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Di quando George Clooney ha sostituito Massimo Dapporto

Creato il 03 luglio 2011 da Lacapa

Io ho tre grandissime, gigantesche, paure. La prima sono gli scarafaggi, la seconda sono i funerali, la terza gli ospedali. Insomma, banalmente, ho paura di quello che non so affrontare.

Della mia fobia per le blatte abbiamo ampiamente discusso, in passato, e tediarvi non ha granché senso. Per quanto riguarda i funerali, oh, non ce la faccio e non so proprio che dirvi. Mi prende l’ansia, l’angoscia, l’inadeguatezza, e tutta una serie di altre bruttissime sensazioni che, di solito, diventano panico puro e semplice. Quindi evito, non ci vado, ché tanto di solito la mia assenza non la si nota.

Sugli ospedali, invece, c’è da fare un discorso un filino più complesso. Suppongo risalga tutto a quando guardavo “Amico mio”, la fiction sugli ospedali pediatrici con Massimo Dapporto, perché volevo sapere che fine avrebbe fatto Spillo. Mi piaceva un sacco ma, ahimé, coincideva con E.R., di cui era un’accanita fan Sorella. Lei era più grande e io ero remissiva, quindi mi facevo strapparte il telecomando dalle mani senza particolari resistenze. Però mi lamentavo, e Sorella si arrabbiava, perché non riusciva a sentire le battute di George Clooney. Così, una sera, mise il volume al massimo e mi disse qualcosa tipo: «Guarda come i dottori negli ospedali ammazzano quelle come te!».

Ho creduto per anni che i medici fossero fatti per uccidere la gente, e quando, pochi mesi dopo l’affermazione di mia sorella su E.R., fui costretta a subire una piccola operazione, tentai di evitare l’anestesia con le unghie e con i denti. Intendo letteralmente: credo di aver staccato a morsi un pezzo di braccio a un’infermiera. Mi divincolavo con così tanto vigore che a un certo punto mi ficcarono una siringa in una chiappa neanche fossi una vacca. Prendete nota: mai far togliere a una bimba rompicoglioni le tonsille e le adenoidi, almeno non senza averle detto prima che per un paio di giorni dovrà mangiare soltanto gelato.

Quando sono cresciuta, ho smesso di fare scenate. Mi sono limitata a evitare gli ospedali come si eviterebbe il virus ebola. Che dentro ci fossero mia madre o mia sorella o mio padre o mio fratello (sì, ci sono stati tutti tranne che io) non importava. Sapevo che mi avrebbero colpevolizzata, sapevo che si sarebbero arrabbiati, ma sapevo anche che là dentro avrei dato di matto.

Ho scansato triage e reparti finché Miamiglioreamica mi ha chiesto di accompagnarla a trovare il suo fidanzato dell’epoca, che giocando a calcio s’era procurato lo stesso infortunio di Ronaldo e ne andava fiero. Quindici minuti netti, poi m’è mancato il fiato e me ne sono andata. Un’altra volta ho accompagnato DearLowe, che andava a trovare una vecchia fiamma, e la mia resistenza è migliorata: mezz’ora.

Con un altro amico ho resistito un’ora e qualcosa, ma soltanto perché ci siamo messi sulle scale antincendio e non mi sentivo soffocare tra quelle quattro mura che puzzano di malattia, dolore e disinfettanti.

Erano parecchi mesi (quasi un anno?) che non mettevo piede dentro a uno di quei posti brutti, ma la scorsa settimana il caso ha voluto che l’astinenza fosse interrotta.

A lavoro ho una collega in gamba, con la quale condivido l’ufficio e pure un po’ di chiacchiere. Qualche giorno fa, quando le toccava solo mezza giornata, ha pensato di andare a fare shopping, soltanto che la sfiga non era d’accordo con lei. Le dinamiche dell’accaduto non mi è dato saperle, fatto sta che mi sono ritrovata a correre al pronto soccorso, ché dice che l’avevano investita e non s’erano neanche fermati per chiederle come stava.

Se sei spaventata e preoccupata, mica ci pensi che la gente in camice, le fleblo, la tosse (c’è sempre qualcuno che tossisce, negli ospedali) e le scarpe di gomma non ti hanno mai resa una donna felice.

Sono arrivata in sala d’aspetto, l’ho superata con stoico coraggio, e mi sono diretta all’accettazione, dove sono riuscita a dire nome e cognome della collega: a quel punto mi hanno aperto le porte dell’inferno. Un corridoio lungo e stretto pieno di barelle: uomini anziani, donne anziane, giovani già anziani. Tutto sapeva di stantìo. E poi stanzette minuscole, con sei posti a sedere e una sola finestra, gente che sanguinava e altra gente che ansimava. La mia collega era tutta ammaccata, ma stava bene, sarei dovuta andare via in quel momento. E invece.

Non so quale da quale abisso altruista del mio animo sia venuta fuori la frase «aspetto finché non arrivano i tuoi, tu intanto vai in radiologia», so soltanto che l’ho detto. Dieci minuti dopo, lei tornava da radiologia e io non facevo in tempo a dire «non mi sento granché bene»: trac! Ero svenuta. Proprio, gambe che cedono, occhi che si chiudono, la gente che ti spinge sulla sedia a rotelle e ti dice che devi prendere aria perché sei pallida, e il dottore che ti sfotte, bastardo, perché la tua collega «bell’aiuto che s’è ritrovata».

Che poi aveva ragione, mica dico di no. Solo che un po’ di tatto, un po’ di buone maniere, un po’ di sana ipocrisia.

Recuperata l’energia per reggermi sulle mie gambe, sono scappata. Non avrei dovuto, mi sarebbe toccato restare ancora là dentro, ché la pressione bassa, signoramia. Piuttosto, mi lanciavo dalla finestra.

Quasi correndo sono rientrata in macchina, ho tirato un sospiro di sollievo e ho realizzato: se George Clooney non avesse mai sostituito Massimo Dapporto nel mio immaginario clinico, quella figura di merda non l’avrei mai fatta.


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