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Derek Cianfrance: the place beyond the memories

Creato il 03 luglio 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

DEREK CIANFRANCE

“Someday my pain will mark you
Harness your blame
Harness your blame, walk through”

La carriera di Derek Cianfrance è la rappresentazione plastica del classico suggerimento che si dà ai giovani registi: “Credi nei tuoi sogni, non mollare mai”. Cianfrance, nato nel 1974, trascorre tutta la sua giovinezza sognando il cinema. Ancora adolescente, grazie a una videocamera presa in prestito dalla biblioteca, inizia a girare piccoli film coinvolgendo amici e parenti come attori. La sua è una passione irrefrenabile, che lo conduce, a soli 23 anni, a portare a termine il suo primo lungometraggio Brother Tied; la pellicola, nonostante sia presentata al Sundance Film Festival, in realtà non riesce ad arrivare in sala, poiché i distributori la ritengono poco appetibile commercialmente. Negli anni successivi lavora soprattutto come direttore della fotografia e documentarista, collaborando con vari canali televisivi musicali; non a caso la cura per l’immagine, lo sguardo sul reale e l’abilità per la selezione musicale costituiranno alcuni dei tratti dominanti del suo stile registico. Nel 2003 conosce l’attrice Michelle Williams e le propone una sceneggiatura cui sta lavorando da anni: è una delle numerose bozze di ciò che diverrà Blue Valentine. Si tratta di un progetto che arrovella la mente del regista da parecchio tempo, infatti, il fantasma del matrimonio dei suoi genitori, ancora dopo molti anni, continua a tormentarlo; “Loro si sono separati quando avevo 20 anni, come young adult sentivo il bisogno di confrontarmi con le cose che mi spaventavano da ragazzino, così da poter avere una relazione sana con la mia ragazza”. Questa idea catartica sedimenta per 12 lunghi anni, costituiti da nuove idee, riscritture e cambi in corsa dovuti alle discussioni con il cast, a cui nel frattempo si è aggiunto Ryan Gosling. Il progetto però si arena quasi subito, nascono problemi di natura economica e dopo qualche tempo viene definitivamente sospeso. Ma Cianfrance non si arrende. Iscrive la sua sceneggiatura al Chrysler Film Project, dove finisce per vincere un milione di dollari che investe nella produzione del suo film.

blue-valentine

Dopo vari stop, finalmente, si gira. Gli attori protagonisti partecipano attivamente alla scrittura dell’opera, addirittura, prima delle riprese, decidono di convivere per circa un mese così da rendere maggiormente realistica la loro relazione. Una scelta che paga, vista la straordinaria intesa tra i due che emerge dallo schermo. Nel 2010 la pellicola approda al Sundance Film Festival, diventando un caso cinematografico di cui tutti parlano; la Weinstein Company compra i diritti di distribuzione del film, che ottiene un discreto successo in sala e vince numerosi premi, persino Michelle Williams guadagna una nomination all’Oscar come miglior attrice. Insomma, c’è voluto del tempo ma il sogno del regista alla fine si è coronato. Il suo film non solo è stato portato a termine, ma è anche il film indie dell’anno. Detta così sembra la formula perfetta per dirne peste e corna, invece la pellicola funziona proprio per la sua straordinaria e spietata sincerità. Blue Valentine è il canto straziante, senza vergogna, di un uomo che cerca di salvarsi dalla fine di ciò che di puro esiste nella vita; l’incubo di un bambino che vuole disperatamente evitare a chi gli è caro di subire i drammi che ha vissuto sulla propria pelle. La storia è quella di Cindy e Dean, sposati da diversi anni, che attraversano una fase critica del loro matrimonio; cercando di superare i problemi, provano a recuperare quello spirito e quella vitalità che li aveva fatti innamorare, in un parallelo di ricordi tra passato e presente, brillantemente illustrati da un montaggio che salta avanti e indietro nel tempo. Si tratta di uno dei ritratti più impietosi e dolorosi sul disfacimento di un amore, in cui si costringe lo spettatore a subire il viaggio emozionale che molte coppie attraversano: l’amore a prima vista, la lotta per riuscire a stare insieme, la voglia  in due di dare una svolta alle proprie vite, il piacere della condivisione che si trasforma in routine, le piccole meschinità nate da una tolleranza che si fa sempre più fragile, fino ad arrivare alla sensazione di guardare negli occhi il partner e non riuscire più a riconoscerlo. A fine visione si è emotivamente distrutti, con il cuore che sanguina per l’equilibrio grazie al quale la storia riesce ad alternare dolcezza e rabbia, tra una barzelletta che risuona nelle orecchie e un passo di danza al ritmo di ukulele. L’energia esplosiva e implosiva della recitazione, sottolineata dalle scelte musicali, proviene dal cinema di Scorsese, invece lo sguardo realistico, che non spia dall’esterno ma vuole essere parte della vita dei personaggi, è puro Cassavetes. Un’ispirazione resa evidente dalla presenza della scena degli spaghetti, simile a quella di Una moglie, che non viene citata solo qui ma ritorna anche in Come un tuono.

Come-un-tuono

Il merito della pellicola è tutto nei suoi silenzi, nei non detti che ci risuonano così familiari, in quelle frasi semplici ma così tragiche; come nell’occasione in cui Dean, chiedendo cosa possa fare per migliorare la loro relazione, riceve come risposta da Cindy un “Non lo so” che pesa come un macigno. Non ci sono facili messaggi per lo spettatore, lo stesso regista ci scherza su: “Ciò che è importante per me è combattere con mia moglie ogni giorno, perché è qualcosa per cui vale la pena combattere. È come in Alien: se fai crescere qualcosa dentro di te, quando verrà fuori sarà molto violenta”. Dopo una storia di fratelli e quella di una coppia, il regista mette in scena una storia di padri e figli, dimostrando come sia fortemente interessato alle luci e ombre dei legami familiari. In realtà Come un tuono condensa tutto ciò che Cianfrance ha già raccontato, aggiungendoci dell’altro. La stessa struttura narrativa tripartita suggerisce questa logica dell’accumulo, come se il cineasta volesse mettere definitivamente da parte i ricordi del passato. Tutto nasce da Luke, un asso della moto di poche parole, che scoprendosi padre, cerca di fare soldi rapinando banche; mentre Avery, un giovane poliziotto, sogna di far carriera. Lo scontro tra i due segna una svolta nelle loro vite e in quelle delle rispettive famiglie.  D’altronde si sa, le colpe dei padri ricadono sui figli. Questa sembra essere l’ossessione intorno alla quale ruota tutto il cinema del regista. Si cerca sempre di fare la cosa giusta, a volte questa comporta dei rischi e il rischio maggiore è proprio quello d’infrangere la legge, come fanno i protagonisti, così da macchiare per sempre l’American Dream. E questa perdita dell’innocenza, questo marchio d’infamia, resta impresso indelebile sulla pelle. Cianfrance stavolta mescola le carte, gioca con i generi incrociando l’action al melodramma, finendo per sbagliare per eccesso. Nonostante questo, la pellicola, mantiene la stessa forza visiva ed emozionale della precedente, dipingendo due uomini allo sbando, schiavi degli archetipi maschili in cui vivono. Quest’America senza padri, dove tutto si ripete due volte, dove le famiglie crollano oppure ce ne si vergogna, è la pietra tombale di un passato glorioso ma caduto al peso della propria ambizione. I ricordi ci tormentano, ritornano, ci rendono animali intrappolati nella gabbia del passato. Non resta quindi che il futuro, come nel terzo capitolo del film (forse il più debole ma il più intenso), da osservare negli occhi dei bambini.

Rosario Sparti


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