Magazine Diario personale

Due o tre cose che (forse) non sapevate su Babbo Natale

Da Matteotelara

Traditional Santa Claus5

Tutto è cominciato con la mia compagna che mi chiedeva se mi ricordavo i nomi delle renne di Babbo Natale. “Dasher, Dancer, Prancer, Vixen, Comet…” ha detto, “e poi?”
Avevo appena finito di cucinare, erano le 9.30 di sera, fuori pioveva, la mia compagna era riuscita ad addormentare nostro figlio dopo due lunghe ore di discussioni, trattative, letture e domande su Babbo Natale.
“I nomi delle renne?” ho ripetuto, assumendo quella cognizione di causa che tutti i padri devono fingere di avere quando si tratta di questioni riguardanti i propri figli.
‘Perché’, stavo pensando, ‘hanno davvero dei nomi?’
Mi ha guardato. La mia compagna non è italiana: nata in Africa da genitori olandesi, cresciuta nei Paesi Bassi, ha vissuto i suoi ultimi 20 anni tra Amsterdam e Auckland.
“Non sapevi che avessero dei nomi” ha detto, seria.
Comprensibile che non mi ricordassi tutti i nomi delle renne di Babbo Natale, ma che non sapessi neppure che ne avessero, quella sì che ai suoi occhi era una cosa strana.
Ho fatto l’unica cosa che un uomo possa fare in una situazione del genere: ho mentito.
“Certo che lo sapevo” ho detto. Ma per chi mi aveva preso?
Peccato che in quel momento non me li ricordassi. Sapete com’è, bevo sempre un po’ quando cucino. E la testa si diverte a giocare brutti scherzi.
Finita la cena, dopo aver versato il caffè, ho digitato sulla tastiera del portatile la domanda a cui sapevo che da quel momento in poi avrei dovuto sempre conoscere la risposta. Sono cose importanti, le domande di un bambino. Che alle renne ci crediate o meno, i nomi li dovete sapere.
“Come si chiamano le renne di babbo natale?” ho scritto.
Dasher, Dancer, Prancer, Vixen, Comet, Cupid, Donner, Blitzen. Che poi, in italiano, diventano Ballerino, Schianto, Guizzo, Cometa, Cupido, Tuono, Lampo.
Mi sono fermato. Tenevo la tazzina in bilico tra indice e pollice. Schianto? Mi nascondevo dietro il vapore che saliva arricciandosi verso il soffitto. Guizzo? E va bene, avevano dei nomi. Nomi strani, ma pur sempre nomi. Quello che adesso mi chiedevo era perché si trattasse proprio di renne e non di qualche altro animale. Perché non cervi?, o cavalli?, o normali, fidatissimi cani da slitta?
Ho digitato “origine delle renne di Babbo Natale”.
E benvenuti nel mio Christmas Tale versione 2.0.
I nomi delle renne di Babbo Natale, ho cominciato a leggere, sono comparsi per la prima volta in una poesia natalizia del 1823 intitolata “A Visit from St Nicholas”. La poesia, comunemente nota anche per il suo famoso incipit (“Era la notte prima di Natale…”) uscì in forma anonima sulla rivista statunitense Sentinel ed è oggi attribuita a Clement Clarke Moore, un ricco professore che mai avrebbe immaginato di diventare famoso per una lirica scritta quasi per gioco e senza grandi aspirazioni di pubblicazione.
“A Visit from St Nicholas” (in italiano “Una visita di San Nicola”), invece, è oggi una delle più amate al mondo e i suoi versi sono considerati i più conosciuti fra quelli scritti da un poeta americano. Avete capito bene, ancora più famosi di quelli del buon vecchio Walt Whitman.
“Da questa poesia in poi” ho continuato a leggere avvicinando le labbra sul bordo fumante della tazzina, “si pongono le fondamenta della moderna figura di Babbo Natale”.
‘Ok’ ho pensato, ‘ma perché il tizio si chiama St Nicholas? E perché va a farsi questo giro proprio la notte prima di natale?’
Salta così fuori che nella cultura cristiana di provenienza nord ed est europea, San Nicola è quello che, da secoli, porta doni ai bambini nella notte tra il 5 e il 6 dicembre. ‘E questo lo sapevo’ ho pensato. Ricordo ancora il giorno in cui scoprii che la mia compagna aveva sempre scartato i regali la mattina del 6 dicembre. Per me, fino a quel momento, esisteva solo la vigilia. Che ci fossero nel mondo occidentale bambini che scartavano i loro regali il 6 dicembre era ai miei occhi del tutto incomprensibile. “Dunque, dunque, dunque” ho rimuginato senza smettere di sorseggiare il caffè. “Tutto comincia con San Nicola che nella notte tra il 5 e il 6 porta dei doni ai bambini”.
“La tradizione di San Nicola” ho letto poco dopo, “arrivò negli odierni Stati Uniti nel diciassettesimo secolo grazie agli olandesi”. New York a quei tempi si chiamava New Amsterdam e se gli antenati della mia compagna non avessero deciso di barattarla con l’allora florido Suriname oggi a scuola impareremmo tutti l’olandese e San Nicola porterebbe i regali la notte del 5 dicembre.
Ma con la storia non si discute, e così ecco che il nostro St Nicholas, esportato nel XVII secolo dagli olandesi, decide nella poesia del 1823 di diventare più paffuto e bonario del suo omonimo europeo, portare i doni la vigilia di Natale, e rinunciare, nel farlo, al fido aiutante Zwarte Piet (“Pietro il moro”, che fino a quel momento gli aveva fatto da spalla): seduto su una slitta trainata da otto renne, con un sacco in spalla, la barba bianca, le guance rosse e un vestito di pelliccia, il nuovo San Nicola conquista all’istante il cuore di milioni di americani. Quando molti anni più tardi verrà aggiunta alla poesia anche la melodia di una canzone per bambini, i giochi saranno fatti.
Nella poesia di Clement Clarke Moore la slitta atterra sul tetto di una casa immersa in un profondo silenzio, e nell’innevata atmosfera notturna riconosciamo i bambini che dormono, le stanze ben ordinate, i calzini appesi al camino e… ecco, qui mi pongo un altra domanda, e i calzini? da dove saltano fuori questi benedetti calzini?
Digito “calzini appesi al camino la sera di natale”.
In effetti, leggo subito dopo, già prima della conversione del nord europa al cristianesimo, esisteva nel folklore di lingua tedesca il dio Odino, che poi da quelle parti era un po’ il padre di tutte le divinità, che nel periodo del solstizio invernale (ovvero intorno al 22 dicembre) si raccontava tenesse una grande battuta di caccia in compagnia di dei e guerrieri caduti. Odino attraversava il cielo sulla schiena di Sleipnir, il suo leggendario cavallo volante a otto zampe, e la tradizione voleva che i bambini lasciassero nei pressi del caminetto calzini e scarpe ripieni di carote e paglia per Sleipnir, ricevendo poi in dono, al loro risveglio, cibo e piccoli doni.
Dal cristianesimo in avanti il ruolo di Odino verrà via via preso da San Nicola, che poi, a partire dal 1823, prima negli Stati Uniti e poi nel resto del mondo, si trasformerà in Santa Claus, ovvero nell’odierno Babbo Natale.
‘Ma guarda’ ho ragionato, ‘tu parti dai nomi delle renne e ti ritrovi sul cavallo a otto zampe del dio Odino’.
Da sfatare, proseguo riappoggiando sul tavolo la tazzina di caffè, l’idea secondo la quale l’immagine odierna di Babbo Natale sia frutto delle campagne pubblicitarie della Coca Cola: sebbene in passato Santa Claus avesse vestito prima pellicce di animali, poi la tradizionale casula da vescovo e a seguire costumi verdi da elfo, pare che il rosso e il bianco con cui anche oggi lo conosciamo fossero già comparsi prima che la Coca Cola ne facesse l’oramai celebre icona.
Le renne, proseguo, furono scelte da Clement Clarke Moore per il loro riferimento ai freddi territori del nord e per il fatto che in alcuni paesi scandinavi tali animali erano a loro volta considerate divinità.
Ad ogni modo da “A visit from St Nicholas” in poi tutto si accelera: Zwarte Piet (“Pietro il moro”) viene sostituito da un numero sempre crescente di elfi, St Nicholas diventa Santa Claus e prende dimora al Polo Nord, e alle otto renne della poesia si aggiunge Rudolph, la nona, che diventerà la più amata dai bambini di tutto il mondo.
Ho finito il caffè. Tra poco, prima di andare a letto, dirò alla mia compagna che i nomi mancanti delle renne di Babbo Natale adesso che ci ripenso mi pare fossero Cupid, Donner e Blitzen. Che poi, in italiano, se non ricordo male diventano Cupido, Tuono e Lampo. Dirò queste cose con grande calma, quasi sovrapensiero, e con quella leggera dose di partecipazione mista consapevolezza che ogni donna ama riconoscere nel padre dei propri figli.
E mentre richiudo il computer mi viene da ripensare a Zwarte Piet, che più di un anno fa fu oggetto di un’accesa discussione in Olanda. Nell’idioma medioevale dei Paesi Bassi, infatti, l’espressione Zwart Piet indicava il diavolo, mentre ai nostri giorni l’aiutante di pelle scura di San Nicola è diventato un servo moresco poco intelligente, cattivello e dall’indole clownesca che, come altri personaggi presenti in altre culture (inclusa la nostra), rappresenta l’alter-ego malvagio e oscuro del portatore di doni. Da diverso tempo, quindi, nei Paesi Bassi era sorto un fervido dibattito sulle connotazioni razziste e discriminatorie di Zwarte Piet e da più parti erano giunte proposte per staccarlo definitivamente dai retaggi del passato e farne una creatura d’ogni colore e provenienza. I difensori della ‘tradizione’ sostenevano che in realtà Zwarte Piet derivasse originariamente da uno spazzacamino italiano e che il colore scuro della sua pelle fosse conseguenza della sua attività. Nella tradizione cristiana, invece, Zwarte Piet raffigurerebbe un nero africano, un etiope conosciuto da San Nicola al mercato degli schiavi di Myra. Altre teorie, infine, sostenevano che il personaggio fosse nato alla fine del XVI secolo, durante l’occupazione spagnola dei Paesi Bassi, e che rappresentasse un soldato dell’Inquisizione (figura non particolarmente amata dagli olandesi del tempo).
Quest’anno, dopo il lungo dibattito, qualunque sia in effetti la sua vera origine, il popolo del Paesi Bassi ha deciso che Zwarte Piet non sarà più nero. Potrà essere di qualunque colore, senza alcuna discriminazione, a libera scelta dei singoli individui.
Coinvolto a suo tempo nella discussione, avevo inizialmente difeso il ‘valore’ della tradizione, salvo poi scoprire che moltissimi amici olandesi di pelle scura non avevano mai particolarmente gradito l’arrivo del 6 dicembre con tutto quel suo carico di risate, prese in giro, offese e scherzi ai danni del povero Zwarte Piet.
Zwarte Piet è una figura presente in molte tradizioni del folklore europeo. In Italia, ad esempio, il suo equivalente è a detta di molti l’uomo nero che compare in una famosa ninna nanna per bambini. Dopo le infiammate discussioni che hanno accompagnato il dibattito su Zwarte Piet ho avuto modo di ragionare a mia volta sulla cosa (soprattutto mentre provavo ad addormentare mio figlio) e alla fine ho deciso di sostituire la famosa ninna nanna con un’altra, molto più bella e dai dettagli meno inquietanti.
È solo una ninna nanna, si dirà. È solo Zwarte Piet, dicevano molti degli interlocutori della mia compagna più di un anno fa. È la tradizione, avevo detto io.
Eppure siamo partiti dal dio Odino in groppa a Sleipnir e ad altri cavalli e siamo arrivati a San Nicola insieme a Zwarte Piet, e da lì siamo passati a Santa Claus, al Polo Nord e agli elfi: i cavalli sono diventati renne, gli dei un piccolo moro dall’espressione clownesca, che poi è stato sostituito da un gruppo di elfi, la pelliccia si è trasformata in un costume verde che è a sua volta divenuto rosso e bianco, e in tutto questo i bambini hanno continuato ad appendere le loro calze alle travi del camino e ad attendere i regali. Molti (il mio lo fa) lasciano ancora vicino al camino o accanto all’albero qualcosa da bere e da mangiare, non per il cavallo di Odino, ma poco ci manca.
Le tradizioni si costruiscono trasformandosi, cambiano di continuo, attraversano le epoche e gli eventi e segnano, nei loro mutamenti, la maniera in cui anche noi cambiamo.
In fondo anche le renne di Babbo Natale sono destinate a diventare un giorno qualcos’altro, giusto?
“A proposito” ho detto alla mia compagna un attimo prima di addormentarci, “i nomi mancanti… mi sono tornati in mente”.
“Bene” ha detto lei sorridendo e lanciandomi un’occhiata condiscendente (o credete che non mi avesse visto sprofondare dietro lo schermo del portatile più di un’ora prima?) “allora sai cosa rispondere a tuo figlio quanto domattina te li domanderà”.


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