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Di Vittorio in sconfitta

Creato il 19 agosto 2014 da Albertocapece

Di-Vittorio-anni-50Anna Lombroso per il Simplicissimus

Andiamo peggiorando, è l’unica certezza che ci resta.

Leggendo le esternazioni di Poletti che addirittura retrocede rispetto a Sacconi e nemmeno ci prova con la leggendaria menzogna che siamo tutti nella stessa barca, imprenditori e lavoratori, che serve coesione e solidarietà tra padroni e servi, perché ormai, lo ha ricordato il Simplicissimus, il vero obiettivo è la creazione di eserciti globali di schiavi, precari, mobili, flessibili che vanno dove i nuovi faraoni vogliono, anche a fare i soldati in guerre più che mai di classe, quella di chi ha sempre di più e non intende rinunciare a nulla contro chi nulla ha… e basta. Si, leggendolo, dovremmo sentir montare con la collera anche la memoria di quando nascevano e combattevano in nostro nome uomini che avevano fatto del riscatto degli umiliati, dei diseredati, degli sfruttati la propria ambizione e la propria sfida in nome delle generazioni future.

Il meritorio sito di Edoardo Salzano ha ripreso in questi giorni il Piano “economico e costruttivo per la rinascita dell’economia nazionale” che Giuseppe Di Vittorio presentò nel 1949 al congresso nazionale della Cgil di Genova, un vero new deal non un’utopia. Anche se così venne tacciata e derisa quella radiosa visione per la rinascita dell’Italia e degli italiani, ancora feriti dalla guerra, da una classe politica pronta al consociativismo, ai prodromi di una artificiosa pacificazione, alla tutela della propria inviolabilità e pronta a rinunciare agli ideali che avevano animato la Resistenza e nutrito la Costituzione di quei principi secondo i quali lavoro e diritti si dovevano considerare irrinunciabili.

Il Piano si sviluppava su tre direttrici: nazionalizzazione dell’energia elettrica con la costruzione di nuove centrali e bacini idroelettrici dove erano più necessari, soprattutto al Sud; realizzazione di un vasto programma di bonifica e irrigazione dei territori per favorire lo sviluppo dell’agricoltura e del settore alimentare; un piano per l’edilizia pubblica per la costruzione di case, scuole e ospedali, finanziato da una tassazione progressiva a carico dei ceti più abbienti, dei gruppi monopolistici e delle società per azioni.

Già così si sarebbero creati oltre 700 mila posti di lavoro, si sarebbe avviata un’opera di risanamento e tutela del territorio e del paesaggio, si sarebbe ricostruito il Paese anche “moralmente”, incoraggiandolo, facendolo uscire dalle secche della corruzione nelle quale l’aveva impantanato il fascismo, investendo sul lavoro, come bene comune e progressivo, indispensabile per lo sviluppo delle donne e degli uomini di tutto il mondo.

Venne schernito o accusato di sconfinare in geografie eversive. Occorreva persuadere i padroni d’oltre oceano e perfino i vinti, che la resistenza si era limitata alla liberazione dalla dittatura e dall’invasore, non l’aspirazione al superamento delle disuguaglianze che il fascismo aveva alimentato con una estesa, profonda e instancabile opera di malaffare, sopraffazione criminale, impoverimento delle classi subalterne e in particolare del Mezzogiorno. Bisognava ridare ossigeno ai grandi gruppi industriale, al padronato, alle imprese, beneficati dai fondi della “ricostruzione”  del Piano Marshall,  e che andavano rassicurati che l’Italia non sarebbe stata contagiata dall’ideologia comunista.

Di quel Piano l’unico atto che venne concretizzato fu la nazionalizzazione dell’energia, costosa, sanguinosa in termini di costi, ma che segnò una vittoria, la prima – e unica – riforma strutturale. Un caso guardato con sospetto in tutti gli anni successivi e da tempo incriminato, in favore delle magnifiche sorti e progressive delle privatizzazioni, dell’egemonia senza alternative del mercato,  dell’ineluttabilità dell’alienazione dei beni comuni.

Venne respinto quel piano, eppure ebbe un effetto formidabile sui lavoratori: si parlava di loro come cittadini partecipi di un grande disegno di sviluppo, che non era certo la rivoluzione, non ribaltava i rapporti di forza, ma metteva il lavoro, operaio e intellettuale al centro, rafforzando le istanze di dignità, le aspirazioni e l’accesso a condizioni di vita e sociali “uguali”, le richieste di diritti e garanzie come vitali e dovute, la trasformazione della Carta in un possibile e realizzabile contratto sociale. Da là sono nate e si sono rafforzate lotte operaie, da là ha tratto energia lo Statuto dei lavoratori, da là siamo tornati indietro, a Pomigliano, a Marchionne, a Renzi, a Poletti, all’abbattimento di quelli che erano legittimamente e necessariamente considerati dei tabù intoccabili, perché con il lavoro, i suoi diritti, si tutelavano l’uomo e la democrazia.

Andiamo peggiorando.


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