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E. Wiesel, La notte, Firenze, La Giuntina, 1998

Creato il 05 gennaio 2011 da Edizionialtravista

E. Wiesel, La notte, Firenze, La Giuntina, 1998

Oltre ad essere un racconto autobiografico che dipana il ricordo secondo l'ordine con il quale gli eventi della Shoah si mostrarono agli occhi di un bambino di tredici anni, tenendoli prigionieri fino all'età di sedici; La notte di Elie Wiesel è anche un esemplare di estrema bellezza e poesia.
Su come la poesia possa riaffiorare dal fondo più buio nel quale l'umanità è relegata, Wiesel ce lo mostra modulando con le parole il suono del violino di Juliek di Varsavia:

"Riflettevo così quando sentii il suono di un violino. Il suono di un violino nell'oscura baracca dove dei morti si ammucchiavano sui vivi. Chi era quel pazzo che suonava il violino qui, sull'orlo della propria tomba? O era solo un'allucinazione? Doveva essere Juliek. Suonava un frammento di un concerto di Beethoven. Non avevo mai ascoltato suoni così puri. In un tale silenzio. Com'era riuscito a svincolarsi, a estrarsi di sotto al mio corpo senza che lo sentissi? L'oscurità era totale. Sentivo soltanto quel violino ed era come se l'anima di Juliek gli servisse d'archetto. Suonava la sua vita. Tutta la sua vita scivolava sulle corde. Le sue speranze perdute, il suo passato bruciato, il suo avvenire spento. Suonava quello che non avrebbe mai più suonato. Non potrò mai scordare Juliek. Come potrei scordare quel concerto dato per un pubblico di agonizzanti e di morti! Ancora oggi, quando sento suonare Beethoven, i miei occhi si chiudono e, dall'oscurità, sorge il volto pallido e triste del mio compagno polacco che dava l'addio col suo violino a un uditorio di moribondi. Non so per quanto suonò. Il sonno mi vinse, e quando mi svegliai, sul fare del giorno, vidi Juliek di fronte a me ripiegato su se stesso, morto. Accanto a lui giaceva il violino, pestato, schiacciato, piccolo cadavere insolito e sconvolgente".

Così Juliek accorda, nonostante tutto, la sua musica, che si apre un varco attraverso i corpi vivi e morti accatastati dai nazisti nelle baracche, per rivelarsi: è uno squarcio nel buio fitto della notte...
Con le prime deportazioni, con il viaggio sui carri bestiame, con la vita nel campo di concentramento in cui, rivolto verso il cielo, lo sguardo si perde nel fumo di camini che non portano calore, ma solo un freddo gelido nell'anima, Wiesel bambino conosce "il volto dell'inferno e della morte"; e così non può fare a meno di interrogare di nuovo la sua fede nel Dio unico che lo ha allevato. Ora che racconta quei fatti trascinati dalla sua memoria attraverso il tempo, ricompone anche i tasselli del giovanile interesse verso le cose che riguardano Dio. Una di queste tessere, emblematica nella sua vicenda personale, è Moshé lo Shammàsh. Nella quiete di Sighet, suo paese di origine, non ancora reso tetro dal nazismo, Eliezer si intrattiene spesso a conversare con Moshé che gli svela un possibile significato della preghiera:

"Mi spiegava con grande insistenza che ogni domanda possedeva una forza che la risposta non conteneva più... "L'uomo si eleva verso Dio per mezzo delle domande che Gli pone" amava ripetere. "Ecco il vero dialogo: l'uomo interroga e Dio risponde. Ma le Sue risposte non si comprendono, non si possono comprendere, perché vengono dal fondo dell'anima e vi rimangono fino alla morte. Le vere risposte, Eliezer, tu non le troverai che in te.". "E tu, Moshé, perché preghi?" gli domandai. "Prego Dio che è in me di darmi la forza di poterGli fare delle vere domande". [...] E durante tutte queste serate mi convinsi che Moshé lo Shammàsh mi trasportava con sé nell'eternità, in quel tempo in cui domanda e risposta diventano Uno".

Solo che le conversazioni furono bruscamente interrotte dalle prime deportazioni tra cui quella di Moshé; né ripresero quando questi riuscì a tornare miracolosamente a Sighet. Nuove parole uscirono allora dalla sua bocca, che ormai raccontava tristemente solo le cose viste. Lo Shammàsh simbolicamente lascia presagire quel che accadrà dopo. Il suo silenzio intorno alla verità mistica, stando di fronte al precipizio dell'inferno, è quello che Eliezer sentirà vieppiù crescere dentro di sé. Lascerà insieme agli altri il Ghetto con sulle labbra una flebile richiesta a Dio di pietà. Lasceranno il Ghetto di Sabato dopo aver pronunciato "le consuete benedizioni sul pane e sul vino e inghiottito il cibo senza dir parola". Insieme a quel cibo inghiottirono anche l'ultima vaga speranza che ogni allarmismo e ogni sciagurata profezia (compresa quella di Moshé) si sarebbero rivelati eccessivi rispetto alla realtà. Tuttavia, ancora l'inferno non aveva mostrato tutta la sua profondità:

"Notte. Nessuno pregava perché la notte passasse presto. Le stelle non erano che scintille nel grande fuoco che ci divorava. Quando questo fuoco si sarebbe estinto, un giorno, non ci sarebbe stato più nulla in cielo, ma solo delle stelle spente, degli occhi morti".

Nel campo Eliezer, attaccato a suo padre come all'unico brandello di vita, dopo aver perso madre e sorelle, iniziò ad interrogare Dio:

"Per la prima volta sentii la rivolta crescere in me. Perché dovevo santificare il Suo Nome? L'Eterno, il Signore dell'Universo, l'Eterno Onnipotente taceva: di cosa dovevo ringraziarLo?"; ""Dov'è dunque Dio?". E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: "Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca...""; ""Chi sei Tu, mio Dio, - pensavo con rabbia - in confronto a questa folla addolorata che viene a gridarTi la sua fede, la sua ira, la sua rivolta? Che significa la Tua grandezza, Signore dell'Universo, di fronte a tutta questa debolezza, di fronte a questa decomposizione, a questa putrefazione? Perché turbare ancora i loro spiriti malati, i loro corpi infermi?"".

In occasione di Rosh Hashanà, il popolo derelitto raccoglie le sue forze per benedire l'Eterno - estrema resistenza alla tortura nazista - ma è come se le parole rimangano perse, esiliate dal loro contenuto:

"In altri tempi il giorno del Nuovo Anno dominava la mia vita; sapevo che i miei peccati rattristavano l'Eterno e imploravano il Suo perdono. In altri tempi credevo profondamente che da uno solo dei miei gesti, che da una sola delle mie preghiere dipendesse la salvezza del mondo. Oggi non imploravo più. Non ero capace di gemere. [...] ed ero solo al mondo, terribilmente solo, senza Dio, senza uomini; senza amore né pietà".

E così il dolore scava nell'anima di un adolescente mentre la fame fa lo stesso nel suo stomaco.
Anche questo ha fatto il nazismo: oltre alla degradazione fisica - prima fra tutte la sostituzione di un nome con un numero, stigmate indelebile -, oltre all'insensibilità e all'incapacità di pensare ad altro che non fosse la propria sopravvivenza, oltre ad uccidere anche l'amore fra padri e figli, oltre a sterminare i corpi, il nazismo ha attentato anche alla fede, a quella speranza che ogni singola domanda rivolta a Dio non cada nel vuoto.
Mai più, in nessun luogo.
http://raccontareper.blogspot.com/


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