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Dossier de l'Espresso sullo "storytelling" di Renzi: cosa ha detto, cosa ha fatto (1° parte)

Creato il 01 novembre 2015 da Tafanus

20151101Promosso in Lavoro, Giustizia e Immigrazione. Bocciato sul Sud, i Diritti civili e le nomine. Rimandato su tasse e lotta all'evasione. Ecco il fact-checking su Renzi dopo venti mesi di governo
(a cura di Stefano Vergine - l'Espresso)
Governo Renzi, venti mesi. Attraversati con la velocità e la leggerezza tipica del premier, tra un tweet e una slide, un tour in cento teatri italiani e l'annuncio del prossimo raduno della stazione Leopolda a Firenze, tradizionale pellegrinaggio dei renziani verso il loro leader, questa volta in versione pre-natalizia, a dicembre. Resta integro il dna originario del renzismo: la spinta, l'energia, la necessità di rimettere in moto il paese, di far correre l'Italia.

Un'iniezione di fiducia che ha come motore l'ottimismo di Renzi e come strumento l'inclinazione alla promessa. Nel 2014 furono gli 80 euro, il Jobs Act e il mercato su ebay delle auto blu (lasciato cadere nel dimenticatoio). Nel 2015 il massiccio piano di riduzione fiscale, a partire dal taglio delle tasse sulla casa, la chiave di volta della legge di Stabilità appena arrivata a Bruxelles e in Parlamento, più tanti altri annunci: uno al giorno, per tutte le classi sociali. Con il rischio della dispersione: «All'inizio del terzo anno di governo», ha scritto Giuseppe de Rita ("Corriere della Sera", 28 ottobre), Renzi è chiamato a «amplificare il "consenso d'opinione", magari creando una bolla di durata almeno biennale. È questo l'orientamento politico dell'autunno: centinaia di differenti provvedimenti, tenuti insieme solo dal filo rosso della volontà di coinvolgere quanta più gente possibile». Il collante resta Renzi. Promosso con riserva in economia, bocciato sui diritti. E competitivo sul potere.
Crescita e Europa - Dopo tre anni col segno meno, nel 2015 il Pil italiano è tornato a crescere e Renzi non ha perso tempo per intestarsi il merito della svolta. A dire il vero, il premier aveva governato anche nel 2014, chiuso con l'economia in frenata dello 0,4 per cento, ma la memoria, in questo caso, fa cilecca, almeno via twitter. Così come lo spazio di un cinguettio in Rete risulta insufficiente per descrivere il contesto internazionale che ha innescato la ripartenza italiana. Dollaro basso, petrolio ai minimi e il quantitative easing della Banca centrale europea (Bce): difficile immaginare condizioni più favorevoli alla crescita dell'economia.

Perfino il governo è stato colto di sorpresa dal nuovo scenario. Basti pensare che alla fine del 2014 i documenti economici del ministero dell'Economia ragionavano su un dollaro ben oltre quota 1,30 sull'euro. Quest'anno invece il biglietto verde ha oscillato quasi sempre intorno a quota 1,10. Per il petrolio si parlava di un prezzo compreso tra 90 e 100 dollari al barile, mentre siamo da mesi intorno a 50- 60 dollari. Così come l'enorme massa di liquidità immessa nel sistema dalla Bce di Mario Draghi se da una parte non è riuscita a produrre un minimo di inflazione, dall'altra ha contribuito a mantenere i tassi vicini allo zero, e a volte anche sotto. Con tutti i vantaggi del caso per un Paese costretto come il nostro a pagare interessi su un debito pubblico colossale. Il calo dei rendimenti dei titoli di Stato si traduce in un risparmio per il bilancio dello Stato e serve a liberare risorse da investire per rilanciare la crescita.

A Renzi però questo non basta. E vuole sfruttare fino in fondo i margini di flessibilità sul deficit concessi dall'Unione Europea. Se arriverà il via libera di Bruxelles anche per la cosiddetta clausola migranti, il deficit pubblico salirà al 2,4 per cento contro l'1,8 per cento previsto inizialmente. Di questo passo, però, l'obiettivo del pareggio di bilancio si allontana sempre di più. E anche il macigno del debito pubblico viene intaccato solo marginalmente. Oppure aumenta, come è successo nel 2015, in cui è prevista una crescita dal 132,1 al 132,8 per cento del Pil. Per l'anno prossimo il governo prevede un leggero calo, al 131,4 per cento. Poca cosa davvero. C'è solo da sperare che il bazooka di Draghi continui a sparare liquidità ancora a lungo. In caso contrario, senza interventi decisi sul debito, il rischio Italia tornerebbe a spaventare i mercati. E allora addio tassi a zero. E addio crescita.
Lavoro - Il Jobs Act è stata una delle grandi promesse elettorali di Renzi. Risultato? L'effetto positivo sull'occupazione c'è stato, anche se è difficile capire quanto sia merito della nuova legge sul lavoro, quanto degli sgravi contributivi concessi alle imprese e quanto della generale ripresina dell'economia italiana. Guardiamo i numeri.
Ad agosto, secondo l'ultima rilevazione dell'Istat, gli occupati sono stati 325 mila in più rispetto allo stesso mese dell'anno precedente (+ 1,5 per cento). Per il premier è l'effetto Jobs Act. Per altri, fra cui il presidente dell'Istat Giorgio Alleva, è presto per dirlo. La questione è complessa. I dati dicono infatti che la riforma del lavoro ha portato in dote l'aumento dei contratti a tutele crescenti, che annullano per i primi tre anni le garanzie dell'articolo 18 e permettono quindi di licenziare più facilmente.

C'è chi sostiene, tuttavia, che buona parte di questi contratti sia stata stipulata grazie agli sgravi contributivi concessi alle imprese. Una misura contingente, inserita per dare la spinta iniziale alle assunzioni, su cui non si può dunque fare affidamento per sempre. La fiammata occupazionale è destinata ad affievolirsi? Qualcosa in più si capirà l'anno prossimo, visto che gli sgravi diminuiranno: dall'attuale massimo di 8.060 euro all'anno (per tre anni) a 3.250 euro annui (per due anni), prevede la Legge di Stabilità appena presentata al Parlamento.

Ciò su cui tutti sono d'accordo, finora, è l'utilità della Naspi, entrata in vigore a maggio di quest'anno. Nelle promesse del premier doveva essere un «assegno universale per chi perde il posto di lavoro, anche per chi oggi non ne avrebbe diritto, con l'obbligo di seguire un corso di formazione professionale e di non rifiutare più di una nuova proposta di lavoro». Nella pratica il Jobs Act ha allargato la platea dei lavoratori con diritto al sussidio di disoccupazione, includendo ad esempio quelli con contratti di collaborazione, ha allungato la durata massima portandola a due anni (fino al 2017, poi si vedrà), ma al momento non ha introdotto novità sostanziali su corsi di formazione e ricerca di nuovo impiego. Insomma, la riforma voluta fortemente da Renzi ha cambiato parecchie cose, agevolando una ripresa momentanea dell'occupazione, ma rispetto alle promesse iniziali è risultata un po' meno rivoluzionaria. Anche perché vale solo
per i nuovi contratti ed esclude i dipendenti pubblici.
(Fine prima parte - Continua)


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