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Due semplici parole

Da Ultimafila22

di Giacomo Pagone

Sorride ma di scatto si copre il gesso con la manica della camicia. Ha notato che lo guardavo! E’ strano. Quando ieri è tornato in redazione aveva già il gesso. E’ stato via per tre settimane. Ha passato gli ultimi venti giorni in Vietnam, per descrivere la vita di quel lontano Paese a tanti anni di distanza dalla guerra che lo ha straziato. Non ha voluto raccontare cosa gli sia successo, ha detto solo “non è niente, sono caduto”, ma nessuno gli ha creduto e allora ognuno di noi ha iniziato a spacciare per vera la propria versione dell’incidente. Siamo giornalisti, non ci fermiamo davanti ad un “non è niente”.

 “E’ stato un colpo di fucile sparato da un vietcong nella giungla”

“Ma cosa dici, non ci sono più vietcong!”

“Te lo dico io, sono entrati nella sua camera d’albergo e per costringerlo a consegnare tutti i soldi gli hanno rotto il braccio”

“Ma va’ là! Secondo me ha fatto un incidente perché guidava dal lato sbagliato della strada”

“Perché, da che lato guidano in Vietnam?”

“Boh!”

Queste sono solo alcune delle infinite storie che da ventiquattrore girano in redazione. Io non sono ancora riuscita a farmi un’idea a riguardo.

Prendo il comunicato dalla sua scrivania e faccio finta di leggerlo, ma in realtà divento rossa per la figuraccia. Come giornalista sarò anche brava ma come investigatrice faccio proprio pena.

“Allora” mi dice “cosa è successo in mia assenza?”. Oh dio, per fortuna ha parlato. Un altro secondo in quel silenzio imbarazzato e sarei morta!

“Mah, le solite cose. Rinaldi è riuscito ad avere l’intervista con quel ministro e non ha fatto altro che pavoneggiarsi per tutto il tempo. Capirai, dopo quello che ha combinato è stato lo stesso ministro a volere l’intervista per risollevare la propria immagine! Tu, piuttosto. Come è andata in Vietnam? Ti è successo qualcosa di emozionante?” involontariamente poso lo sguardo sul gesso. Lui lo nota e sorride.

“Niente di speciale. Il Vietnam è un gran bel Paese. Se ti riferisci a questo” e indica il braccio medicato, “non ha nulla a che fare col mio viaggio”

Il mio viso, che da poco era tornato del solito, rassicurante, bianco malaticcio, avvampa di nuovo. Un’altra gaffe nel giro di pochi secondi!

All’improvviso si alza e si dirige verso di me. E’ alto e muscoloso, e solo il grigio dei suoi capelli tradisce l’avanzare del tempo. Le labbra, circondate dall’ispida barba incolta, si arricciano in un sorriso.

“Allora, questo primo caffè della giornata, lo vuoi o no?”

“Come? Ehm, no, no. Va tu, io ho ancora un articolo da finire”

Appena esce dalla stanza mi fiondo sulla sua scrivania. So che non è corretto spiare, ma la curiosità è troppa. Il computer è acceso e fissa la sedia vuota. Sta aggiustando l’articolo. Inizio a leggerlo velocemente, leggendo una parola ogni due per paura che possa tornare prima del previsto. Niente. Prendo allora la macchinetta fotografica posata sul tavolo e inizio a scorrere le foto. Case, giungla, animali. Sembrano le foto di un turista qualunque. Finalmente la calma piatta e snervante si dirada di fronte all’immagine che ritrae una bellissima donna sorridente. Sullo schermo della macchinetta si susseguono foto che ritraggono lo stesso viso dolce. E’ una ragazza giovane, di circa venti anni. La carnagione è color ambra, il sorriso perfetto e incastonato in due labbra sottili e delicate. La ragazza guarda verso la macchinetta, ma sembra avere lo sguardo assente. Spengo la macchinetta e la riposiziono nello stesso modo in cui stava prima. E’ tutto chiaro adesso. Lui ha sempre avuto un debole per le belle donne. Probabilmente, no, sicuramente, avrà sedotto questa bellissima ragazza con il suo fascino latino. Il marito di lei se ne sarà accorto e avrà gliel’avrà fatta pagare, oppure, al ritorno, sua moglie avrà visto le foto e avrà iniziato a colpirlo con pentole e bicchieri. E pensare che ha anche una figlia piccola!

Mentre sono ancora assorta nei miei pensieri entra Serena, segretaria del capo e mia grande amica. In un attimo mi ritrovo a parlarle delle foto e a raccontarle la mia versione dei fatti. Serena ha da sempre un debole per quel casanova da quattro soldi con cui condivido l’ufficio, e non appena finisco di parlare si rabbuia e inizia a insultarlo con parole a dir poco colorite. Ah le delusioni d’amore!

“Che porco! Ha anche una figlia. Povero angioletto”

“Calmati, non sappiamo ancora se è andata così!”

“Hai visto le foto, giusto? Chi farebbe tante foto ad una sconosciuta incontrata in un Paese lontano?”

Serena ha ragione, quindi anche io. Forse inizio a guadagnare punti come detective! Il sorriso di soddisfazione mi muore sulle labbra, represso dall’indignazione e la delusione verso quell’essere.

Improvvisamente il nostro don Giovanni rientra in ufficio e Serena, uscendo dalla stanza, gli sbatte in pancia il plico di carte che era venuta a consegnargli.

“Ehi, ma cosa…” troppo tardi, Serena è già uscita sbattendo la porta. “Ma che le è preso?”

“Non so” rispondo fredda facendo finta di correggere il mio articolo.

Lui si siede chiedendosi se non sia impazzita anche io. Vigliacco, infame, schifoso. Ma non pensava a suo figlia?

Passano alcuni minuti in cui il silenzio è riempito solo dal ticchettare delle dita sui tasti dei nostri computer. Ogni tanto gli lancio qualche occhiata furtiva. Sembra calmo, serafico. Come fa a sorridere guardando il gesso della vergogna?

“Insomma, mi vuoi dire che ti succede?”. Dannazione. Mi ha notata ancora una volta. La rabbia per l’ennesima brutta figura si unisce allo sdegno che sto provando per lui. Houston abbiamo un problema, il mio cervello è in black-out.

“Che cosa succede a me? A me? Tu hai passato tre settimane in Vietnam, solo, lontano da tutto e da tutti, ti presenti con un braccio ingessato e non dai alcuna spiegazione e vuoi sapere cosa succede a me?”

Sembra spaesato. Io sono un fiume in piena. “Ho visto le foto, sai? Le foto di quella ragazza. Sei stato con lei? Ci sei andato a letto? Quanti anni sono che ci conosciamo? Dieci? Ho sempre pensato che fossi un brav’uomo, un buon padre di famiglia e invece…”

“SILENZIO! Hai visto le mie foto? Come hai… Beh, ormai non importa. Vuoi sapere chi è quella ragazza? Bene, è una pittrice. Sai cosa ha di speciale? E’ cieca! Sì, una non vedente. Il mio articolo sarà su di lei. Lei è la mia storia, se vogliono la descrizione delle città vadano in un’agenzia turistica”

Mente, penso. Poi però mi mostra l’articolo, quello vero, quello su Quy, la pittrice che dipinge il “suo” mondo. Resta in silenzio, ansimando forte per la rabbia. Dopo qualche minuto si calma. Non l’avevo mai visto così.

“Ora hai capito?”

“Scusa. E’ solo che… il gesso e tu che non davi spiegazioni…”

Sorride e si alza la manica della camicia che teneva, sbottonata, a coprire una scritta sul gesso. In quella grande distesa bianca svetta una scrittura incerta, a stampatello maiuscolo. Ci sono solo due semplici parole: SCUSA PAPA’.

“Cosa vuol dire?”

“L’altro notte, quando sono tornato a casa non ho acceso la luce per non svegliare mia moglie e mia figlia. Solo che nel salone c’era un pattino di mia figlia. Non l’ho visto, sono scivolato a terra e mi sono rotto il braccio, tutto qui. Martina, la mia bambina, si è spaventata talmente tanto che ha passato tutto ieri a piangere nella sua cameretta. Stamattina quando mi sono svegliato ho trovato questa scritta sul gesso. Deve averla fatta mentre dormivo, non mi sono nemmeno accorto della luce accesa!”

Che tenera. E che stupida che sono stata. “Ma perché non l’hai detto prima?”

“Perché questo è il regalo più bello del mondo. Martina ha imparato da poco a leggere e scrivere, e questa è la prima frase che scrive senza ricopiarla da un altro libro”

Mi sento terribilmente stupida e goffa. Vorrei scoppiare a piangere per la rabbia, ma le uniche lacrime che solcano il mio viso sono di commozione per quel gesto così bello.

“Puoi  dirmi una cosa?” mi chiede dolcemente.

“Certo”

“Secondo te come potevo essermi rotto un braccio? Voglio sapere quale assurda storia avevi immaginato”

“Oh, beh, siediti perché è una lunga storia”. Mi asciugo le lacrime e inizio a raccontare.


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