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Don Raffaele

Creato il 23 marzo 2011 da Fabry2010

di Giacomo D’Angelo

Don Raffaele

Raffaele Mattioli


È difficile tratteggiare in un breve intervento una figura eccezionale come quella di Raffaele Mattioli, la cui personalità straripante e multanime, poliedrica ed eclettica, di onnivora curiosità intellettuale e di operosità innovatrice, non ha eguali nel ’900, se si tengono a mente alcuni giudizi che su di lui espressero uomini illustri. Si pensi soltanto alle parole di Eugenio Montale:«Resta raro e quasi incredibile che le due componenti — l’economia e l’humanitas — si siano integrate senza produrre un monstrum, un uomo più ammirevole che accostabile». Di Giulio Einaudi: «Mattioli è stato il precursore di un uomo europeo che ancora non c’è» Di Giorgio Amendola: «Mattioli era un uomo che pensava con la sua testa, che non cercava compiacenti ed equivoci consensi, che sapeva di poter dire a tutti, con la massima fermezza, il suo pensiero, per severo e critico che fosse». E si potrebbe continuare con altri elogi non solo di italiani.

Ho avuto la fortuna di curare un programma televisivo per la RAI e di intervistare interlocutori illustri come Montanelli, Malagodi, Natalino Sapegno, Valiani, Gaetano Afeltra, Franco Rodano, e altri: pertanto utilizzerò i loro contributi per un ritratto di Mattioli che non sia del tutto schematico.

Nato a Vasto(20 marzo 1895), studia a Chieti e a Genova presso la Scuola Superiore di Commercio. La sua scelta sorprese i genitori, ma lui spiegherà più tardi i motivi: «L’economia è contemporaneamente storia e filosofia, e la sua filosofia, qualche volta astrusa, è sempre connessa alle miserie e alle speranze umane». Il 24 maggio 1915 parte come volontario per la Grande Guerra, «sportivamente, io che non so neanche andare in bicicletta», si guadagnò due medaglie al valore, fu ferito al braccio da una bomba. Poi cedette al fascino dell’avventura dannunziana di Fiume, ma la sbornia per il Comandante gli passò subito e se ne andò via, inseguito dalle parole roventi del d’Annunzio che così lo lapidò: «Odio i ragionatori che hanno il cervello incallito come il ginocchio del dromedario del deserto». I due corregionali non s’incontrarono più, ma spesso, tramite intermediari, il Vate busserà a quattrini tramite l’editore Treves alla Comit di Mattioli.

Il suo maestro, Attilio Cabiati, docente di economia politica a Genova e all’Università Bocconi di Milano gli propone di occuparsi del mensile dell’Associazione Bancaria. Conosce Luigi Einaudi, si lega di profonda amicizia con Piero Sraffa, aiutandolo nella tesi di laurea. Coltiva rapporti con Carlo Rosselli, Paolo Vita-Finzi, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Claudio Treves. A 27 anni viene nominato segretario generale della Camera di Commercio di Milano. A 30 anni viene assunto come segretario particolare di Giuseppe Toeplitz alla Comit, dove rimarrà fino al ’72, percorrendo le tappe di una carriera vertiginosa: direttore generale, amministratore delegato, presidente. Grande era la stima che per lui nutriva Giuseppe Toeplitz, successore di Otto Joel, fondatore della Comit con Federico Weil. Di Joel e Toeplitz, entrambi ebrei, Mattioli dirà: «L’uno e l’altro furono grandi italiani, pur se l’ignara casualità dell’anagrafe li aveva fatti nascere in terra straniera. La banca fu lo strumento e il veicolo della loro italianità, fedeli al principio che la banca deve attingere forza e prosperità nel dare forza al Paese. Dal loro esempio ho tratto rispetto per quello che si fa, la coscienza morale della professione».

In quegli anni, la Banca Commerciale, nata nel 1984 («siamo coetanei», ripeteva Mattioli) come banca mista, era divenuta la più grande delle banche d’affari avendo promosso lo sviluppo industriale italiano (industrie tessili, idroelettriche, ferrovie, cantieri navali) con capitale di rischio, in funzione del profitto e contro ogni forma di rendita. Le banques d’affaire «erano istituti di credito mobiliare legati a filo doppio alle sorti delle industrie del loro gruppo». La crisi del ’29, con la recessione economica, mette in pericolo la banca ormai sbilanciata nel sostegno ai «giganti malati» dell’industria, legati ad essa da una «mostruosa fratellanza siamese». La politica inflazionistica del regime è un disastro.

Toeplitz elabora con Mattioli un memorandum per Mussolini, che teorizza per la prima volta l’economia regolata. Mussolini lo apprezza. «Ignorante di economia, diffidente verso il mondo degli affari che sapeva freddo verso di lui» (Malagodi) e poco tenero con i sostenitori del corporativismo, Mussolini, guidato dal suo pragmatismo, affida a uomini che non erano fascisti (Attilio Beneduce, Donato Menichella, Mattioli) il compito di affrontare l’emergenza, passando dal vecchio capitalismo dei capitani d’industria al capitalismo manageriale. Se tutto avvenne in modo indolore, senza che le istituzioni finanziarie venissero soffocate da uno statalismo dirompente, lo si deve a Mattioli. Nasce l’IRI, Toeplitz si dimette, Mattioli gli succede, riservandogli sempre devozione e riconoscenza.

Nel ’37 Mattioli, alla guida di un Istituto con legami internazionali, si è conquistato un ruolo di tale autonomia verso il regime fascista da creare un prestigiosissimo Ufficio Studi, affidato ad Antonello Gerbi, nel quale si forma un’intera generazione di politici italiani del postfascismo, grazie alla conoscenza di Keynes (fatto tradurre dal Mattioli) e degli economisti americani in anni di autarchia e di soffocante provincialismo per l’Italia. Mussolini, che di economia è digiuno, se ne serve senza scrupoli, facendolo controllare dalle spie dell’OVRA, presenti anche fra gli impiegati.

Durante il fascismo la Comit divenne il rifugio degli antifascisti, dei perseguitati politici, degli ebrei («sono un ebreo onorario», diceva lo stesso Mattioli), degli economisti non allineati e in odore di eresia, per molti dei quali Mattioli escogita dislocazioni e trasferimenti in filiali estere, come per Giovanni Malagodi, Giuseppe Saragat a Vienna, Giorgio Mortara in Brasile, Ugo La Malfa («era in casa di Mattioli — ha scritto quest’ultimo — che la cultura antifascista aveva permanente accesso e diritto di presenza»), Antonello Gerbi, che fu inviato al Banco Italiano Lima del Perù e che tornerà nel ’48 con la prima edizione spagnola del libro La disputa del Nuovo Mondo, un classico ormai dell’americanistica. Luigi Einaudi disse di Mattioli: «Un eretico difensore degli eretici e protettore dei perseguitati». Un giorno, Arturo Bocchini, il capo della polizia fascista, «viceduce» e «controllore di tutti gli italiani», come l’ha definito una sua biografa, disse a Mattioli: «Voi venite a raccomandarmi gente da salvare dal confino, ma quando sarà il vostro turno chi vi raccomanderà?» E Mattioli: «Voi».

Mattioli diceva di se stesso: «Sono un liberale con una tale dose di anarchia che mi consente di non essere necessariamente democratico. Sono un conservatore, con una tale dose di senso storico che mi consente di non essere necessariamente anticomunista». Amava collocarsi «tra gli oppressi» come Ermengarda, uno dei personaggi manzoniani, che spesso citava con don Ferrante, sul quale negli ultimi anni di vita pensava di scrivere un saggio critico. C’era in lui il gusto della civetteria intellettuale, ma il sentimento e le idee di antifascista erano di piena, naturale convinzione.

Come si conciliava il suo ruolo di banchiere dell’Italia mussoliniana e di avversario non solo ideologico del regime fascista? Tra quelli che ho intervistato nel mio documentario televisivo, tre di essi, Franco Rodano, Leo Valiani e Indro Montanelli concordano sull’autenticità del suo antifascismo. Franco Rodano, cattolico comunista, fondatore della «Rivista trimestrale» con l’economista abruzzese Claudio Napoleoni (del tutto dimenticato e ignorato nella sua terra, nonostante i suoi ultimi libri, interessanti come testimonianza di ricerca quale credente), tra i teorici del compromesso storico, consigliere di Palmiro Togliatti e meno direttamente di Enrico Berlinguer, narra di quando Mattioli, dopo aver letto un suo articolo a difesa dell’IRI sul settimanale dei cattolici comunisti «Voce operaia», lo mandò a chiamare. Nacque una relazione intensa di amicizia e fruttuosa di approfondimenti su temi economici e politici. Rodano invitò spesso Mattioli nella villa romana di sua moglie, Marisa Cinciari, più volte deputata e senatrice del PCI, dove conobbe Togliatti, ne divenne amico, intrecciò con lui conversazioni accalorate di politica economia e letteratura, proclivi entrambi allo sfoggio erudito e alla cultura accademica. Di Mattioli, Rodano diceva: «Legato al liberalismo storico, a quel grande movimento rivoluzionario che aveva sconfitto e liquidato in buona parte tutte le false libertà feudali e che attraverso la borghesia intendeva riunificare la società liberandola dei pesi morti, Mattioli vedeva nel movimento operaio italiano la nuova forza significativa, capace di opporsi ai nuovi privilegi … fu quindi convinto dell’utilità della Resistenza, dall’interno del Paese e dello Stato … ha sempre distinto tra il mondo privato delle amicizie e la sua professione … non si può dire che ha favorito il potere fascista…». Leo Valiani: «Mattioli fu naturalmente vicino alla Resistenza, fondò la Nuova Europa con Luigi Salvatorelli … Mussolini che rispettava i tecnici, forse perché conosceva la sua impreparazione, lo lasciò fare … Mattioli, amico di Carlo Rosselli, di Filippo Turati e di Antonio Gramsci, dette alla Resistenza un aiuto morale e organizzativo, la visse a Roma e con Alfredo Pizzoni del Credito Italiano la finanziò…». Indro Montanelli, che, nel ricevere la troupe televisiva la regista e chi parla, abbandonò subito l’espressione burbera e si intrattenne a lungo, commosso e compreso, nella rievocazione di Mattioli con il fascismo, disse tra l’altro: «Il fascismo rispettò la personalità di Mattioli, pur sapendo di non poterlo considerare un servitore del regime … Mattioli, erede della Comit di Toeplitz, la guidò con assoluta libertà … il suo atteggiamento verso il fascismo fu abilissimo, seppe difendere l’indipendenza della banca da ogni ingerenza politica … Come? Con lo charme, l’incanto, era un grande incantatore … ci cascavano tutti…».

Gaetano Afeltra, una vita di grande giornalista tra «Corriere della Sera», «Corriere d’Informazione», «Il Giorno», appassionato e smagliante memorialista delle vicende del giornalismo italiano, così parlò di Mattioli: «Mattioli fu un uomo libero nel senso più alto della parola, indipendente e coerente, il suo era il pensiero di un uomo che in ogni cosa rispettava il principio liberale … si disse di lui che era comunista o conservatore, no, Mattioli era tutto, vicino a tutti nei bisogni piccoli e grandi con la sua attività di banchiere e prodigo di suggerimenti intuizioni consigli a letterati scienziati artisti … tutti devono qualcosa a Mattioli … ogni volta che si parlava con lui era un arricchimento…». Francesco Cingano, uno degli ultimi amministratori delegati della Comit con Carlo Bombieri, pupillo laico di Mattioli, così si espresse: «L’indipendenza dal potere politico in Mattioli non fu disinteresse per la polis, per le cose che accadono nel Paese, ma un distacco da indebite ingerenze … Mattioli inoltre non ha mai amato la pubblicità, durante i quarant’anni del suo consolato ha conservato quel tipo di discrezione che era stato di una generazione prefascista … ha lasciato un grande segno in tanti campi ma rifuggiva dai riflettori … concedeva pochissime interviste, amava piuttosto fare conferenze, come quella bellissima e famosa del 1961 a Venezia sul ruolo del capitale finanziario».

Il 28 maggio1947, nei tempi in cui Winston Churchill coniò la fortunata definizione del mondo diviso da una «cortina di ferro», in piena crisi politica, quando Alcide de Gasperi stava per estromettere i partiti di sinistra dal governo, Mattioli, poco favorevole alla rottura, scrisse una lunga lettera a Togliatti. «Siamo malati da tempo — è un passo della lettera — la malattia è il disfacimento della moneta e del credito … occorre determinare un nuovo corso che può salvare l’essenziale e ricondurci al tempo della salute… (per salute intendeva) la restaurazione di quelle condizioni minime del vivere civile e di quel minimo di margine economico, senza il quale non si può pensare né a conservare svecchiandolo quel che c’è da conservare, né a innovare quel che c’è da innovare, anche da molto profondamente e radicalmente innovare … la sana finanza oggi, in Italia, non è un interesse reazionario, è un interesse nazionale, di tutta la nazione, e se a qualcuno deve importare più che ad altri è proprio a quei ceti a cui il Suo partito si dirige, e che più devono tenere a che, finalmente, dopo i lunghi anni di trattenimenti vari sulla loro pelle, lo Stato sia amministrato in modo da tutelare le loro riserve ed esigenze vitali, almeno nella modesta misura in cui la realtà italiana e mondiale lo consente».

Sia Togliatti che Giorgio Amendola, amico di Mattioli sin dal ’31, invitarono più volte il banchiere a candidarsi per il senato nella Sinistra Indipendente, ma la risposta fu sempre negativa. Mattioli, inflessibile nella sua autonomia, rifiutava ogni volta la proposta «perché — ha scritto Sandro Gerbi — credeva di compiere un lavoro più utile per il Paese restando al posto che occupava con tanta autorità». «Mi dispiace di non poterlo chiamare compagno», fu una battuta di Togliatti. Anche De Gasperi offrì a Mattioli un dicastero a sua scelta: «Pubblica istruzione con budget quadruplicato», pare rispondesse l’interpellato. Ovviamente tutto si spense nella provocazione della risposta.

Nell’autunno del ’44 Mattioli va in America, a Washington, inviato dal governo di Ivanoe Bonomi a trattare gli aiuti americani all’Italia sconfitta. Sono con lui Quinto Quintieri, ex ministro delle finanze del governo Badoglio, l’ambasciatore Egidio Ortona ed Enrico Cuccia, futuro presidente di Mediobanca su proposta dello stesso Mattioli. La missione, prevista per pochi giorni, si protrae per 4 mesi, con spese di soggiorno affrontate con un prestito che Mattioli ottiene da una banca americana. In un clima difficile ed incerto, mentre il governo Bonomi si dimetteva, gli italiani erano guardati con sufficienza e fastidio, ma il banchiere abruzzese s’impone all’attenzione ostile dei banchieri di Wall Street. Dapprima come un «cane in chiesa», poi uno dei «cinque cervelli» della corporazione monetaria della Banca Mondiale (Rothschild, Abs, Harcourt, Mayer). Conquistati dal fascino, dal calore umano, dall’abilità negoziale, dalla personalità spumeggiante di fantasia, gli americani, pur avari nel concedere aiuti, non gli risparmiano elogi. A don Raffaele mancarono in quei giorni il suo barbiere personale, il pugliese Onofrio, un poeta amico con cui parlare di Manzoni, ma non i peperoncini rossi che Gaetano Afeltra gli faceva arrivare dalla sua Amalfi, «lucidi come maioliche» e non «arrepecchiati». Dopo l’esperienza di Washington, Mattioli inizia una serie di missioni diplomatiche all’estero, anche nei paesi comunisti, che gli valgono cariche prestigiose, quale riconoscimento del suo valore internazionale: vicepresidente della Banque Francoise et Italienne pour l’Amérique  du Sud e della Banca Svizzera Italiana, membro della Royal Economic Society di Londra e dell’American Association di Chicago, consulente dell’International Finance Corporation di Washington.

Mattioli, in anni non ancora mediatizzati, era poco noto alla maggioranza degli italiani, gli archivi dei giornali non possedevano sue fotografie, rimaneva fedele ad un culto riservato della sua immagine. Ma, nel 1962, la sua partecipazione ad un dibattito nell’unica rete televisiva della RAI sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica, gli assicurò un’ondata di popolarità. All’ingegner Vittorio De Biasi, presidente dell’Associazione degli elettrici (Anidel), che annunciava con toni funerei catastrofi «sovietiche», Mattioli, vivacissimo e pungente, obiettò:«Anch’io non sono d’accordo con le nazionalizzazioni, ma non credo ai cataclismi. Mi preoccupa il fatto che a voi imprenditori cadranno addosso un numero enorme di miliardi e non saprete che farne». Era una frecciata ai «baroni delle rendite» che lui non stimava particolarmente, aveva definito gli imprenditori «senescenti minorenni» cui affidare la «toga virile». Secondo Guido Carli, Mattioli «non ha mai nutrito per loro una stima eccessiva; li ha giudicati, nella maggior parte dei casi, impari al compito gravoso che avrebbero dovuto assolvere in un paese complesso come il nostro; impari per cultura, per fantasia e per coraggio».

Per Mattioli le imprese andavano assistite nella loro necessità di credito («… la banca è come la cantina di Auerbach dove si può scegliere tra sciampagna, Tokai, Borgogna, Reno…»), ma concedendo fidi su valutazioni razionali, evitando il «credito agevolato» («… chi reclama un taglio negli interessi da pagare, si conferma ipso facto fuori del mercato…»). Le imprese non devono contare su «favori, assegnazioni e regali» ma nella loro autonoma «capacità di reddito»: era il suo imperativo ricorrente. La Comit di Mattioli, il cui «mondo non è mai stato quello della burocrazia ma quello dell’immaginazione» (Guido Carli), ha sempre sostenuto le imprese capaci di realizzare il profitto («una funzione socialmente necessaria») in un regime di concorrenzialità. Questo il motivo in virtù del quale «le posizioni di rendita non hanno mai trovato né la sua adesione intellettuale né l’appoggio creditizio del suo istituto» (N. Colajanni). Era scettico verso la politica degli incentivi per il Mezzogiorno, sostanzialmente assistenziale, rifiutava la visione da eterno pianto greco di molti meridionalisti e fece sempre il possibile per contrastare l’impoverimento culturale e imprenditoriale del Sud. Accettava con riserve la programmazione purché non fosse «un corsetto ortopedico, sia pure modellato sul torso dell’Apollo del Belvedere» (Relazione Comit, 1964).

Le sue relazioni annuali agli azionisti (con Antonello Gerbi quale ghost writer) erano partiture musicali di scienza finanziaria e di scrittura, nitide nello stile e originali nelle calzanti citazioni storico-letterarie. Le attendevano golosamente un filologo come Gianfranco Contini («Se fossimo più giovani, diremmo che ricorderemo per un pezzo l’attesa della sua relazione annua sull’attività della sua banca. Un Galiani aggiornato pareva reggere la penna che vergava quei capolavori di spirito, dove perfino il non tecnico stava, o s’illudeva, a suo agio»), un artista cosmopolìta come Alberto Savinio, uno scrittore come Giovanni Arpino. «Intonare il Novus ordo sarebbe certamente prematuro. Ma non è dubbio che l’aria è cambiata. Gli umori economici sono meno atrabiliari. Una bava di vento increspa le vele. Nunziatrice dell’alba già spira una brezza leggera leggera»: è l’incipit della relazione del 1965.

Mise un miliardo di lire a disposizione della costituzione dell’ENI. Il beneficiario, Enrico Mattei, presidente dell’ENI, che finirà misteriosamente assassinato, gli manifesterà sempre gratitudine, inviandogli spesso salmoni e trote, che Mattioli ricambiava con ringraziamenti in rima. Rimase tra loro l’ombra di una contenuta confidenza se Mattei confessava: «un gran borghese, uno studioso, ed io sono un semplice ragioniere…» (Giancarlo Galli).

Non si atteggiava ad esperto di banca, sbertucciava il linguaggio astruso degli econometristi e quello«incomprensibile» dei politici («Quanti deputati sfogliano il bilancio dello Stato? Dieci, venti, venticinque, come i lettori di don Lisander»), ripeteva che la lettura di un romanzo di Balzac era più utile di un trattato di economia e che tra i bilanci e la poesia esistono parentele: entrambe sono opera di fantasia. E aggiungeva: «Stendhal diceva che un buon filosofo può sempre diventare un buon banchiere». Diceva anche: «Il bilancio è un fatto politico, la risposta alla domanda ‘chi paga’ riguarda il fondo della politica…».

Ma cosa pensava del potere don Raffaele e come esercitava la sua autorevolezza? A Corrado Stajano che lo intervistava disse: «Giolitti non aveva vanità di potere, era soltanto uno che pensava. Io ritengo che il gusto del potere non l’abbia mai sentito. L’autorità non è qualcosa che emana dal fatto di esercitarla, ma dal seguire la voce delle cose, cercando di capire che cosa sta succedendo». Parlava di se stesso?

Montanelli nel nostro incontro disse: «Mattioli non amò il potere, amava ispirare quelli che avevano il potere, non era un uomo di potere, un padrone autoritario, ma un ispiratore, un padre Giuseppe che cercava di persuadere gli uomini che avevano il potere a fare le cose che riteneva giuste … non imponeva niente a nessuno ma suggeriva, convinceva, ispirava…».

Fin qui il Mattioli banchiere, economista, inventore geniale di istituzioni finanziarie (IRI, Mediobanca) che, pur fatte degenerare da epigoni senz’anima, resistono all’usura del tempo. Ci sarebbe ora il capitolo sull’umanista. Non basterebbe un libro, per cui  mi limiterò a pochi cenni. Dagli anni Venti in poi non c’è impresa o evento editoriale e artistico o riguardante beni culturali che questo instancabile suscitatore di idee e di energie in campi diversi non abbia concepito, promosso, aiutato e salvaguardato. Fu editore, amico e ispiratore di editori, finanziatore di edizioni rare e raffinate, di premi letterari, di riviste letterarie, di atenei. Fu definito «vero e ultimo mecenate delle lettere italiane» (Gian Carlo Ferretti), anche se Giulio Einaudi precisò che «non fu mecenate perché non chiese mai contropartite all’arte e alla cultura, ma le spronò sempre alla ricerca, all’approfondimento, e tese a liberarle d’ogni forma di servilismo».

Questo «uomo di lettere e di cifre» (così Croce lo definì) fu un «grande impresario di cultura, alla Vieusseux, con respiro europeo» (Spadolini), «un fomentatore di cultura umanistica su scala rinascimentale» (Valiani). La sua passione predominante furono i libri, ma considerava i bibliofili dei filatelici, ossia collezionisti di libri che non leggevano, mentre lui li leggeva con ansia «erasmiana» (Spadolini), li annotava fino a notte inoltrata, tanto da far esclamare a Benedetto Croce, dapprima abruzzesemente diffidente verso il conterraneo: «Mattioli dice di aver letto molti libri e li ha letti davvero!». Finanziò nel 1925 «La Fiera letteraria», diretta dal suo amico abruzzese, Giovanni Titta Rosa. Poi «Nuova Europa» (Pietro Pancrazi, Guido De Ruggiero, Morra di Lariano), lo «Spettatore Italiano» (Raimondo Craveri, Elena Croce), «La Cultura» diretta da un altro abruzzese, il francesista Cesare De Lollis. Soccorse almeno due volte Giulio Einaudi nella sua impresa editoriale, coniando il motto latino Spiritus durissima coquit, che campeggia nelle edizioni dello Struzzo. Aveva un amore fisico per la carta, mentre «la sola carta stampata che non fosse di suo gusto era quella delle banconote che non voleva moltiplicare in misura tale da incoraggiare l’inflazione che aborriva». Nel 1966 convince Roberto Longhi a istituire una Fondazione per preservare la biblioteca e la fototeca del grande critico d’arte. Nel ’70 dona alla Biblioteca Sormani di Milano il Fondo Stendhaliano-Bucci, costituito dai libri dello scrittore francese. Nello stesso periodo acquista la casa editrice del napoletano Riccardo Ricciardi e nel ’51 esce il primo volume della collana, Letteratura italiana, storia e testi, diretta da lui stesso, dal filologo Alfredo Schiaffini, dal critico Pietro Pancrazi, cui si unirà in seguito Natalino Sapegno. Quel primo volume di una collana che ha superato i novanta testi era un’antologia di brani dell’opera di Benedetto Croce, curata dallo stesso filosofo, che, per suggellare il forte sodalizio con Mattioli, gli dedicò il libro Indagini su Hegel e nuovi schiarimenti. Quando fu annunciata l’impresa, Togliatti chiese a Mattioli: «Ma a che serve oggi una collana di classici?» La risposta fu: «Io ho costruito un muro. Finché non avete digerito i libri di questo muro non potrete fare neppure un saltino così». Inutile dire che per la collana aveva messo al lavoro il Gotha della cultura letteraria, filologica e storica. Fu «un’eminenza tutt’altro che grigia dell’editoria italiana degli anni che vanno dal 1930 alla sua morte» (Vigevani), prodigo di consigli per Arnoldo Mondadori, Angelo Rizzoli, Federico Gentile della Sansoni, Giulio Einaudi, Scheiwiller, il Polifilo di Alberto Vigevani, l’Adelphi di Luciano Foà, l’Electa per la quale concepì e finanziò la grande collana dei Musei Civici milanesi. Nell’aprile del ’46 fondò con il filosofo Antonio Banfi e con Elio Vittorini la Casa della Cultura di Milano. Innumerevoli gli interventi a favore di periodici famosi: «Il Mondo» di Pannunzio, la «Rivista trimestrale» di Franco Rodano, il premio Bagutta (Orio Vergani lo ricorda nel suo diario postumo), le Edizioni di Storia e Letteratura del suo amico don Giuseppe De Luca. Una volta un cronista americano, vedendolo con l’Aminta del Tasso in mano, gli chiese: «Ma scusi, lei non è un banchiere?». Mattioli rispose: «Yes, incidentally». Citava volentieri Seneca, Dante, Manzoni, Baudelaire. Tradusse sonetti di Shakespeare, il Kubla Khan di Coleridge. Recitava a memoria poesie del Ta-pù di Modesto Della Porta e interi brani della Figlia di Jorio e liriche dell’Alcyone. Parlava quattro lingue, spagnolo, francese, inglese e tedesco, ma — ha detto Montanelli — «con accento abruzzese». Dopo la morte di Croce assunse la direzione dell’Istituto di Studi Storici di Napoli, salvando il grande patrimonio crociano. Nei disastri delle alluvioni di Firenze e di Venezia fu tra i primi ad intervenire concretamente e a sollecitare un Fondo Internazionale. Per la sua mostruosa capacità di lavoro e per la generosità dell’impegno verso il salvataggio dei beni culturali presenta aspetti similari al d’Annunzio poco conosciuto. È stato Giovanni Malagodi ad accostare la figura proteiforme e versatilmente sfaccettata, polytropos, di Mattioli a due grandi europei: l’economista inglese, Lord John Maynard Keynes (fu Sraffa a farli incontrare) e Walter Rathenau, intellettuale raffinatissimo, propugnatore di un’Economia Nuova (neue Wirtshaft), ministro della Ricostruzione e degli Esteri nella Repubblica di Weimar, assassinato il 24 giugno 1922. Da lui Robert Musil trasse ispirazione per il suo romanzo L’uomo senza qualità. «Soprattutto con il primo — ha detto Malagodi — le affinità erano profonde … la stessa completezza umana, anche se arzigogolata nell’inglese, calda nell’italiano…».

Immerso religiosamente nel lavoro, aveva in uggia le ferie, le considerava «una vergognosa malattia»: soltanto una settimana a Nozzole, dove sostavano Croce, Contini, Gadda. Diceva: «Solo la gente che non sa vivere discrimina fra lavoro e hobby. Nessuna ora e tutte le ore sono subsecivae: l’ozio e il lavoro, a un certo livello, sono la stessa cosa. La torta è la torta, e l’uomo è l’uomo, non si può dividere». Francesco Cingano nella sua intervista per la Rai ha detto che i collaboratori diretti di Mattioli dovevano ricorrere a discorsi contorti quando annunciavano le loro ferie: «il problema di come informare Mattioli che si andava in ferie era drammatico … lui non chiedeva dove e con chi ma quanto tempo sarebbero durate…». Un russo bianco poliglotta, fedelissimo di Mattioli, Valentino Bona, ex segretario di Cicerin (ministro degli Esteri dell’URSS fino al ’29), era il parafulmine abituale delle sue sfuriate. Dovette fingersi sordo, per andare in pensione dopo gli ottanta anni.

Sin dagli anni Trenta, quando abitava in via Bigli e poi in via Morone, tra la casa del Manzoni e la sede della Comit, ma anche nella sede romana della Banca di piazza Santi Apostoli e nella sua fattori toscana, a Nozzole, frequentava e riceveva fino a notte alta scrittori, artisti, studiosi di varie discipline, politici. «Credo che nessuno e mai più i nostri odierni uomini politici — ha scritto Alberto Vigevani — abbia avuto, negli anni in cui Mattioli esercitò il suo potere, una corte tanto vasta che comprendeva ogni campo della cultura e del lavoro». L’elenco dei frequentatori delle sua case o dello studio surriscaldato alla Comit, con l’ampia scrivania di noce e un tavolo accanto, ricolmo di statuine di asinelli in gesso, in osso, in terracotta, in argento, è impressionante. Soltanto qualche nome, Gli scrittori: Carlo Emilio Gadda (che gli dedicherà le Novelle dal ducato in fiamme con le parole: «A Raffaele Mattioli, despota dei numeri veri, editore dei numeri e dei pensieri splendidi, in segno di ammirata gratitudine»), Umberto Saba, Eugenio Montale, Arrigo Cajumi, Giovanni Titta Rosa, Gianfranco Contini, Luigi Salvatorelli, Mario Praz, Curzio Malaparte, Natalino Sapegno, Luigi Russo, Federico Chabod, Guido De Ruggiero, Franco Venturi, Rosario Romeo, Alfredo Schiaffini, Gianni Antonini, Pietro Pancrazi, Francesco Flora, Sergio Solmi, Giani Stuparich, Guido Piovene, Mario Soldati, Rossana Rossanda. I politici e gli economisti: Leo Valiani, Ugo La malfa, Giovanni Malagodi, Giuseppe Saragat, Palmiro Togliatti, Giorgio Amendola, Franco Rodano, Bruno Visentini, Guido Carli, Enrico Mattei, Angelo Costa, Anna Bonomi Bolchini, Edmond de Rotschild, Gustav Myrdal.

In queste serate teneva banco: affascinante e vulcanico. Ha scritto Montale: «Forse non esiste un Eckerman, uno scriba che abbia raccolto il meglio dei giudizi dei bon mots dell’incomparabile conversatore che Mattioli fu…».

Ma quale cultura prediligeva Mattioli?

Ha detto Montanelli: «Quando Croce conobbe Mattioli fu diffidente, pensò che era un orecchiante, ma poi ammise di essersi sbagliato, perché quello di Mattioli era amore autentico per la cultura … spesso ci azzuffavamo, amichevolmente s’intende, sulla concezione che lui aveva della cultura, l’amore per la cultura libresca, a lui l’accademismo piaceva, mentre io lo considero un male italiano … ma nel giudizio sui valori non sbagliava … lui scartava la giovane cultura italiana, ma aiutava i giovani, se riconosceva un talento era pronto a sostenerlo … se Mattioli fosse nato in Francia avrebbe intere librerie a lui dedicate, ma in Italia viene dimenticato … questo è un paese che spreca i suoi talenti … gli italiani non sono un popolo, sono accampati in Italia, come cavallette che devastano ogni cosa…».

Dall’amico Piero Sraffa, economista di fama universale, ricevette i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, che salvò conservandoli nel caveau della Comit. L’episodio fu reso noto soltanto dopo la morte di Mattioli, il 27 luglio 1973, nella clinica Villa Margherita di Roma. Era vissuto un anno dopo il suo congedo dalla banca, avvenuto per un colpo di mano partitocratico di «quattro mediocri democristiani» (Marcello De Cecco), tra cui Emilio Colombo, «uomini piccoli di cui è già caduto il nome» (Contini), che avevano voluto «normalizzare una banca bensì pubblica ma da sempre riottosa alla genuflessione politica» (Stajano). In un modo brutalmente ricorrente nelle vicende italiche, «così come era stato per Menichella, dodici anni prima, la nuova classe politica riusciva finalmente a liberarsi di un uomo che le era stato fondamentalmente estraneo e che con la sua sola presenza ricordava una stagione rinascimentale che si credeva superata dai tempi nuovi e alla quale si guardava con degnazione e fastidio» (De Cecco). Gli era subentrato come presidente il professor Gaetano Stammati, ragioniere generale dello Stato, che rimarrà per quattro anni in un ruolo marginale, finendo iscritto alla loggia P2 di Piero Gelli. Mario Melloni, il geniale corsivista che si firmava Fortebraccio sull’Unità, scrisse: «Entra nella Comit il grigio burocrate, l’opaco commis e ne escono la fantasia e l’intelligenza…». «La fine di Mattioli — ha scritto Gianfranco Contini — parve storicamente tempestiva, sentimentalmente precoce».

Quando, il 22 aprile 1972, Mattioli lesse all’assemblea degli azionisti l’ultima relazione annuale, fu accolto da un’ovazione calorosa. A chi gli chiedeva di accettare la presidenza onoraria, don Raffaele, grandissimo attore dalle mille parti in commedia, rispose alla sua inimitabile maniera, con sferzante ironia: «A me queste posizioni da nicchia non si confanno. Del resto guardatemi in faccia, vi sembro il tipo da venir imbalsamato? Cari miei, l’assemblea è femmina e io sono maschio. E il maschio può dire alla femmina, guarda che ormai sono valido dalla cintola in su …  E poi gli anni del rammollimento li voglio dedicare soltanto a me stesso».

Pur avendo una tomba di famiglia al Cimitero Monumentale di Milano, volle essere sepolto nel cimitero dell’Abbazia circestense di Chiaravalle, nella tomba di Guglielmina di Boemia, santa ed eretica, e, poiché quel cimitero era sconsacrato, fece fuoco e fiamme presso Bernardo Crippa, assessore democristiano ai cimiteri e dipendente Comit, per ottenere l’autorizzazione, superando le resistenze dei frati con donazioni cospicue. Questa sua ostinazione e il rito funebre che si tiene ogni 27 luglio a Chiaravalle con la messa in latino hanno ridato fiato alla leggenda di un Mattioli e di un Enrico Cuccia che avrebbero ordito un complotto giudaico-massonico contro la Chiesa cattolica e contro l’Opus Dei, con un riflesso editoriale negli autori neognostici e nichilisti dell’Adelphi. Mattioli massone dunque? «Non esiste uno straccio di documento a provarlo», ha scritto il cattolico Giancarlo Galli, biografo equilibrato del banchiere abruzzese. La voce nacque dal best-seller di Joseph Wechsberg, The Merchant Bankers, in cui Mattioli veniva inserito in un elenco di sette Grandi Famiglie di Gnomi della Finanza (Hambros, Barings, Rothschild, Warburg, Lehmann, Brothers, Hermann Abs e appunto Mattioli), legate da un patto di Secret Fraternità. Questa notizia alimentò la favola di una loggia massonica intenazionale. In realtà Mattioli fu sempre un «laico» di «buona civiltà». Giancarlo Contini ha raccontato questo episodio. «Una volta che l’arcivescovo Montini venne a impartire la benedizione pasquale agli edifici della Comit, Mattioli come padrone di casa assistette e al congedo ringraziò, ma il futuro Paolo VI lo fermò:«No, — gli disse — tocca a me ringraziare perché so il sacrificio che Le è costato».

Provarono a chiamarlo «gnomo di Milano». Rispose di sì, che la definizione poteva andare, ma nel «senso delle mitologie nordiche, di spirito benevolo e sapiente che conosce il futuro, opera miracoli e custodisce i tesori» (G.Nascimbeni). Mattioli comunque si sarebbe divertito — racconta più di un testimone — con questi pasticci pettegoli, chiamandoli magari «cacate di capra», come fece con alcuni paragrafi del Trattato di economia politica di Ulisse Gobbi della Bocconi.

Un abbozzo, anche se schematico, della biografia di un personaggio illustre può comportare i rischi del panegirico, ma nel caso di don Raffaele l’adulazione è involontaria. Parlano infatti le sue opere destinate a durare nel tempo, il consenso di altri grandi spiriti, l’itinerario di banchiere e di organizzatore della cultura, suscettibili solo di conferma dall’apertura degli archivi Comit. Quando Silvio D’Arco Avalle scrive che, fra gli intellettuali italiani del ’900, il nome di Mattioli sarà uno dei pochi che si salveranno, non incide un epitaffio per un busto al Pincio o per una lapide di una nostrana Antologia di Spoon River, ma coglie il senso profondo che della vita ebbe Mattioli, «in cui si incontravano e si accordavano la sua curiosità intellettuale estesa in ogni campo e la sua curiosità umana aperta a tutti gli incontri».

Inaugurando l’anno accademico dell’Istituto Italiano di Studi Storici, il 18 novembre 1965, Mattioli disse: «La Vita è il grembo inesauribile di tutto ciò che si fa e di tutto ciò che si pensa. E proprio perché si fa concreta a volta a volta nelle azioni e nei concetti, nelle intuizioni e nelle volizioni del singolo, essa si garantisce costantemente contro ogni ipostasi e ogni divinizzazione, si mantiene individuale, contingente, effimera, amaramente umana».

Quando, nel mio viaggio milanese, incontrai la signora Lucia Mattioli, vedova di don Raffaele, nella casa confinante con quella di don Lisander, tra i libri accumulati in una vita, le chiesi un ultimo ricordo sul marito. E lei, con davanti le pagine aperte di un classico della letteratura italiana che Mattioli stava chiosando nei giorni che precedettero la morte, volle citare una frase che Antonello Gerbi aveva scritto anni prima: «Nessuno che l’abbia trovato sulla sua strada, ha proseguito il cammino con lo stesso passo. A nessuno che non abbia goduto di quell’autentico privilegio si potrà spiegare il come e il perché di quella sua elementarissima e semplicissima pur trasfigurata umanità».

La migliore definizione di Raffaele Mattioli fu lui stesso a darla, quando, commemorando Benedetto Croce, scolpì anche il suo autoritratto: «Non vi parlerò dunque di un morto, ma d’un vivo, un vivo che amava le liete compagnie la conversazione fra persone di spirito; che aveva sempre pronto un frizzo, un aneddoto da raccontare e di cui era il primo a divertirsi e a ridere; che, come il dottor Faust,solo fra gli uomini si sentiva completamente uomo, e socraticamente provava e riprovava la sua filosofia tra la gente di ogni rango, nella vita di ogni giorno».

Piccola bibliografia su Mattioli

1)   Giancarlo Galli, Mattioli. Il Gattopardo della Banca Commerciale Italiana, Rizzoli Milano 1991. Il libro è stato ristampato da Rusconi, Milano 1998, con il titolo Il banchiere eretico. La singolare vita di Raffaele Mattioli.

2)   Sandro Gerbi, Raffaele Mattioli e il filosofo domato, Einaudi, Torino 2002.

3)   Giacomo D’Angelo, Raffaele Mattioli, in L’Abruzzo del Novecento, Ediars, Pescara 2004.

4)   Giovanni Malagodi, Profilo di Raffaele Mattioli, Aragno, Torino 2009.

5)   Giovanni Malagodi, Dalla crisi allo sviluppo, Aragno, Torino 2010.

6)   Raffaele Mattioli, Uscire dalla crisi, Aragno, Torino 2010.

7)   Francesca Pino, Raffaele Mattioli in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2009.

8)   Giorgio Rodano, Il credito all’economia. Raffaele Mattioli alla Banca Commerciale Italiana, Ricciardi, Milano-Napoli 1983.

9)   Francesca Pino, Introduzione a Raffaele Mattioli, Appunti di Tecnica Bancaria, Rocco Carabba, Lanciano 2006.



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