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Due Repubbliche, una sola notte

Creato il 25 novembre 2015 da Albertocapece

repubblica_unoAnna Lombroso per il Simplicissimus

Era il 14 gennaio 1976 quando apparve in edicola un nuovo quotidiano,  uscita annunciata da un giro promozionale in “provincia” per presentare la Repubblica al suo pubblico di riferimento, piccola borghesia, ceto medio, che viveva come un’umiliazione l’esclusione dai giri influenti, dalla politica, dall’imprenditoria e dai salotti degli intellettuali e voleva essere preso per mano e accompagnato, anche solo per guardarli dal buco della serratura, per partecipare di critiche sferzanti, intermittenti a seconda degli umori, anzi del “cono d’ombra” nel quale Eugenio, chiamato papà già allora dagli idolatri della redazione,  decideva di collocare ministri, dirigenti politici, amministratori, scrittori delle case editrici ostili, per provare l’emozione di una appartenenza a un club esclusivo che accoglieva transfughi della sinistra, liberali disillusi, repubblicani insoddisfatti, cattolici critici e laici pensosi.

Il collante doveva essere la critica: alla corruzione, prima di tutto, che contaminava la politica e tutto il settore pubblico, che avrebbero  potuto  sottrarsi al contagio e depurarsi mutuando le virtù del mondo degli affari, dell’imprenditoria, di quella finanza severa e appartata impersonata da una figura di monaco nero e impenetrabile, enigmatico come una di quelle divinità d’avorio così distanti da non essere destinatarie di voti e implorazioni.  Alla sinistra “marxista” rimproverata di persistere in un  arcaico e colpevole misoneismo, una utopia fallita alla quale era invece giusto e sano opporre un dinamico pragmatismo, una concretezza costruttiva nel benefico rimescolamento delle classi, rese finalmente omogenee da un relativo benessere.

I pilastri di quel giornale che presto in tanti avrebbero esibito sotto il braccio (l’Unità invece si infilava nella tasca posteriore dei pantaloni e della tuta)  come un feticcio o un bastone cui appoggiare la propria opinione, erano dunque il moralismo, sia pure con qualche necessario, anzi doveroso, compromesso, l’occidentalismo e il suo format regionale, un’Europa inventata, tra la Francia dei radicali e la Gran Bretagna liberale, lo snobismo, che un suo arguto opinionista definì “di massa”, quella combinazione, quell’amalgama  di ammirazione per l’ illuminismo e soprattutto per i suoi salotti, di realistico scetticismo , magari blu, come nella canzonetta che il Direttore strimpellava al piano col coro di gorgheggi dei suoi fanatici fan, di spocchiosa leadership “idealistica”, sventolata come una bandiera per fidelizzare, chiamare a raccolta giornalisti e lettori intorno all’unico giornale – partito che sopravvivrà alla fine delle ideologie e a quella dei movimenti organizzati.

Qualcosa di tutto quel “patrimonio” era rimasto anche nella successione al grande padre. Il “partito- giornale” ancora per anni detterà mode culturali, innalzerà sugli altari un avvicendarsi di icone improbabili del contesto politico e sociale proponendole agli orfani dei partiti e ai trovatelli degli ideali finiti in quel brefotrofio accogliente che una volta si sarebbe chiamato qualunquismo e che alla fine si era ridotto all’antiberlusconismo, limitando critica e opposizione ai vizi, alle patologie denunciate dalla moglie stanca di tradimenti, ripetendo l’ostensione  di squallide conversazioni e le ricostruzioni di acrobazie e travestimenti su letti celebri o in convivi eleganti, fino all’apoteosi di una grande manifestazione sulla quale porre l’imprimatur della condanna del sessuomane, più che di quella del golpista, del tycoon spavaldo e monopolista più che del promoter di leggi ad personam e della privatizzazione della rappresentanza e della Costituzione. Ma d’altra parte si parla di un quotidiano proprietario, sulla cui indipendenza si possono sollevare dubbi, il cui padrone è stato più volte tentato dalla “discesa in campo”, che ha provato la strada delle televisioni e del monopolio editoriale, che ha vinto qualche battaglia ma qualcuna l’ha persa, con una varietà di sentimenti che vanno dal risentimento all’ammirazione, dal rancore all’imitazione.

Repubblica non è stata esentata dalla crisi della carta stampata, molti dei suoi grandi vecchi, giornalisti e opinionisti sono morti, la svolta teologica del fondatore si materializza in prediche domenicali che in pochi si arrischiano a leggere. Ma finora un po’ di autorevolezza il giornale l’aveva conservata grazie a un suo difetto d’origine che si era da subito rivelato una qualità: l’abilità di “contenere” e vendere opinioni diverse e contrastanti, in modo da accontentare tante aspettative e tanti pregiudizi, di esibire verità incontestabili in cronaca e  virulente contestazioni nei commenti,di dare sostegno e poi toglierlo senza mai fare autocritica, di dare manforte e al tempo stesso, in altra pagine, lanciare invettive, finendo per testimoniare e rappresentare quella “società civile” – un’invenzione nella quale ci culliamo – confusa, ma, forse per questo, vitale, dialogante, contrapposta a palazzi autoritari, obsoleti, chiusi nella loro inadeguata indifferenza.

Ormai pochi si dedicano alla preghiera laica del mattino. Sono sempre meno quelli che rivendicano una verità per averla letta sul giornale, figuriamoci chi in un giornale si ha lavorato e sa quanto si tratta di materia labile, fragile e troppo facilmente trattabile.

Ogni mattina mi alzo contenta di non dover andare più né a scuola, né a Repubblica: ho avuto un padre amato e mi basta, sono intemperante e ho sofferto la disciplina di un partito vero, non ho mai nutrito ambizioni sfrenate e avidità di successo irresistibile. Ma ciononostante mi dolgo della cessione di protagonismo e autorità alla quale Repubblica si condanna se è vero che verrà consegnata a un direttore che vanta come  referenza di essere un orfano e che ha riportato la Stampa alla condizione di giornale “paesano”, provinciale e assoggettato, ma solo alla memoria, di un  padronato influente e prepotente, che si schiera coi pogrom contro i rom, dà voce a gente  risentita che inneggia agli sgomberi, che chiede esclusione come prima esigeva emarginazione, rimuovendo il ricordo  di una cittadinanza operaia che ha contribuito al riscatto del paese.. anche quello dimenticato.


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