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Derrière le faisceau sombre L.L

Da Lielarousse

Roma 2 gennaio 2014

Altalena

Giorni. Probabilmente mesi. Anni. Sì. Sicuramente anni ho passato rincorrendo il volto della gente nel loro via vai sui marciapiedi. Incespicando col respiro, strattonando caviglie e ginocchia ho corso dalla biblioteca comunale priva di libri al campo verde da gioco assente di bambini ostinandomi di vedere, di strappare e tenere per me una parvenza umana labile.
Labile. Labile come il mio immaginario d’essere. Labile come la figura di un ragazzo, giovane uomo, nel momento ideale del suo vivere, in quel frangente quando il sole volta il suo sguardo imporporandogli le gote, l’iride, il naso, il mento, il petto sotto il disegno in bianco e nero della t-shirt, e in me sboccia, seppur per pochi ticchettii d’orologio, il puro fiore, frutto spontaneo neonato dell’ incolto prato, intarsiato con lama d’acciaio, innocente amore. Inquieto giovane uomo pervaso di un animo irrequieto.
Irrequieta. L’osservo delicato intreccio d’ossa e carne, sorrido e serro le mie labbra trattenendo quell’unica figura nei miei occhi, palpandolo socratico in una stretta avida da poterlo frantumare se solo io lo stringessi di più, più forte. E  nelle catene intrecciate di una qui apparsa altalena mi specchio efebica bellezza, demone che sprigiona una melodia lenta e spigolosa, il male, la sua malattia, io la sua insana portatrice, e lui.
Lui. Lui acqua della sete. Un sorso dalle sue labbra per salvarmi dall’annaspare e fermare il tempo in un tocco di pelle. Ma chi scorda? Ma chi dimentica veramente?
La memoria è la padrona di alcune fragili menti. E’ anch’essa acqua, ma di quella che non si necessità mai, tuttavia lei ti abbevera lo stesso, e io annego dal troppo berla. E allora ricordo quanto del mio vivere sia stato già sperperato, imbrattata banconota, insozzata dal passaggio di mani e nasi sudici. E’ stato preso, suddiviso, sezionato, regalato, gettato, derubato. Abbattuto. Nere lacerazioni. Ciò che fu versato era sangue non acqua. Era sangue non acqua. – Ehi tu! lo vedi questo è sangue non acqua!-.C’è gente che conosce l’amore. Quella strana gente lo sa riconoscere. – Al primo sguardo, un colpo di fulmine è stato amica mia! – . – L’ho riconosciuto tra mille!-. Allora è cosa semplice. Non c’è bisogno di combattere contro  il nostro io che scalpita per amare, per innamorarsi, lascio che sia semplice, seppur solo per questa mezza giornata, giusto il tempo di dondolarmi su questa altalena, magari per un giorno intero, se il piacere che mi reca è così provocatoriamente intenso allora facciamo due giorni. Se questo giovane uomo è riuscito a squarciare il cuore mio in una voragine con la sola presenza, ora, adesso, in quest’attimo di cielo e raggi di sole perfetti, donandomi l’amore mai provato senza ch’egli se ne sia nemmeno accorto, di quell’amore che neanche le braccia materne sono state capaci di trasmettere, allora posso essere la madre di me stessa. Amandoti posso prendermi cura di me. Dimostrare che potrei anche farcela ad essere io stessa madre. Si voglio essere madre, voglio essere mia madre, madre amore, di quello delle pubblicità degli anni cinquanta, e indossare il gonnellino a cerchio corto sulle cosce con le mille pieghe di tulle e il grembiule lindo attorno la vita, la torta profumata adagiata su un delicato piatto croccante di detersivo, un sorriso smagliante, ginocchia ben salde e caviglie a punta.
Perfetto.
Semplicemente perfetto.
Eccolo il miracolo dell’amore cosa fa! Trasforma. Rinasci. M
agia.
Bibbidi bobbidi bu!
Opero me per una ligia guarigione, ho stoffa e forbice tra le mani.
Ho stoffa e forbice tra le mani, ma non so cucire. E mi ritrovo a rimboccare il letto in una stanza ammoniacata d’ospedale, ingurgito pasticche per la mia sana salvezza, sorpasso il ciglio di ogni porta, e con il camice bianco balsamo tossici con il loro stesso veleno così presto torneranno in forma. Ed io con loro. E vivremo tutti felici e contenti punto
Basta. Ora basta. Il confine è andato. Sono stremata, offesa, umiliata. Basta. Confusa, scompigliata, disordinata. Basta- Anche i miei capelli hanno cambiato colore e forma. Sono gretti, raccolti in ciocche come stick. Stick per cani. Dodici Stick per cani. Dodici stick per cani resi tali dall’uncinetto. Uncinetto. Un piccolo arnese, una ferraglia, che innesta filo  per filo, annoda, arruffa, strappa ed innesta ancora filo per filo. I miei capelli sono  rami d’albero, con essi disegno un veliero che getto in questa pozzanghera, qui sotto i miei occhi, ai piedi di questa altalena, astratta e profonda pozzanghera come mare. E io sono una nave in balia delle onde, con botti di vino acido nel ventre e nelle cervella, e sono obbligata ad ascoltare il loro scontrarsi quando il vento stropiccia anime soffiandole via, e loro rotolano rotolano rotolano.
Sono carcassa di legno marcio e putrescente, e se non farà attenzione, questo giovane uomo,  a non avvicinarsi troppo a questa altalena lo diverrà  anch’esso. – Allontanati!-. Ma lui non ode la mia voce, perché muta irragionevole è la mia vita, e imperterrito s’avvicina alla seduta mia affianco, c’è un posto libero. – Non salire. Fuggi. Scappa. Non ci salire. Quest’altalena è maledetta, chi ci sale non scende più!-.
Guardami giovane uomo, mi vedi, io sono la paranoia che ha costruito queste catene, la psicosi che le ha giunte una ad una in esse e ha creato questa corda di metallo. Io sono il mostro che scalfirà le tue speranze e ti trascinerò in me. Ti sei palesato in questo parco privo di gente, e mio eroe ti ho trasformato , mentre nessuno si accingeva a mostrarsi, ma ora che rinsavisco t’imploro che devi andartene, mi senti. – Salvati. Vattene!-.
Pertanto hai le caviglie già sporche di sangue e sabbia. Nel tempo in cui il vento ti spinge alto ti doni l’illusione di poter toccare il tuo cielo, seduto su questa altalena, tu con il volto marchiato di luce. Nel tempo in cui ritorni alla terra sfiorando con la punta delle  dita piccole dei piedi trascinato indietro, con un colpo delle reni ti ridai lo slancio per tornare a sfiorarti. Ma Dio ti colpisce. Ti colpisce forte e tu resti a mezz’aria. Per sempre. In un limbo di cui io sono il necroforo che assiste, e la tua mente come la tua pelle inizia a sbiadire, vorrei tu non fossi così fragile da perderti nel dolore. Vorrei io non essere così fragile da perdermi nel dolore. E vedo le sofferenze tue Bambino tatuarsi sul tuo volto, giovane uomo, e capisco perché sei arrivato fin qui, perché non avevi scelta, e sei salito su questa altalena. Ed appena tutto comprendo, ogni cosa capisco, tu cessi d’esistere.
E io sono di nuovo sola. In questo verde parco giochi senza bambini con cui giocare, in biblioteca senza libri da leggere. Ma vedo tutto.
Vedo tutto. Vedo tutti loro assopirsi, in punto di morte mormorare colpevoli il mio nome che ho voluto cancellare, sfregando ogni lettera contro il palato in un ultimo sospiro velenoso. E il mio di respiro si dimena. E i loro aliti ingurgito, assaporandone ogni fragranza, una macchia di vernice acida si espande nel mio petto, pesce crudo, alcool dolciastro, carne livida, caramella alla fragola, acqua stantia in vasi da fiore, lo scotto del sesso, dilanio del suo desiderarlo. Desiderio.
E nonostante tutto desidero sempre. Desiderio della loro morte che assaporo avida. Desiderio della mia morte che bramo, studio, pianifico ogni giorno. Perché nonostante tutto ambisco al piacere maledetta me. Nulla di personale. Nessuna battaglia da combattere. E’ proprio per il suo contrario.
Al contrario. Al contrario dondolo, a volte m’illudo di poterlo accarezzare il cielo, torno al punto di partenza, sfioro con la punta delle dita piccole dei piedi da Bambina la terra, il punto di ritorno, mi slancio indietro con un colpo delle reni. Mi colpisco. E il sapore della morte sul mio respiro è così dolce, sa di pane appena sfornato, burro e miele caldi, e in questa passione mi avviluppo, mi stringo forte attorno a questo metallo di corda e prego per la mia trasformazione, per la magia che tu Dio ti prego devi far avverare, prima che puoi, prima ch’io m’accorga della tua vana esistenza, perché se io ti vedessi qui dinnanzi a me non ti crederei di certo, ma non ti vedo e quindi ti prego incessantemente.

Et quand nous étions enfants,
nous étions toujours en train de rire et couriret
la beauté de cette histoire sans tête ou quoi
mais qui se soucie de toute cette merde!
Et ce n’est pas un mot francais!

Lié Larousse



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