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Di carta moschicida e di ultime pagine.

Da Arturo Robertazzi - @artnite @ArtNite
  • Categoria Cuore

In un corso di scrittura di secoli fa, Alberto Capitta ci diceva che lo scrittore è come la carta moschicida: la vita gli rimane appiccicata addosso; non gli resta che scrivere, e farlo senza pudore.

Un insegnamento che è anche un’immensa consolazione. Quasi al limite della follia: per quanto la vita possa essere stata dolorosa, penso: “ho appena vissuto la scena per il prossimo romanzo”. Anzi, mi capita di giudicare ciò che mi accade con i canoni della scrittura: che dialogo!, che entrata di scena!, il finale di questa storia è davvero ben costruito.

Questa volta, però, nel vivere una scena – che forse finirà, forse no, nel prossimo romanzo -, beh, ci ho lasciato un etto di cuore. È ancora lì, schiacciato sotto i piedi degli avventori del Roses Bar, una macchia rossa sul pavimento. Bevono Martini, si baciano, vanno a pisciare gli avventori del Roses, ma lì a terra, sbiadito, c’è del rosso.

Ne è valsa la pena, credo, che la scena, quando la leggerete a pagina 132 o, non so, a pagina 263, capirete, è stata perfetta: ritmo, dinamica, humour e dramma.

Una scena esatta.

904 giorni fa scrivevo in una nota su questo blog: “and at the end, all will disappear in the final page of a novel”.

Come a dire: che fortuna lo scrivere, ché l’ultima pagina arriva, prima o poi.

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