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È in vendita l’e-book sull’America latina ¨Pelle di serpente¨

Creato il 12 aprile 2012 da Eldorado

Giovedì 12 aprile viene presentato ufficialmente ¨Pelle di serpente. Lo sfruttamento infinito dell’America latina e delle sue risorse¨ e-book che ho scritto e che viene pubblicato dalla spagnola Editorial Intangible di Valencia. Si parla, naturalmente, di America latina e se ne parla con lo stesso tono che i lettori sono abituati a trovare su questo blog. Il solco aperto dalle privatizzazioni, dai trattati commerciali, dai compromessi politici sta sconvolgendo il sistema democratico a favore degli interessi delle corporazioni. L’America latina, come un serpente, cambia pelle per ritrovarsi con le stesse privazioni e tragedie di prima. Smessi i tempi delle dittature, il controllo e lo sfruttamento delle risorse avvengono attraverso gli organismi internazionali: nel libro si ripercorrono i fatti e le storie di questi ultimi anni di un mondo dove l’individuo è sempre più solo alla mercé degli interessi delle grandi compagnie. Di seguito, una parte del primo capitolo. Il libro è disponibile su questo link:

http://www.editorialintangible.com/index.php?page=shop.product_details&category_id=9&flypage=vmj_genx_img1.tpl&product_id=46&vmcchk=1&option=com_virtuemart&Itemid=220

 

Le vene dell’America Latina sono ancora aperte

 

Era il 1971 quando Eduardo Galeano scriveva e pubblicava ¨Las venas abiertas de América Latina¨ libro che, a metà tra il saggio e la denuncia, tracciava un quadro crudo, ma reale, della spoliazione delle risorse del subcontinente latinoamericano.

Galeano ci mostrava un’America Latina piagata dalle ingiustizie, rivelando storie più o meno conosciute, tragedie personali e di intere civiltà secolari saccheggiate e gettate nell’oblìo da un manipolo di vincitori spietato ed agguerrito. Un libro cult si direbbe oggi, sulla situazione di dipendenza di una terra ricca che, sin dalla sua scoperta, ha attirato le brame di conquistadores, prima in veste di spagnoli diseredati in brache di soldati di ventura ed oggi di manager delle multinazionali in cravatta e doppiopetto.

Quando Galeano scriveva il suo saggio, la situazione in America Latina era delle piú oscure. C’erano dittature militari un poco ovunque, dal Perù al Guatemala e dal Nicaragua all’Ecuador. Pinochet era prossimo a tradire la fiducia di Salvador Allende, mentre in Argentina si pianificavano le purghe e la lunga e truce stagione delle giunte della repressione. Nemmeno l’Uruguay, dove Galeano era nato e lavorava, si salvava: nel 1973 il governo democratico sarebbe caduto sotto la spinta autoritaria di Juan María Bordaberry, un despota travestito da civile e lo scrittore, dopo essere stato arrestato, fu costretto all’esilio.

La mano lunga della Cia si muoveva a propria discrezione per il sub-continente, promuovendo e finanziando i colpi di Stato, non tanto per difendere il mondo dalla minaccia comunista –come si sforzavano di far credere gli Stati Uniti attraverso la loro propaganda- ma piuttosto per proteggere gli interessi delle imprese Usa sparse ad ogni latitudine dell’America Latina. Imprese che, appunto, si dedicavano al saccheggio con il beneplacito dei governi fantoccio che foraggiavano di dollari e potere. Nell’oscurantismo di quei giorni, il libro di Galeano venne bandito in Cile, Argentina ed Uruguay, tacciato di opera pericolosa per la salute delle coscienze. Obbligava, infatti, a pensare: la prima parte del volume si fregiava dell’esplicito titolo ¨La povertà dell’uomo come risultato della ricchezza della terra¨. Proprio questo era il teorema di Galeano: dimostrare come l’America Latina, sin dal momento della sua scoperta da parte degli europei fosse stata sistematicamente saccheggiata, nel costante affanno delle potenze di assicurarsi il controllo delle sue risorse.

Sette anni dopo la prima edizione del libro –nel 1977- Galeano vi aggiunse una postfazione, dove spiegava come le cose, nel frattempo, invece di migliorare fossero peggiorate. Era l’epoca in cui i paesi del Cono Sur erano sprofondati nel buio della tirannia e dove, in Centroamerica, si orchestravano le guerre civili. Sarebbe stato difficile dirsi ottimisti, anche perché il peggio doveva ancora venire. L’amministrazione Reagan era in agguato con la sua feroce dottrina da terra bruciata che avrebbe insaguinato tutta l’America Centrale. Dal trionfo della rivoluzione sandinista (luglio 1979), fino all’invasione di Panama (dicembre 1989), l’America Latina vive un’epoca di terrore, dettata dall’affermazione con la forza degli interessi delle corporazioni e dell’assestamento delle necessità geopolitiche degli Stati Uniti. La reazione a questo stato di cose è ugualmente virulenta: in Colombia gli eserciti rivoluzionari frammentano l’unità territoriale del Paese, mentre al Perù tocca vivere la lucida follia di Sendero Luminoso. Tutto il continente vive una febbrile attività di distruzione, dettata dalla pressione degli Stati Uniti nell’intento di mantenere le strutture tradizionali del potere.

È a partire dagli anni Novanta che il quadro cambia sostanzialmente. C’è da credere che la società civile, la spinta democratica, la caduta dell’Unione Sovietica (che ridicolizza e rende infine improponibile la teoria della minaccia comunista), tutti questi fattori, insomma, apportino di proprio per la fine dei conflitti. La realtà risulta essere un’altra: le guerre erano diventate care. I costi stavano superando i profitti. Con gli anni Novanta muta il registro tra i centri di potere e quelli subordinati. Lo schema diventa più complesso, ma non cambia il risultato. Si delega all’economia ed alla finanza il compito di creare gli strumenti atti alla dipendenza. Da queI momento, i centri di potere cominciano a dedicare i loro sforzi alla costruzione di una complessa struttura capace di agire in un ambito legale costruito appositamente, ma che nella sostanza si comporta con la stessa spregiudicatezza con cui nei decenni passati si muovevano eserciti, agenti segreti, dirigenti aziendali e repressori. Il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, la Banca Interamericana (nel caso dell’America Latina), l’Organizzazione mondiale per il commercio rispondono alle necessitá di questo gruppo di potere che, attraverso la legalità della quale si sono personalmente investiti, continuano a perpetuare il dominio. A parole e con grandi proclami, questi centri difendono e incitano il sistema democratico per calmare le masse, mentre il loro vero obbligo è verso le corporazioni ed il capitale privato.

La struttura amministra e regola tutto lo scibile in quanto a materia finanziaria, economica e commerciale. Il colonialismo, insomma, è tornato o forse, più semplicemente, non è mai morto. Ha acquisito nuove forme, come dicevamo, è stato ripulito e corretto per renderlo più subdolo e meschino, atto ai nuovi tempi, ma in fin dei conti il processo iniziato più di cinquecento anni fa prosegue. Le nazioni ricche ed i centri del potere mondiale continuano nell’applicare le loro direttive per lo sfruttamento economico, commerciale e sociale dell’America Latina. Come nel colonialismo, la dipendenza dal centro esterno comprende anche l’imposizione di una cultura straniera, l’acculturazione che ci obbliga ad assumere simboli, riti, tempi che non sono nostri. I cartelloni della Coca Cola che lampeggiano nelle piccole drogherie ai bordi dell’Amazzonia, o il Mc Donald’s che ha aperto nella storica piazza d’armi di Cuzco, sono degli esempi di questa appropriazione. É la cultura del vincitore che si va impossessando degli ultimi ridotti delle tradizioni locali. Una sola economia, quindi, una sola cultura, una sola società. Non è poi così lontana la realtà che immaginava Noam Chomsky nel 1992 nel saggio ¨What Uncle Sam Really Wants¨: l’economia globale –attraverso il libero commercio- ci muove verso lo Stato internazionale e di conseguenza, al governo internazionale. Nel XIX e nel XX secolo le multinazionali difendevano i propri interessi con la forza degli eserciti e finanziando colpi di stato. Oggi, non ce n’è più bisogno, il nuovo ordine si mantiene con l’applicazione della legge, di legioni di avvocati che, tavole alla mano, dimostrano come accordi e contratti una volta sottoscritti non si possono contestare. I governi non possono fare marcia indietro, ma i popoli?

Il mondo va nella direzione che ci viene indicata, non in quella che vorremmo che andasse per la semplice ragione che le democrazie partecipative in realtà non velano per i diritti delle persone come dovrebbero, ma incoraggiano le corporazioni ed il modello di sfruttamento da queste indicato. Nelle democrazie zoppe dell’America Latina, dove i sistemi di controllo sono meno effettivi, questo meccanismo funziona ancora meglio per quelle che sono le necessità dei centri di potere. Le politiche imposte –prima dai conquistadores, poi dalle potenze coloniali e quindi dalle economie del primo mondo- hanno marcato una profonda divisione nella società latinoamericana, dove esiste un solco ormai incolmabile tra una classe eletta, di persone smisuratamente ricche e la maggioranza della popolazione che vive in condizioni di estrema povertà. Basti ricordare alcuni dati, come quelli di Haiti dove l’80% degli abitanti vive con meno di due dollari al giorno –stiamo parlando di quasi otto milioni di persone- o dell’Honduras, la classica ex repubblica delle banane, dove questi poveri sono cinque milioni su una popolazione in numero simile a quella haitiana. Ci sono paesi, come il Brasile di Lula da Silva e Dilma Rousseff, che si sono sforzati di ridurre la povertà, ma anche così nell’immenso territorio brasiliano ci sono ancora oggi quarantadue milioni di persone che sono presa della miseria: in percentuale, significa il 22% della popolazione.

In totale, i dati ufficiali di vari organismi, segnalano l’indice di povertà estrema in America Latina attorno al 45% della popolazione, ovvero l’incredibile numero di 250 milioni di persone. In mezzo, c’è una classe media che vive sul sottile filo della paura che una crisi repentina –la caduta dei mercati immobiliari del 2008, per esempio- la rovini per sempre. Niente di più probabile. Il capitalismo selvaggio foraggiato dalle due amministrazioni Bush dal 2001 al 2009 ha dimostrato come le speculazioni siano un pericolo costante e reale, capace di gettare nel panico milioni di persone. In un sistema dove la regola fondamentale è la mancanza di regole, anche la borghesia diventa un bersaglio facile: chi ha qualcosa rischia di perderlo, chi è già povero, invece, si trasforma in un indigente.

Il mondo latinoamericano è cambiante, ma non solo per le regole imposte dall’esterno. Le oligarchie hanno fatto di tutto per assecondare la richieste del primo mondo nel suo affanno di accaparrarsi le materie prime. Hanno alimentato dittature, fomentato l’ignoranza, represso il libero pensiero, attaccando al cuore i modelli e gli stili di vita delle popolazioni autoctone. Qualcosa, però, è cambiato negli ultimi anni. L’America Latina sta vivendo, con l’avvento del XXI secolo, un’epoca di radicali cambiamenti all’interno dei propri sistemi politici. Una più ampia presa di coscienza delle masse, la democratizzazione dei processi elettorali, l’accesso ai mezzi di informazione e di educazione, hanno cambiato il volto del subcontinente. Al momento di scrivere, i governi di sinistra –nell’ampio ventaglio di opzioni che questi offrono e che vanno dalla socialdemocrazia di stile cileno al comunismo cubano- sono per la prima volta in stragrande maggioranza. I governi di centro o di destra hanno resistito all’impatto di questa ondata solo in Messico, Honduras (e c’è voluto un golpe fuori tempo massimo per scalzare l’esperimento social-liberale di Mel Zelaya), Costa Rica, Panama, Colombia e Cile. A maggior ragione, dovremmo sentir parlare di riforme e di mutamenti radicali. La gente ha espresso attraverso il voto la necessità di cambiamenti e questi cambiamenti dovrebbero produrre riforme. Ma davvero i governi di sinistra soddisfano i bisogni dei cittadini? Facciamo un esempio. In Venezuela, Hugo Chávez si è dedicato piú di altri a costruire uno stato centralizzato, capace di detenere il controllo sui mezzi di produzione sul modello di quello cubano. La nazione bolivariana ha creato un´area di commercio alternativa –quella dell’Alba- ma senza rinunciare a quanto firmato con l’Organizzazione  mondiale del commercio. É diventato più difficile per le compagnie multinazionali fare affari in Venezuela, ma questo paese non si rifiuta di trattare sulle materie prime, il petrolio prima fra tutte: gli Usa comprano ancora nel 2011 quasi un milione di barili alla PDVSA, la società venezuelana degli idrocarburi ed Hugo Chávez è ben contento di venderglieli. Gli Stati Uniti comprano anche benzina già raffinata, che giunge nei porti Usa pronta per lo smistamento nei distributori delle intasate strade delle sue metropoli. Nonostante le multe e le confische operate dal governo bolivariano, sia il Venezuela (socialista e bolivariano, appunto) che gli Stati Uniti (liberali e capitalisti) sono impegnati nel subdolo gioco dettato dalle opportunità commerciali. Il paradigma, da qualsiasi parte lo si osservi, rimane sempre lo stesso e riguarda lo sfruttamento delle risorse. La scoperta dell’enorme giacimento di petrolio nel bacino dell’Orinoco pone il Venezuela nella posizione di dettare le regole nel gioco delle energie tradizionali, che sono inquinanti, costose e pure indecenti, per almeno i prossimi cento anni. Chávez, pur con tutta la sua dialettica populista e nazionalista della missione bolivariana, non si sognerà mai di sprecare questo tesoro per avviare un piano sull’energia pulita, di cui eppure il Venezuela è ricco. Farà invece esattamente lo stesso che ha sempre criticato ai suoi nemici, avviando e finanziando lo sfruttamento dei giacimenti, con tutto quello che l’industria petrolifera comporta, dallo sconvolgimento dell’ambiente naturale alla persecuzione dei popoli autoctoni. Il Cile della Bachelet, altro esempio, è stato volutamente incapace di fare scelte coraggiose, fomentando invece la crisi nell’educazione e l’isolamento della minoranza mapuche.

I governi progressisti fanno gli interessi della gente? Un giro nell’Amazzonia brasiliana, che verrà sconvolta dalla legge Rebelo, che vuole lottizzare la foresta, sarà sufficiente per farci rispondere di no. Nel mondo cambiante, non è più una questione di ideologie, ma di opportunità. Quaranta anni dopo, la struttura spiegata da Galeano ha appena cambiato il suo volto, ma si mantiene quasi inalterata, assumendo nuove forme e sembianze, come un camaleonte. E di camaleonte si tratta, perchè questo potere nemmeno troppo occulto, ha saputo mantenersi vivo e pulsante per più di cinquecento anni, modellando non solo le proprie forme, anche ma il mondo attorno a sè.

Questo lavoro getta un’occhiata sull’impatto che questo mondo cambiante sta causando in America Latina e, se ci sono, quali sono le forme escogitate dalla società civile per difendersi da un processo che rischia di ridisegnare per completo il nostro futuro.


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