di mezza età esplode sette colpi di pistola contro i Carabinieri. Il tutto mentre il Governo Letta, quello della concordia nazionale e della “normalizzazione”, sta giurando nel vicino Palazzo Chigi. Due i carabinieri feriti, dei quali uno in maniera grave e ricoverato all’Umberto I. Ferita di striscio da un proiettile una donna incinta. Questi i fatti nudi e crudi.

Nel circo mediatico italiano si è invece scatenato il pandemonio: ripercorriamo alcune, significative tappe:

  • su agenzie e Twitter si è scatenata la corsa al nome esatto: Preiti è stato nell’ordine citato come “Preti”,” “Prete” ,”Prati”, “Preta”. Mancava solo “Previti”, ma nessuno ha osato azzardare tanto. La tanto celebrata velocità ai tempi del web ha permesso di inanellare una serie dietro l’altra di imbarcate e inesattezze che anche la nuova “scuola”, fatta di rapidità e copia/incolla, non dovrebbe accettare di buon grado.
  • Il profilo dell’attentatore: un trionfo commovente di castronerie e, a tratti, stereotipi razzisti spacciati come “descrizioni”. Preiti è stato definito “pazzo” e si è millantato di un certificato che ne attestava il ricovero in una struttura ospedaliera piemontese per motivi psicopatologici. Fatto poi smentito, ma circolato per una buona mezz’ora. Che fosse di Rosarno, paese tristemente famoso per altre stroie, poi non bastava. Ogni lancio o tweet doveva precisare che era “un calabrese di Rosarno”. Chissà mai che si confondesse con Rosarno in Alto Adige. Giusto “disambiguare”. Come corollario della tremenda colpa di essere nato in Calabria, sono iniziate a circolare ipotesi di un possibile legame con la ‘ndrangheta. Si è poi passati, da bravi italiani, all’analisi fashionologica dell’attentatore: in giacca e cravatta, fatto che ha sconvolto davvero lasciando tutti attoniti. Uno psicopatico calabrese di Rosarno (ma che vive in provincia di Alessadria, dettaglio ritenuto marginale) non poteva essere vestito di tutto punto, non è nell’ordine delle cose. Avrebbe dovuto avre un paio di scarponi consumati, dei jeans che a toglierli sarebbero stati in piedi da soli e una camiciona di flanella piena di macchie d’olio e di sugo aperta sul petto da cui spuntavano una canottiera bianca, del villo pettorale e una catenina dorata con un crocifisso. Questo sì che sarebbe dovuto essere un profilo adeguato. Quello che è stato definito un “anarco-acchittato” non è un soggetto che si confa troppo alla vulgata della narrazione giornalistica italiana.
  • Pornografia fotografica: sulle homepage dei principali siti italiani (e riprese poi da quelli stranieri) in un batter di ciglia sono iniziate a circolare le immagini di Preiti bloccato al suolo e, soprattutto, del Carabiniere ferito e riverso al suolo con evidenti tracce di sangue. Se la prima foto può anche essere pubblicata, quella sul carabiniere è pura solleticazione del voyeurismo e del gusto del macabro del lettore/spettatore. Il tutto in nome di qualche click in più. Sarebbe curioso sapere poi se, prima di pubblicarla, nelle redazioni on-line dei maggiori quotidiani italiani ci si sia accertati del fatto che la famiglia del Carabiniere ferito fosse stata avvertita. L’idea che un parente stretto del ferito potesse aver sentito della sparatoria e che poi scoprisse su un monitor che fosse una persona a lui cara dovrebbe far impallidire chiunque, si spera. Appellarsi al diritto di cronaca è ridicolo: la cronaca è dare con precisione, puntualità e serietà l’elenco dei fatti accaduti. E, tra parentesi, c’è molto da eccepire sul fatto che questo diritto sia stato salvaguardato da chiunque nel caso Preiti. Spiattellare immagini cruente e dal forte impatto non rende alcun servizio al lettore e al cittadino, se non quello di solleticare il suo insconscio. Che viene attratto e al contempo respinto da quelle immagini. L’informazione non ha e non deve avere funzione catartica, purificatrice. L’antica tragedia greca aveva questa funzione di catarsi collettiva. Giornali e televisi non la devono avere. Per quello ci sono arte, letteratura, cinema e qualunque altra forma di espressività umana.  L’informazione deve sì “in-formare”, dare forma, ma limitarsi sempre e comunque al dato e al fatto. Soprattutto se di cronaca si tratta. Una foto con un uomo in uniforme riverso al suolo in una pozza di sangue e attorniato da colleghi disperati non è cronaca. La si chiami come si vuole ma non è cronaca.
  • L’intervista al figlio 11enne di Preiti: avvenuta un giorno dopo l’attentato, rappresenta il culmine della vergogna. In barba alla Carta di Treviso e a ogni minimo livello di decenza e continenza, i giornalisti che hanno accerchiato un ragazzino di 11 anni per estrapolare chissà quale parere hanno reso un servizio indegno a lettori, editori e persino a sé stessi. A prescindere dall’emittente cui appartengono, coloro che singolarmente si sono macchiati di una tale vergogna meriterebbero di essere adeguatamente sanzionati. Chi prova a dare la colpa agli adulti che hanno autorizzato i giornalisti a parlare col ragazzino o è in malafede oppure manca delle minime basi etiche per fare questo mestiere. Il cinismo a piccole dosi sarà anche una virtù nel campo giornalistico, ma trasformarlo in sciacallaggio è e resta un atteggiamento intollerabile.  Una delle poche, pochissime ragioni dell’esistenza di un ordine dei giornalisti italiani è forse quella di comminare le giuste sanzioni in casi come questi. Vedremo.

Altre sarebbero le osservazioni da fare, su tutte quella della proliferazione di dirette fiume televisive in cui gli anchormen più in vista e in voga del paese danno libero sfogo al proprio narcisismo di ermeneuti della tragedia, tra sermoni, collegamenti e plastici. Ma questo sarebbe un discorso troppo lungo e complicato, che non riguarda da vicino il fatto avvenuto domenica 28 aprile a Roma ma l’universo massmediologico nostrano in generale.

Attentato: quello che è successo. Han tentato: molti giornalisti e addetti ai lavori di ricamare oltre ogni limite di decenza sulla vicenda. A te, intanto, rimane in bocca il gusto amaro del fatto che in questo paese le tragedie non siamo non solo in grado di viverle, pur avendone a bizzeffe, ma nemmeno di raccontarle.



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