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É nata una stella*

Creato il 15 novembre 2010 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

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La prima volta che andai alla Mostra del Cinema di Venezia mi sentivo che sarei diventato un gran critico. Durante il viaggio in treno pensavo a quando avrei esibito il tesserino, quel piccolo rettangolo di cartoncino attaccato a un moschettone che ballonzola sul petto. M’immaginavo che me ne sarei andato in giro per il Lido, tra flash fotografici e scie di profumo da star, che avrei fatto le ore piccole a intrufolarmi nelle feste, a riempirmi l’agenda di numeri importanti. Guardavo il panorama dal finestrino del treno e pensavo a tutte queste cose, pensavo che di lì a poco mi sarei laureato, e allora vedrai se non trovavo il mio posto nel mondo, il mio posto nel cinema, il mio posto di critico in prima fila, coi giornali sotto al braccio mentre ammicca in diverse direzioni, il critico che conosce tutti i giornalisti e tutti i registi e tutti gli attori.

Per cominciare ero disposto anche a dei sacrifici, chi non li fa, ero disposto a dormire in un bungalow a Punta Sabbioni, ad alzarmi presto tutte le mattine, magari a dormire anche solo quattro ore, ma avrei visto tutto tutto, film ed eventi connessi. Ero disposto a fare un’abbuffata d’immagini e di parole, un’indigestione di salamelecchi, pure a saltare i pasti ero disposto, mentre in treno spostavo lo sguardo dalle pagine di un libro al panorama e viceversa. Leggevo Figli randagi di Joyce Carol Oates, e più lo leggevo e più mi sentivo di esser pronto a farmi largo, mi sentivo di averne abbastanza dei miei scrupoli, che era giunto il momento di un po’ d’aria nuova. Ancora pochi mesi e sarebbe stato il nuovo millennio, ancora pochi mesi e i fuochi d’artificio avrebbero strapazzato il mondo, avrebbero colorato il cielo di fiori infuocati.

Non mi spaventava l’umidità di Venezia, non la puzza d’acqua marcia, la puzza d’acqua stagnante che ti viene il vomito ma non sei solo, perché c’è sempre una coppia che si bacia a Venezia. Non soffrivo il mal di mare, ero persino disposto a farmi trattare come un turista giapponese nonostante il mio accento toscano, come un turista che paga tutto il doppio perché è turista. Per la mia gloria ero disposto a qualsiasi sacrificio, ma non avevo fatto i conti con l’orario dei vaporetti veneziani, con la carrozza acquatica che si trasforma in zucca dopo la mezzanotte e resta lì a galleggiare nel buio del molo, a galleggiare insieme a carcasse di topi e gatti e bucce di banane e foglie di lattuga.

Restai a sognare i miei sogni di gloria nel bungalow di Punta Sabbioni, ogni sera, mentre gli altri, quelli che s’erano presi un appartamento al Lido, un appartamento da quattro per starci in dieci, uscivano freschi come rose dall’ultima proiezione notturna, freschi e pronti a vivere nello star system.

Era la Cinquantaseiesima edizione della Mostra, quella che ospitò Gabriele Muccino, e io mi ritrovai a una proiezione pomeridiana a vedere Come te nessuno mai, a vedere questo film di studenti che occupano la scuola per far colpo sulle ragazze, questo film che mi fece perdere una scommessa con me stesso, che minò subito le mie certezze di critico, la certezza che non avrei mai abbandonato una sala durante la visione, io che cerco sempre un motivo per andare avanti, io che mi dico vedrai che ora va meglio, che ora succede qualcosa per cui vale la pena, anche solo un’immagine, anche solo una battuta. E invece successe che mi alzai dopo mezz’ora, che mi alzai mentre mi chiedevo per quali nobili motivi avrei dovuto continuare con una tortura del genere, per quali nobili motivi avrei dovuto rinunciare a una limpida giornata di sole, a uno di quei pomeriggi autunnali che ti ricordano di come la poesia del cinema stia tutta nella poesia delle cose. Successe che mi alzai dopo solo mezz’ora, per la prima volta in vita mia, forse perché non avevo pagato il biglietto, ma successe, e anche che per strada mi ritrovai a pedinare Gigi Marzullo successe, nel senso che era uscito dalla proiezione subito prima di me. Camminava davanti, con passo sconsolato nel suo abito scuro, e mi sembrò che il cinema, oltre che poetico, fosse anche talvolta democratico, se metteva in una stessa inquadratura un giornalista alloggiato in un hotel a quattro stelle con uno studente finito in un bungalow a Punta Sabbioni, se seguiva nello stesso piano sequenza il presente e il futuro della critica.

Simone Ghelli

*In realtà ne sono nate diverse nel corso del secolo scorso:

la prima nel 1937, per la regia di William A. Wellman, poi è stata la volta di George Cukor nel 1954, e ancora di Frank Pierson nel 1976, per finire con la regia di Mark Herman nel 1998.


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