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è nel rumore che le cose si aprono. Morten Søndergaard

Creato il 24 settembre 2015 da Vivianascarinci

Forse una poesia può dire più della realtà di un lungo romanzo socio-psicologico? Forse la poesia è una scorciatoia alla realtà? Teniamo un posto aperto per la poesia nella lingua, ma forse la poesia si trova prima del linguaggio e quindi più vicino a quella che chiamiamo realtà? La poesia è un’ottica fantastica da avere, perché è un luogo in cui si può trovare la bellezza, dove possiamo esplorare il linguaggio, dove noi, nel migliore dei casi abbiamo fatto il nostro lavoro nel migliore dei modi, e ancora meglio: dove ci siamo superati. La poesia di fatto esiste. La poesia è l’unica speranza. Morten Søndergaard

Sabato 26 settembre ore 17,00, presso il Centro Libellula di Morlupo presentazione del libro “A Vinci, dopo Gli alberi hanno ragione. Blog” di Morten Søndergaard edito da Del Vecchio Editore a cura del traduttore Bruno Berni e di Paola Del Zoppo. Presente l’autore via Skype. Evento è nell’ambito del progetto Morlupo Città della Poesia 2015  MINIFIERA Poesia Cura Traduzione Editoria


Intervista a Morten Søndergaard
Della rivista per letteratura e critica norvegese “Vagant”
Intervistatori: Pedro Carmona-Alvarez (P) e Tiril Broch Aakre (T)

All’indietro sui propri passi

T: Perché il titolo “Vinci, senere” [Il titolo dell’ultima raccolta di Søndergaard: Vinci, dopo]

Innanzitutto perché è vero; ossia sono vissuto in un paesino in Italia che si chiama Vinci – la città natale di Leonardo – e lì ho scritto il libro, che però ha acquistato la sua forma definitiva solo dopo che ho lasciato il paese. E’ come se questo trasloco o questa rottura mi abbia reso possibile scrivere il libro. Molte persone si riconosceranno in questo; è nel movimento che avvengono le cose, è nel viaggio, nella zona tra un luogo e l’altro, nella pausa, nelle cesure, quando si va a capo che il senso si manifesta. Quando ci si muove avviene qualcosa. Anche quando si aggiunge “dopo” a una parola. “Dopo” come in un fumetto: “Bergen, dopo”. Cos’è accaduto, cos’ha avuto luogo? Tempo e luogo sospesi da una virgola portatrice di molto significato. Che cosa avviene per esempio se si dice “La Norvegia, dopo” o “il paesaggio, dopo”? In un certo senso “dopo” è un pretesto per riflettere su qualsiasi parola!

P: Hai descritto la poesia come la strada più lunga verso la conoscenza.

Penso di poterlo formulare in questo modo: può essere importante prendere una deviazione. Penso che il rinvio sia interessante, il non arrivare, cioè quando in un primo momento non si è diretti verso un punto finale, semplicemente per includere più cose possibile. E poi si potrebbe dire: che cos’è la conoscenza in questo contesto – quando si parla della poesia? Non è chiaramente lo stesso che parlare di conoscenza filosofica. Penso che per me si tratti più di una bella conoscenza. A cosa si arriva in una poesia? Non è necessariamente il punto centrale che si desidera, è piuttosto il rumore che si può raccogliere strada facendo; sì, vorrei sottolineare il rumore perché è nel rumore che le cose si aprono. Certi tamburi africani legano tappi metallici ai loro tamburi perché i dèmoni vivono nel rumore. Se si procede verso la meta in modo troppo lineare e secondo le regole, si perde la possibilità di qualcos’altro, la possibilità di un’apertura fuori dalla poesia.

T: Ma c’è anche un forte senso di ordine nelle tue poesie?
Penso di avere una forte percezione di trovarmi nel caos. La poesia diventa una sorta di taglio nel caos, una specie di ordine nel caos. Ma per quanto riguarda la questione di arrivare alla meta è ovvio che ogni volta che scrivi una poesia o una raccolta di poesie non dici poi: ora la poesia è scritta, ora è terminata, ora siamo arrivati ad un certo punto. Si ricomincia daccapo ogni volta. In questo modo ogni poesia diventa una proposta per cosa dovrebbe prendere il posto della poesia. E ogni poesia diventa meramente la bozza di una poesia. Penso di voler sottolineare questo: le ambizioni che si hanno scrivendo una poesia non si realizzano mai. Si potrebbe dire che in realtà l’ambizione è scrivere una poesia che … possa formulare il mondo intero, tutto l’universo – qualcosa che non mi riguardi affatto, cioè io non sono interessante, l’io non è interessante sotto questo profilo. E’ qualcosa che sta assolutamente fuori da me.

P: Tu dici che per te una poesia non è qualcosa che esiste anteriormente?

Mm, sì, ho una poesia che s’intitola “Nedtælling” [Conto alla rovescia]. Parte da una scultura di Michelangelo che si trova a Milano; la Pietà Rondanini. Ha troppe braccia, c’è per esempio un braccio che non appartiene alla scultura che sta dritto per aria, e Maria ha tre occhi! Con una frase famosa Michelangelo ha detto che la scultura è già nel blocco di marmo. Lo afferma per esempio in un sonetto (151 a Vittoria Colonna):

Non ha l’ottimo artista alcun concetto
c’un marmo solo in sé non circonscriva
col suo superchio, e solo a quella arriva
la man che ubbidisce all’intelletto.
Il mal ch’io fuggo, e ‘l ben ch’io mi prometto,
in te, donna leggiadra, altera e diva,
tal si nasconde; e perch’io più non viva,
contraria ho l’arte al disiato effetto.
Amor dunque non ha, né tua beltate
o durezza o fortuna o gran disdegno
del mio mal colpa, o mio destino o sorte;
se dentro del tuo cor morte e pietate
porti in un tempo, e che ‘l mio basso ingegno
non sappia, ardendo, trarne altro che morte.

Come si può vedere non è una circostanza semplice! Ma la scultura della Pietà avrebbe rappresentato la smentita di quest’affermazione perché ci sono due sculture nella scultura; l’artista ha cambiato idea nel corso del lavoro. La mia esperienza è che la poesia sorge durante il processo di scrittura. Penso che sia una cosa che conoscono e sperimentano la maggior parte dei poeti. Lo paragono all’esperienza di muoversi in un paesaggio, lì ogni tanto si può avere la sensazione che il paesaggio ti nasca sotto i piedi; o che mentre lo attraversi, il paesaggio nasca appunto a causa del tuo passaggio in esso. Dunque è nel movimento che il paesaggio appare; in un certo senso nasce in continuazione nell’incontro. E’ anche per questo che io penso a quello che scrivo come ad una sorta di sentiero, è come se tu cadessi nel significato che si va costruendo.

P: Il ritmo ti occupa molto …?

Sì, il ritmo può tirar fuori la materia. Si tratta di raffinare il rumore o il caos in cui ci si trova, è una specie di ritmo, e il ritmo può quasi fungere come una pompa, trascinare avanti la poesia in luoghi che non si sarebbero potuti prevedere; ed è quello che un poeta desidera: arrivare in un altro luogo rispetto a quello di partenza.

P: Stavo riflettendo un po’ su quello che dicevi sul fatto che la poesia è una specie di lavoro alchemico, solo che tu non fabbrichi mai l’oro. Ma il fatto di fabbricare l’oro non è per niente interessante?

No, è il processo che è interessante. Sì, per questo trovo le tue poesie interessanti perché fanno vedere il processo. Io cerco piuttosto di pulirle dalla processualità. Non perché non penso che non ci debba essere, ma scrivo e riscrivo le poesie talmente tante volte che alla fine appaiono in un altro modo. Ci lavoro davvero a lungo, a più riprese; in fondo è solo quando finiscono di trasformarsi che le posso pubblicare. Mi piace molto fare migrare temi da libro a libro. Per esempio la suite con paesaggi in questo libro [Vinci, dopo], quello è una specie di testo ombra al testo “Kompas” [Bussola] che si trova in “Bier dør sovende” [Le api muoiono nel sonno]. Originariamente avevo scritto un testo ad ogni capitolo di “Kompas”, dopo ogni capitolo, come una specie di lievito naturale, devi portare qualcosa della pasta di prima per far lievitare la prossima.

T: E’ un tema ricorrente nella tua poesia che le cose crescono, si diramano.

M’immagino ogni poesia come una specie di ipertesto dove la singola poesia è un taglio, e tra ogni riga esiste l’altra poesia, e ogni verso può essere l’inizio di un’altra poesia, ma è il compito del poeta fare questi tagli, e bisogna poi farlo.

P: Parlando di diramazioni: tu hai tradotto Jorge Luis Borges. In che modo il lavoro della traduzione ha influenzato la tua scrittura?

Buona domanda … (lunga pausa)

P: Scusami …

Figurati. Penso di aver imparato molte cose da Borges, cose che riguardano semplicemente la questione di cosa sia la buona letteratura. Attraverso Borges mi sono occupato molto della figura retorica, ovvero del fenomeno, dell’elenco. Lo trovo molto poetico. Un elenco può essere una poesia, o quasi, penso alla tensione tra ogni cosa dell’elenco, mentre allo stesso tempo gli elementi sono collegati tra di loro da una base, ed è questa base che si ricerca in una poesia. Penso alla lista di animali che cita Foucault anche in “Le parole e le cose”:

Questo testo menziona “una certa enciclopedia cinese” in cui sta scritto che “gli animali si dividono in: a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini di latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) si agitano follemente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et caetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche”.

Qui ci sono dei salti che vengono accettati senza discussioni. Giustamente ci si meraviglia un po’. Anche questo è una sorta di passo: si fa il passo in avanti e non si sa se si trova un appoggio, e poi – ecco – lo troviamo.
E poi il prossimo passo. Ci può essere qualcosa di veramente disuguale, la distanza dei passi. Borges dice che l’elenco degli animali genera tutto il libro per lui, la contemplazione su cosa sia un discorso. E Borges ha degli elenchi fantastici che mi hanno interessato, cosicché il processo di fare elenchi è diventato un modo di scrivere libri; il fatto di lanciare nuovo materiale un pezzo dopo l’altro, ma in modo un poco differito, una specie di accumulazione. In “Bier dør sovende” si vedeva molto questo processo, che ho cercato di eliminare nel nuovo libro, ma poi ho naturalmente l’elenco dei vulcani che effettivamente ha generato un’intera canzone o intera suite. – Il punto di partenza era un elenco dei vulcani attivi su un libro di consultazione per la scuola e la famiglia del 1964.

T: Ma poi c’è l’ultima parte che contiene le parole minime; s’intitola appunto “De mindste ord” [Le parole minime]?

Le parole minime, il titolo è dovuto a una piccola esperienza che ho fatto in un treno per Roma. Avevo portato quelle poesie e stavo lavorando. Davanti a me era seduta una signora anziana. Seguiva attentamente quello che facevo e alla fine non è riuscita più a trattenersi e mi ha chiesto in inglese: “What language is that?”. Ho risposto: “Danish”. “Oh” ha esclamato, “you have such small words …!”. Ma lo sforzo si concentrava appunto su una scrittura che riducesse il linguaggio alle sue parti più piccole, agli atomi del linguaggio, alle unità minime di significato.

T: Un altro po’ sulle diramazioni, penso ai passi, che li allunghi, senza appoggio sotto i piedi, ma più cammini, più a lungo hai camminato, più sereno può essere il passo che fai, e più cose hai da portare nel tuo cammino, per così dire.

Se la poesia è un piccolo corpo che cammina, si potrebbe dire che le possibilità diventano di meno, perché c’è un senso costruito alle spalle, ma se si fa il paragone con una normale camminata, cioè se si paragona una poesia con una camminata, allora ho notato che, dopo all’incirca tre quarti della poesia – e questo vale anche per la prosa – succede che lì arriva l’elenco, lì avviene il capovolgimento, lì avviene la crisi, lì avviene il conflitto. D’altro canto si vede anche una marcatura di quel corpo, una specie di affievolimento, una fine. Equivale all’esperienza che si ha quando si va a camminare, ossia a tre quarti circa della camminata, lo strano black out, la strana sensazione di vuoto di chi ha camminato fino a svuotarsi dentro. E al di là di questo c’è una specie di pensiero, una sorta di conoscenza, di idea. Ho una poesia che tratta specificamente di questo, del camminare all’indietro, pensare all’indietro, fino allo strano punto.

T: Potresti dire un po’ di più sul camminare all’indietro? Il libro inizia addirittura camminando all’indietro, “At gå baglæns i egne fodspor” [Camminare all’indietro sui propri passi].

Non so esattamente perché si tratti tanto di camminare all’indietro in questo libro. Penso che tutto sia cominciato con l’immagine del pittore che va all’indietro per ottenere una visione d’insieme. E in concreto l’inizio si relaziona a una poesia precedente. In un primo momento questo testo era stato pensato come una nota a me stesso. Volevo annotare da dove avesse origine ogni singola cosa della poesia “Kompas” [Bussola]. Ed è diventato un testo noiosissimo. Andare all’indietro e chiedere: da dov’è venuta la poesia? Non era fattibile, non era interessante porre questa domanda. Ma durante questo movimento all’indietro è successo qualcosa di nuovo! Proprio come quando si fanno dei passi indietro per capire cosa si stia facendo. È quasi come mettere a fuoco e sfocare, muoversi tra la parte e il tutto.

P: Avevo in mente tre cose. Jena Osman ha detto che la poesia americana lotta per arrivare a qualcosa di nuovo dopo la language poetry in quanto include la natura umana nella poesia. Ulf Karl Olov Nilsson pubblica un libro che in linea di massima prende le parole da altri testi, diventa una sorta di redattore del proprio libro. Emanuel Hocquard chiama “Theories des Tables” un’ eco del libro di Michael Palmer. È uscita qualche anno fa un’antologia con poesia francese, “Jag skriver i dina ord [“Scrivo nelle tue parole”, Antologia in svedese di poesia francese]”. Tu parli di poesia ombra. Frederik Nyberg pubblica un libro che finisce allo stesso modo della fine della sua prima raccolta di poesie. Qui presenti l’idea di camminare all’indietro, non solo accogliere la scrittura di altri, ma anche la propria?

Funziona, era quello che volevo dire con il lievito naturale, è una sorta di autoiniezione o autovaccino, ma sempre con lo scopo di poter andare avanti, perché è sempre questa la questione, poter andare avanti; ed è strano che a volte bisogni andare all’indietro, anche solo di poco, per poter andare avanti.

P: Più che si va all’indietro, più ci si addentra nella propria produzione, più si scopre che l’unica strada da perseguire è quella che porta in avanti.

Ulf Eriksson ha una bella immagine per questo: entrare nello specchio e allontanarsene, ma allo stesso tempo c’è qualcuno dentro lo specchio che va all’indietro e più a fondo. È una meravigliosa immagine proprio di questo processo.

T: Un motivo nel tuo libro sono tutti gli ospiti che arrivano, ma c’è anche qualcosa di sgradevole, sono invadenti?

Ma siamo ospiti anche noi. Forse gli ospiti arrivano da un luogo dentro al rumore, siamo sempre pervasi da voci, ci sono sempre voci. Penso alle voci come una compagnia di commedia dell’arte che mette tutto sottosopra. Quando scrivo sento sempre l’esperienza di voler arrivare ad una voce che non è la mia ma che mi parla. Ascolto qualcosa nel momento di scriverlo ed è una esperienza fantastica. Direi che è la ragione per cui scrivo, è arrivare al momento in cui dico qualcosa con grande convinzione, che non avevo idea di sapere; ma la sicurezza con cui lo puoi fare, è quasi come ascoltare se stesso, ci si detta qualcosa, ma non si è in nessuno dei luoghi. È questo che intendo dire quando dico che non si tratta tanto di me. Ma non credo neanche che esistano strategie per dissolvere l’io; l’io c’è, ed è per quello che chiamo la poesia sui vulcani un autoritratto, ironicamente, ma non c’è scritto “io” nella poesia. Semplicemente non lo puoi evitare! Esistono tante strategie per evitare l’io, ci si può ubriacare, fumare una canna, ma non si tratta tanto di questo, quanto di sperimentare la conversazione che avviene nella testa di chi scrive, essere in due, essere chi ascolta e chi scrive nella strana … risonante … c’è una sorta di risonanza … che effettivamente equivale al passo, tra il piede e la terra, o quello su cui si fa la pressione, l’impronta, sulla traccia.

P: Sono molto interessato alle sculture. Michelangelo dice che la scultura è già dentro la pietra, ma tu dici che dentro alla scultura esiste ancora una scultura, e tutto questo processo, è quello che fai quando diventi autocommentativo, che la poesia porta in se così tante possibilità di diramazioni?

Penso che si possa affrontare questa figura in tanti modi; sapete Paperino, su una copertina ha un libro, e dentro c’è una immagine della stessa copertina – mise en abyme – e dove si deve fare il taglio, mettere a fuoco? Søren Ulrik Thomsen [altro poeta danese contemporaneo] ha scritto una poetica dove sperimentava che le poesie esistevano già in anticipo. Credo più al momento che ho appena descritto, laddove avviene la poesia, ed avviene quasi in una sorta di vertiginosità dove ci si sperimenta tutti gli specchi o le ripetizioni. Non riesco semplicemente a capire che la poesia o la scultura dovrebbe esistere in anticipo, e Michelangelo l’avrebbe poi anche smentito. Ma poi si presenta l’entità in Michelangelo che è la morte che ferma il processo – lavorava sulla Pietà sei giorni prima della sua morte – la morte mette fine al rispecchiamento, all’effetto eco, ed è reale, ma la scultura è ancora incompleta, sta ancora lì e significa tutto ciò. Si può dire in modo del tutto banale che scultura e poesia sono fortemente collegate, manca solo qualcosa, qualcosa è stato portato via, è una concentrazione, un orientamento sulla forma. Una poesia è una scultura di musica!

P: Lo sperimenti come un poco frustrante? Da un lato tutto il lavoro con la forma, lo scolpire, e allo stesso tempo ci sono tutti gli specchi, il caos?

Penso di stare meglio in una condizione dove le cose non sono programmate, è una specie di ebbrezza dei sensi, una ebbrezza di esperienze, che Niels Lyngsø [poeta contemporaneo danese] ha chiamato “sentimento del mondo” o “sensazione del mondo”. Penso che la poesia o ogni forma di procedimento estetico possa contenere un immenso senso di gioia per quanto riguarda l’esperienza. Ci si può trovare davanti a un quadro o leggere una poesia e vivere una gioia immensa. Forse è per questo motivo che leggiamo, puntiamo al momento in cui avviene qualcosa, non è vero?

T: Dove possiamo essere qualcun’altro?

Penso che quello che succede in quel momento abbia a che fare con le qualità, si sente che il mondo ha tutte le qualità, e allo stesso tempo si sente di averle personalmente quelle qualità; si sente che, sì, è vero, può essere così, e al contempo ci si sente come quel mondo, e quindi anch’io sono parte del mondo. Questo dà una sensazione che somiglia alla felicità, ma non è necessariamente qualcosa di bello, può essere come in David Lynch o in Munch, qualcosa che stride, non è necessariamente bello, può essere benissimo disforico, ma si sperimentano tutta una serie di qualità.

T: E’ qualcosa di estremamente semplice?

Sì, è interessante che una formulazione semplice possa contenere tutto ciò. Non deve necessariamente essere qualcosa di complicato.

T: Sento nel tuo libro una grande nostalgia della semplicità. Che tu cerchi la tranquillità, che vuoi tirarti indietro, forse anche rispetto alle cose che hai accumulato, come quello che tu nel libro chiami “tutto-ciò-che-so”?

Ho fatto il possibile. Penso che sia perché con “Bier dør sovende” [Le api muoiono nel sonno] ho fatto l’esperienza di arrivare a qualcosa che domavo – wow – potevo andare avanti senza problemi, ammassando le immagini e così via; e poi ho avuto quasi paura del fatto che potevo continuare senza difficoltà, e non sarebbe stato particolarmente interessante, perciò ho cercato di fare marcia indietro, ho cercato di tornare ad alcuni punti di partenza che stavano prima di tutto ciò, ma con le nuove conoscenze intatte, e quindi il nuovo libro tratta molto di aprire delle porte per me stesso, perché io possa uscire in alcuni punti, ogni suite è una porta socchiusa, almeno spero.

T: Fai un falò di tutto ciò che sai a un punto precoce del libro – “Raccolgo tutto-ciò-che-so in piccole cataste / e vi appicco il fuoco” – ma non significa abbandonarlo del tutto?

No, per l’appunto. Ma la cosa strana è che quando le cose vanno bene, non si pensa, non si sa niente, quindi bisogna farsi stupidi, o ignoranti. Questo fatto del non-sapere o ignoranza è un fatto affascinante. Quando si scrive o quando si legge una poesia può succedere di leggere qualcosa che non si capisce, ma avere la sensazione che lì c’è qualcosa di bello, come alcune delle letture a cui abbiamo assistito, sento che ora succede qualcosa, ma non lo so, sono in qualche modo nell’anticamera della percezione, e vorrei rimanere lì il più a lungo possibile, perché puoi sempre tornare indietro, o andare attraverso la razionalità e cambiare questo non-sapere in sapere, ma posso sempre aspettare di farlo, si tratta di rinviare, e quindi vorrei aspettare il più a lungo possibile.

P: La deviazione deve essere la più lunga possibile?

Anche voi conoscerete l’esperienza che si ha a scuola quando si incontra la poesia per la prima volta, non si sa cosa sia, ma è qualcosa … solo che non lo capisco … è qualcosa … e ne vorrei solo un po’ di più, così lo potrò capire più tardi!

T: E questa sarebbe una bella intuizione?

Sì, e vorremmo sempre avere le belle intuizioni, ed è così che ci orientiamo, non è vero; e penso che questo si possa collegare a quello che ho detto delle qualità, si ha semplicemente la sensazione di qualcosa, eccesso di qualità, tra te e il mondo, contatto.

T: Una specie di scambio?

Sì, uno scambio, dove in ogni caso si è uguali, pari, è qualcosa di etico, in fondo.

T: E’ in questo che la poesia è radicale?

Ho detto così? Che le mie poesie sono radicali?

T: No, cerco di scoprirlo; pensi che lo sono?

Sono appena stato alla galleria qui vicino, e mentre ero lì pensavo che nei poeti della language poetry entra in ballo la concezione che si ha di sè. Ci si percepisce come sperimentalisti, dove tutto gira intorno allo sperimentare, l’avanguardia, il rimuovere le cose, o ci si percepisce come dipendenti dell’esperimento? Arrivati a un certo punto si deve andare avanti, e come si fa? In fondo c’è qualcosa di positivo … odio gli sperimentalisti, ma amo l’esperimento.

P: Dici qualcosa del genere anche del surrealismo, che non è interessante, la scrittura automatica in se stessa?

Se si ha le spalle al muro, come lo vivevo dopo “Le api muoiono nel sonno” – era un muro che mi ero costruito da solo – penso che ci sia una strada sola – in avanti – e se ci rimani a lungo, diventi disperato abbastanza per rischiare di andare avanti; non vorrei idealizzarlo troppo, ma è andata più o meno così. Ma è una cosa ben concreta, uno stop, un corridoio che viene bloccato, ci si gira e si guarda quello che si è fatto e si pensa che quella strada non va più bene e quindi dovrò fare qualcosa d’altro. Punto d’orientamento, processo.

P: Ci sono state connessioni alla poesia americana nella poesia danese?

Ci sono anche persone che, più interiormente, non si appoggiano, ma usano la propria scrittura per andare avanti. Uno scrittore come John Ashbery ha avuto grande significato per me, non avrei potuto scrivere “Kompas” senza aver letto “A Wave”, indubbiamente. Ma non avrei potuto scrivere le poesie sui Paesaggi senza un poeta come l’austriaco Peter Waterhouse, che non è “language”, ma affine. Io poi passeggerò in un’altra maniera, ma è bene stare in compagnia.

T: Quindi il terreno non è più così insicuro?

Penso di dover stare attento a esprimermi in modo troppo eroico, perché ci si porta sempre dietro qualcuno.

T: Ma non appari tanto eroico in questo nuovo libro; ci sono tanti dubbi. Hai parlato molto in termini positivi, cosa si possa ottenere idealmente scrivendo o leggendo, ma questo libro porta con se il dubbio, il dubbio se si potrà ottenere queste cose?

Il dubbio è anche straordinariamente utile, lo vorrei con me il più a lungo possibile, e vorrei aspettare il più possibile di trovare la forma, perché alla fine la forma diventa meramente uno stampo per dolci, e poi avrai dolci sempre uguali; nell’altro modo, invece, ci si è procurati delle esperienze.

T: Sai di trovare la forma anche se aspetti?

Sì, ma il discorso del dubbio è una cosa di cui ho discusso con Jørgen Haugen Sørensen che è uno scultore danese che vive nella mia stessa città. È lui che mi ha fatto vedere la statua di Michelangelo, e mi dice: prova a vedere quanto Michelangelo abbia dei dubbi, è questo che rende la scultura tanto commovente; in un certo modo è un gesto molto generoso. Non penso che sprechi nessuna possibilità usando il dubbio. Pensate anche all’opera di Giacometti – è un unico dubbio!

P: Penso che il dubbio abbia un grande effetto di riconoscimento, è anche quello che ci fa riconoscere, un po’ come quando vedi qualcuno e vedi che ha avuto dei dubbi, lo stesso tipo di riconoscimento.

T: Un po’ come“anch’io sono così”?

Si arriva a un punto in cui la perfezione non è poi così interessante, un punto in cui l’opera non deve essere perfetta o finita.

P: Durante gli ultimi 100 anni abbiamo elogiato l’impuro, il dubbio, tutti i valori post-surrealisti, pensi che torneremo mai e che quindi vorremo la perfezione?

C’è chi dice che quello che scrivo sia classicistico. Non capisco la parola a fondo. D’altra parte il preludio in do maggiore di Bach è il pezzo di musica più semplice e facile che si possa immaginare. Penso che il mio libro colga ora un’altra dimensione, spero che venga fuori questo aspetto, sopratutto “Le parole minime”, dovrebbe trovarsi a quel livello; cosa si possa dire?

P: Cole Swensen ha detto che la poesia post language vorrebbe introdurre l’elemento umano, “in a respectable way”, come dice lei; devi essere responsabile nei confronti della materia, la devi usare con rispetto.

Non importa come sia avvenuto, ma si tratta di mettere ogni virgola nel modo giusto, mettete le virgole in modo giusto!

T: Che tipo di etica c’è in tutto ciò?

È un imperativo etico, fare le cose nel modo migliore possibile. Dubita di tutto strada facendo, e cerca di tenere quante più porte aperte possibile. Potremmo sintetizzarlo con il termine apertura. Aprire, dove continuare poi? È una strategia etica semplice, concerne tutto, si vedono così tante azioni che cercano di chiudere in questi tempi.

T: Un contrappeso alla “den vaskeægte vanvittige virkelighed” [la realtà pazza e concreta] come la chiami nel libro?

Sì, lo si potrebbe dire, ma è anche un po’ da bravi ragazzi rappresentare la realtà mediatica in questo modo; ma aveva chiaramente a che fare con l’11 settembre e tutti i fatti di quel momento, e tutto il caos in cui ho la sensazione di trovarmi immerso; un caos che si manifesta invadente, anche da parte dei media; bisogna sempre orientarsi, si è sempre messi in gioco, non ti lasciano mai in pace. Ma cosa si intende in fondo con la parola “verità”? “La realtà, dopo”. Sembra intanto come se tanti facessero riferimento alla realtà in modo assolutamente gratuito; la realtà è un assegno in bianco. Si può sempre fare riferimento ad essa. È sempre vera. Ma ogni realtà è una costruzione. Nel mio piccolo romanzo “Tingenes Orden” [L’ordine delle cose] c’è una situazione dove a un tratto c’è un uomo con una busta di plastica piena di birre che domanda: “Mi scusi, ma la realtà, dov’è?” – è entrato nel romanzo sbagliato … Ma la cosa strana è che la realtà possa sempre trovarsi in un romanzo di 572 pagine o nel telegiornale. Molti scrittori preferiscono scrivere della realtà come la conoscono loro. In questo modo non sono portati a sovraccaricare la loro immaginazione. Forse si potrebbe dire che o si cerca di rappresentare “lo stesso, ciò che si sa” o “l’altro, ciò che non si sa” – sono decisamente più attratto da poeti che cercano di rappresentare “l’altro”. Perché in questo modo si capisce sempre un po’ di più cosa sia lo stesso … Forse una poesia può dire più della realtà di un lungo romanzo socio-psicologico? Forse la poesia è una scorciatoia alla realtà? Teniamo un posto aperto per la poesia nella lingua, ma forse la poesia si trova prima del linguaggio e quindi più vicino a quella che chiamiamo realtà? La poesia è un’ottica fantastica da avere, perché è un luogo in si può trovare la bellezza, dove possiamo esplorare il linguaggio, dove noi, nel migliore dei casi abbiamo fatto il nostro lavoro nel migliore dei modi, e ancora meglio: dove ci siamo superati. La poesia di fatto esiste. La poesia è l’unica speranza.

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POESIA, CURA, TRADUZIONE e EDITORIA – SABATO 26 SETTEMBRE

a partire dalle 15, presso il Centro Libellula di Morlupo, la V giornata del progetto Morlupo Città della Poesia 2015 propone un pomeriggio straordinariamente ricco di incontri per fare il punto su POESIA, CURA, TRADUZIONE e EDITORIA con moltissimi esperti del settore.

Una MINIFIERA assolutamente da non perdere…!

PROGRAMMA ingresso libero

15,00 tavola rotonda “Poesia e cura” in collaborazione con Dipartimento Salute Mentale della Asl RM F incentrato sugli esiti del Laboratorio di Scrittura progettato dall’Ass. Libellula. INTERVENTI di Marco Commissari (Sindaco di Morlupo) dott.ssa Concetta Rotondo (psicoterapeuta Ass. Libellula) dott.ssa Daniela Foglietta (responsabile del servizio DSM Morlupo Asl RMF ) dott.ssa Rosa D’Acunzio (psicoterapeuta Asl RMF) dott.ssa Alessia Cardile (assistente sociale Asl RMF) Gabriella Marini (operatrice sanitaria Asl RMF). Coordina Viviana Scarinci, Fondo Librario di Poesia di Morlupo.

17,00 presentazione del libro “A Vinci, dopo Gli alberi hanno ragione. Blog” di Morten Søndergaard edito da Del Vecchio Editore a cura del traduttore Bruno Berni e di Paola Del Zoppo. Presente l’autore via Skype.

17,30 tavola rotonda “La traduzione come momento di libertà” in collaborazione con STRADE Sindacato Traduttori Editoriali. INTERVENTI di Bruno Berni (traduttore) Riccardo Duranti (traduttore, scrittore e responsabile Coazinzola Press) Fabio Pedone (giornalista e traduttore) Daniele Petruccioli (segreteria STRADE Sindacato Traduttori Editoriali) Viviana Scarinci (Fondo Librario di Poesia di Morlupo) Hanna Suni (traduttrice e grafica L’Iguana Editrice) Enrico Terrinoni (giornalista e traduttore). Coordina Paola Del Zoppo, Università degli Studi della Tuscia e traduttrice responsabile redazione Del Vecchio Editore.

18,30 presentazione del libro “Il fuoco dello sguardo” di John Berger edito da Coazinzola Press a cura di Riccardo Duranti traduttore, scrittore e responsabile Coazinzola Press.

19,00 reading dai libri presentati a cura del Circolo dei Lettori di Poesia. Leggono Hanna Suni, Barbara Maggi, Concetta Rotondo, Elfi Buda, Jodie Bevers, Luca Miti, Lucio Decina, Alessandro Paribelli.


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