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E’ possibile lo sviluppo senza investimenti pubblici per l’innovazione? Mazzucato dice no

Creato il 01 settembre 2014 da Sviluppofelice @sviluppofelice

di Angelo Salento  

Lo Stato Innovatore di M.Mazzucato

Lo Stato Innovatore di M.Mazzucato

Il libro della Mazzucato su Lo Stato innovatore[1] è, a giusto titolo, uno dei lavori economici più celebrati degli ultimi anni. Si colloca accanto alla monumentale ricerca di Piketty (2013); alla lucidissima ricostruzione del post-2008 di Streeck (2013); alle tante ricerche sull’accumulazione finanziaria (come ad es. Lapavitsas 2013).

La tesi di Mazzucato è semplice: gli stati nazionali hanno un ruolo fondamentale nei processi di innovazione economica e tecnologica. Se questo oggi non può è scontato, ciò si deve alla straordinaria pervasività e resilienza delle mitologie liberiste, che mostrano (in Italia forse più che altrove) di poter resistere anche a clamorose smentite.

Sulla base di una ricerca empirica di lungo corso – riassunta in modo chiaro e accessibile – l’economista del Sussex elabora una serie di assunti, che sono linee-guida per una nuova stagione dell’innovazione economica. Sono almeno tre le indicazioni che ne sortiscono:

  1. Come insegna la storia dei dispositivi tecnologici di ultima generazione (Mazzucato ricostruisce quella dell’iPhone di Apple; cap. 5), l’impresa privata si limita ad applicare a prodotti commerciali alcune innovazioni che nascono dall’iniziativa statale (con ingenti guadagni). In un’epoca in cui l’accumulazione del capitale è orientata soprattutto al breve e al brevissimo periodo, privilegiando le rendite finanziarie rispetto al profitto propriamente detto, le imprese private sono men che mai disposte a perseguire processi di innovazione di lungo termine.

La tesi, spesso apodittica, che l’innovazione è frutto della razionalità dei privati è smentita dalle prove di Mazzucato.

  1. Per l’innovazione oggi sono essenziali le tecnologie green. In questo settore, i risultati migliori – anche in termini di brevetti e di esportazione di tecnologia – si sono avuti nei paesi che hanno abbracciato la produzione energetica sostenibile, come la Danimarca e altri piccoli paesi (v. capp. 6 e 7).

Quindi, per l’innovazione, sono le scelte di investimento degli stati a indirizzare quelle dei privati. Ciò che induce i privati a investire in ricerca e sviluppo non è una generica propensione a innovare, ma è la convinzione che alcuni settori – quelli su cui c’è un massiccio investimento pubblico (di risorse economiche, ma anche simboliche) – costituiscono un orizzonte di sicuro successo.

  1. Il nucleo del discorso neo-liberale – cioè che l’impresa privata sia l’unico interprete razionale del mondo economico – è dunque infondato. Le dinamiche spontanee dell’accumulazione, oggi, non producono affatto benessere, se non per i pochissimi che guadagnano a spese del corpo sociale (consumatori indebitati, fornitori con le spalle al muro, lavoratori sempre più poveri e insicuri). Le imprese private non sono di per sé in grado di generare un’innovazione “smart”, inclusiva e sostenibile, di promuovere un benessere diffuso e duraturo. L’idea neo-liberale secondo cui lo stato deve solo “creare le condizioni” affinché le imprese siano “libere” di innovare (tante sono le citazioni di questo genere, nel libro; ma innumerevoli nell’editoria quotidiana) è un’idea regressiva. Ogni innovazione di lungo corso ha un retroterra istituzionale, riposa su scelte politiche e su grandi investimenti pubblici. Lungi dall’essere solo un garante di ultima istanza rispetto ai fallimenti del mercato, lo stato è un faro per ogni processo di innovazione.

Quella di Mazzucato non è una ricetta “debolmente keynesiana” di sostegno della domanda aggregata. Essa accredita allo stato una capacità, e una missione storica che i trenta e più anni di esperimento liberista (ripetutamente fallito e tuttora reiterato) hanno sepolto sotto un cumulo di macerie ideologiche.

Quanto all’Italia, l’idea che bisognasse liberare il campo dall’ingombrante presenza del pubblico è stata la giustificazione principale delle privatizzazioni. La depoliticizzazione dell’economia e il lasciare libero campo alle oligarchie economico-finanziarie è stata la missione della maggior parte dei governi, “tecnici” o “politici” che fossero, dai primi anni Ottanta ai giorni nostri. Liberare le imprese dai vincoli è stata la giustificazione per rendere precari i rapporti salariali.

Oggi l’Italia è in grado di esprimere qualità e quantità di ricerca (pubblica) all’altezza dei Paesi più innovativi (soprattutto se rapportata alle risorse investite)[2]. Ma al tempo stesso esprime un ceto politico e una sfera mediatica che reiterano ossessivamente il mantra neo-liberale, delegittimando l’idea stessa che la ricerca pubblica abbia un senso.

Svelando l’infondatezza della predicazione liberista, Mazzucato invoca «an exciting vision of the State’s role»: quella di uno stato risk-taking, che si propone un’innovazione radicale. È un’idea fuori moda, di cui, però, è giunto il momento; un’idea moderna, che va presa sul serio. Ma con una precisazione: accanto ai grandi investimenti e al ruolo dello stato nell’innovazione, una parte essenziale dell’economia – quella che costituisce l’infrastruttura della riproduzione sociale – è legata ai contesti locali e a processi di innovazione sociale. Senza una economia di base robusta e senza un benessere diffuso non c’è possibilità di innovazione radicale. Sull’uno e sull’altro campo si gioca, perciò, la sfida dello sviluppo felice.

 L’articolo 1/9/2014

Riferimenti:

Lapavitsas C. (2013), Profiting without Producing: How Finance Exploits Us All, London: Verso.

Piketty Th. (2013), Le capital au XXI siècle, Paris: Seuil.

Streeck W. (2013), Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano: Feltrinelli.

[1] Mariana Mazzucato, The Entrepreneurial State, London: Anthem (Lo stato innovatore, Roma-Bari: Laterza, 2014).

 [2] V. la nota di G. De Nicolao su ROARS: http://www.roars.it/online/anvur-italia-meglio-di-germania-francia-e-giappone-come-efficienza-della-ricerca-pubblica/


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