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Diario africano - 36/L'erba secca di Santo Stefano

Creato il 29 dicembre 2014 da Mapo
Lacor Hospital, 26 dicembre
"Andiamo a Kitgum!" - sono le 08.00 e un SMS anticipa di un'ora buona la mia sveglia mattutina in questo Santo Stefano ugandese.Il tempo di comprare un po' di cassava fritta di fronte all'ospedale, prendere zaino e macchina fotografica ed eccoci ammassati sul retro della gip di brother Elio. A farci compagnia c'è una giovane ragazza Acholi tra i venticinque e i trent'anni, è una delle cose più nere che abbia mai visto in vita mia. L'unica cosa che so di lei è che ha una paresi agli arti inferiori per cui è rimasta ricoverata circa un mese in ospedale.
"La riaccompagniamo a casa" - mi spiegano non appena monto in macchina.
Kitgum è un posto nel nord-est del paese, in assoluto uno dei luoghi più caldi d'Uganda durante la stagione secca. Siamo nell'East-Acholi, attraversiamo centinaia di Km quadrati senza luce elettrica e ai lati della strada si intravedono le prime macchie nere tra la vegetazione, cicatrici dei roghi che, come ogni anno durante in questo periodo, imperversano quasi ogni notte. Bruciano l'erba, che, passata la stagione delle piogge, domina il paesaggio alta e secca, dovunque.
Diario africano - 36/L'erba secca di Santo StefanoJanet, così si chiama la nostra compagna di viaggio, in realtà abita una cinquantina di Km ancora più ad est, in un villaggio dal nome improbabile che ho dimenticato una frazione di secondo dopo averlo sentito. Qui la strada è solo una somma matematica di tante parentesi di polvere rossa che si fanno largo tra le buche, profonde e irregolari. Sembra di essere su una giostra, gli scossoni a tratti fanno perdere l'equilibrio e riesco solo a immaginare quanta fatica possa fare lei, affetta dalle prime piaghe da decubito. È seduta di fianco a me, le mani ben strette sulla sedia a rotelle per non cadere. Dobbiamo fare più di 150 km. Quando vediamo in lontananza le antenne di Kitgum è ormai l'una di pomeriggio e abbiamo già esaurito buona parte delle cose che ci eravamo portati da mangiare. Il caldo, quando la macchina si ferma un attimo per chiedere indicazioni, diventa insopportabile. Dovremmo ormai essere in prossimità della meta, scaviamo minuscole stradine laterali tra le erbacce e il granoturco. Janet si guarda un pó intorno, impassibile. Sembra non orientarsi troppo in questa vegetazione via via più selvaggia.Non ci vuole troppo tempo per rendersi conto di come non abbia la minima idea di dove siamo. E dire che siamo diretti a casa sua.Improvvisamente, mi rendo conto di non sapere nulla di questa paraplegica che divide con me il sedile di questa macchina e tutti i suoi scossoni. Dal posto di guida Elio attacca una raffica di domande nel dialetto locale che tagliano l'aria. Il caos delle ruote sullo sterrato è mostruoso, loro parlano a bassa voce ma, incredibilmente, si capiscono.Diario africano - 36/L'erba secca di Santo StefanoScopriamo così che Janet passerà buona parte della sua vita su una sedia a rotelle per via di un incidente stradale, che ha due figli piccoli e persino un marito, conosciuto in un campo profughi 12 anni prima, quando il suo villaggio era stato assalito dai ribelli e, insieme a centinaia di altre persone, si era trovata a scappare nel cuore della notte. Si erano sposati, avevano messo su famiglia nei dintorni di Gulu e tutto era andato liscio fino a una grigia mattina d'ottobre.
Nei campi l'erba era ancora alta e verde, le scuole elementari ancora aperte e al Lacor Hospital era da poco arrivato l'ennesimo medico bianco, un (quasi) cardiologo italiano. L'aveva visto da lontano, qualche giorno prima, che se ne andava al mercato, con la macchina fotografica a tracolla e quei buffi pantaloni colorati.Janet stava attraversando la strada, in Uganda non ci sono le strisce pedonali e una macchina azzurra coperta di polvere rossa, in un istante, le ha portato via tutto: dalla possibilità di muovere le gambe a quel brandello di normalità che c'era nella sua vita accidentata. Eh si, perché padre e figli, nel momento in cui aveva più bisogno, l'hanno abbandonata in una stanza del pronto soccorso dell'ospedale Lacor. Piove sempre sul bagnato e quel giorno, a Gulu, pioveva un casino.Questa ragazza un po' esaurita che ride quando le si offre una liquirizia e non si ricorda la strada di casa si trasforma nella più sfortunata delle creature, sola sulla terra e appesa ad un singolo residuo brandello di speranza: ritrovare i suoi genitori in questo angolo di mondo in cui non tornava più da quando era una bambina.
A quanto pare cerchiamo una scuola elementare, quella dove a suo tempo ha imparato a far di conto. Era l'unico edificio in muratura del circondario e ci ritroviamo tutti a sperare che qualcosa sia rimasto sino ai giorni nostri. Nell'east-Acholi, dal passato recente in cui i ribelli rapivano i bambini per costringerli a combattere contro l'esercito di Museveni, è cambiato un po' tutto: ora le persone mangiano carne anche più di una volta a settimana, i figli vanno a scuola mentre i padri lavorano nei campi, si ride di più e in quelle piccole baracche riadattate a negozi che si susseguono ai bordi delle strade sono spuntate bottiglie di soda e rotoli di carta igienica. L'erba, quella si, è sempre lì, finalmente gialla, secca, in attesa della miccia che la accenda a fuoco. Qui e là l'orizzonte è punteggiato da chiome verdi e fluenti: sono gli alberi di mango ad indicare dove una volta c'erano i villaggi. Lì sotto sedeva il consiglio degli anziani per risolvere i problemi, governare le dispute o anche solo riposare qualche ora al riparo dalla canicola. Qualche volta nei dintorni, le capanne ci sono ancora e quando ci si passa davanti il rumore del motore richiama all'esterno intere famiglie che agitano la mano per salutare i muzungu; altre volte non rimane più nulla che sia scampato alla furia dei ribelli. Solo quegli alberi e le loro fronde, sotto le quali è vento e fresco.Diario africano - 36/L'erba secca di Santo StefanoCarichiamo a bordo un ragazzo con una maglietta verde fosforescente, i denti davanti che sporgono un po' e un'inequivocabile puzza di alcool. Serve ad indicarci la via. Ogni tanto Janet alza la testa un po' di più, allunga lo sguardo fuori dal finestrino come se riconoscesse qualcosa ma poi le torna quel vuoto negli occhi. Proseguiamo tra cespugli tutti uguali, piccole colline calcaree e sparuti gruppi di capanne arse dal sole.
E poi, finalmente, la vediamo farsi largo tra le foglie: la scuola. Due grossi edifici di mattoni con un tetto rosso a segnare due lati di un ampio cortile dove alcuni bambini giocano a rincorrersi. Lei la riconosce subito. Attraverso le aperture di porte e finestre si scorgono cumuli di banchi di legno e una lavagna nera su cui non si distingue nessuna scritta. Eccola lì, la piccola Janet di tanti anni fa, seduta nel banco davanti con la divisa gialla, il mento appoggiato su una mano, accaldata e distratta. Che mai sarà questo rumore che copre la voce della maestra? Sembra un motore acceso. Alza lo sguardo e si vede, tanti anni dopo, ormai adulta, seduta sul retro di una macchina bianca che prosegue in direzione di casa sua. E si ricorda tutto.
C'è sempre un ampio spiazzo tra questi gruppi di capanne rotonde col tetto di paglia, diviso equamente tra bimbi che giocano, animali che attendono di mangiare o di essere mangiati e donne che stendono migliaia di semi ad asciugare al sole. Parcheggiamo lì, noto che il ragazzo con la maglietta verde che ci ha guidato finora si agita un po'. Postumi da sbornia, penso saccente. Ancora prima di scendere dalla macchina stringiamo attraverso i finestrini le mani di un vecchio patriarca sdentato venuto ad accoglierci; nell'altra mano il bastone e indosso una canottiera nera macchiata di vernice. Segue un breve ma accorato discorso in Acholi in cui vengono frullati insieme lunghi anni di guerra civile, intere famiglie smembrate e un presente così difficile da ricostruire. 
La donna sulla carrozzina guarda il signore con la canottiera nera e riconosce suo padre.Il signore con la canottiera nera guarda la donna sulla carrozzina e riconosce sua figlia.Il ragazzo con la maglietta verde guarda il signore con la canottiera nera e lo chiama papà.La donna sulla carrozzina guarda il ragazzo con la maglietta verde e forse si ricorda di quel bambino ancora piccolissimo, gattoni sul pavimento della capanna, che non aveva fatto in tempo a salutare, quella notte lunghissima di tanto tempo fa.I bambini ridono, alcuni piangono, c'è un maiale che si riposa all'ombra di una lamiera e gli insetti si fermano un po' per non essere visti. Diario africano - 36/L'erba secca di Santo StefanoFaccio una foto e mi giro verso una collega che viene in Africa da qualche tempo. Beve un po' d'acqua dalla borraccia, appoggiata alla macchina. Mi guarda e alza le spalle, ormai ci ha rinunciato, spiega, a trovare un senso in tutto questo.
Anni fa in una puntata speciale di Report Milena Gabanelli ("una mangiapreti, ma che sa fare bene il suo lavoro") chiese a un padre comboniano da cinquant'anni in Uganda, tale Tarcisio Pazzaglia, da Kitgum, se avesse mai visto un africano piangere, stupita come tutti dalla disarmante impassibilità di queste persone.
Non ricordo cosa rispose lui, ma di certo Janet, quando salutiamo dalla macchina sulla via del ritorno, ha le lacrime agli occhi.

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