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Edgar Allan Poe – “La logica del verso” 1

Creato il 16 ottobre 2012 da Marvigar4

la logica del verso

Edgar Allan Poe

La logica del verso

traduzione dall’originale The rationale of verse

di Marco Vignolo Gargini

   La parola «Verso» qui non è usata nel suo significato stretto o primitivo, ma come il termine più adatto per esprimere in generale e senza pedanteria tutto ciò che riguarda la considerazione del ritmo, della rima, del metro e della versificazione.

   Non c’è, forse, alcun argomento nella buona letteratura che sia stato con più persistenza discusso, e di certo non ce n’è nessuno sul quale si può dire giustamente che esiste così tanta imprecisione, confusione, pregiudizio, travisamento, mistificazione e ignoranza bella e buona sotto tutti gli aspetti.

   Se l’argomento fosse davvero difficile, o vagasse, persino, nell’iperuranio della metafisica, dove i vapori del dubbio possono assumere qualsiasi forma nella volontà e nella fantasia di chi li osserva, avremmo meno ragioni per stupirci di tutte queste contraddizioni e perplessità; ma in effetti il soggetto è estremamente semplice; per un decimo, potendo, può essere definito etico; nove decimi, tuttavia, sono di pertinenza della matematica; e il tutto è incluso nei limiti del più comune buonsenso.

   “Ma, se questo è il caso, ” ci si chiederà, “come può essere nato un fraintendimento così grande? È concepibile che un migliaio di studiosi profondi, investigando per secoli un argomento così semplice, non siano stati capaci di far piena luce su di esso o, se non altro, su ciò che è suscettibile d’esser chiarito?” A questi interrogativi, confesso, non è facile rispondere: ad ogni modo, una replica per loro soddisfacente potrebbe costare più fatica di quanto ne richiederebbe, se correttamente valutata, l’intera vexata quaestio alla quale fanno riferimento. Tuttavia, non c’è molta difficoltà o pericolo a suggerire che “un migliaio di studiosi profondi” potrebbero in primo luogo aver sbagliato, perché erano studiosi; in secondo luogo, perché erano profondi; e in terzo luogo, perché erano un migliaio — essendo state così moltiplicate per mille volte l’impotenza dell’erudizione e la profondità. Sono serio ad avanzare questi suggerimenti; dato che, ancora in primo luogo, c’è qualcosa nella “erudizione” che ci spinge al cieco culto degli idola theatri di Bacon [1] — all’irrazionale deferenza verso l’antichità, in secondo luogo, la “profondità” vera e propria è di rado profonda — è la natura della Verità in generale, come di alcuni metalli grezzi in particolare, ad essere più ricca quando è più superficiale; in terzo luogo, l’argomento più chiaro può essere oscurato dalla semplice sovrabbondanza delle parole.

   In chimica, il modo migliore per separare due corpi è di aggiungerne un terzo; nella speculazione, spesso un fatto concorda con un altro e un argomento con un altro finché un fatto o un argomento aggiuntivo in buona fede rimescola tutto. In un caso su cento un punto viene discusso eccessivamente perché è oscuro; nei novantanove restanti è oscuro perché eccessivamente discusso. Quando un argomento è così circostanziato, il modo più facile per esaminarlo è dimenticare che sono state tentate ricerche precedenti.

   Ma, in realtà, mentre si è scritto molto sui ritmi greci e latini, e persino su quelli ebraici, sono stati fatti pochi sforzi per esaminare quelli di qualcuna delle lingue moderne. Riguardo all’inglese, al confronto non è stato fatto niente. Si potrebbe dire, in effetti, che ci troviamo senza un trattato sui nostri versi. È vero, nelle nostre grammatiche comuni e nelle nostre opere sulla retorica o la prosodia in generale, si possono trovare capitoli occasionali che hanno per titolo Versificazione, ma questi sono, in ogni esempio, estremamente scarsi. Non pretendono di analizzare; non propongono nulla di sistematico; non fanno alcun tentativo persino sulla regola; tutto dipende dalla “autorità”. Nei fatti sono confinati alla semplice esemplificazione delle supposte varietà dei piedi e dei versi inglesi — sebbene in nessuna delle opere che conosco questi piedi siano correttamente segnati o questi versi siano presi in ogni dettaglio della loro piena ampiezza.

   Eppure ciò che è stato detto sopra è tutto — se si eccettua l’introduzione occasionale di qualche pedagogismo, come questo preso dalle Prosodie Greche: «Quando manca una sillaba il verso si dice catalettico; quando la misura è esatta, il verso è acatalettico; quando c’è una sillaba in più forma un ipermetro». Ora, che un verso sia definito catalettico o acatalettico è, forse, un punto d’importanza non vitale — è perfino possibile che lo studente sia in grado di decidere, prontamente, quando la «a» debba essere impiegata e quando omessa, pur restando all’oscuro, nello stesso tempo, di tutto ciò che vale la pena conoscere sulla struttura del verso.

   Un difetto principale dei nostri trattati (se possono essere definiti trattati) è confinare l’argomento alla mera Versificazione, mentre il Verso in generale è il vero problema in questione, con il significato attribuito al termine all’inizio di questo saggio. Né mi risulta dell’esistenza di nemmeno una delle nostre grammatiche che definisca con molta esattezza la stessa parola versificazione. «La Versificazione,» dice un’opera che ho adesso davanti a me, la cui accuratezza è di gran lunga superiore all’usuale — la Grammatica Inglese di Goold Brown [2] — «La Versificazione è l’arte di ordinare le parole in versi di corrispondente lunghezza, in modo che si produca armonia con il regolare alternarsi di sillabe differenti in quantità.» L’inizio di questa definizione potrebbe in effetti applicarsi all’arte della versificazione, ma non alla versificazione stessa. La Versificazione non è l’arte di ordinare, etc, ma l’effettivo ordinare — una distinzione troppo ovvia per necessitare un commento. L’errore qui è identico a quello cui si è troppo a lungo permesso di disonorare la pagina iniziale di ognuna delle nostre grammatiche scolastiche. Alludo alle definizioni della stessa grammatica inglese. «La grammatica inglese», si dice, «è l’arte di parlare e scrivere correttamente la lingua inglese.» Questa fraseologia, o qualcosa di essenzialmente simile, è usata, credo, da Bacon, Miller, Fisk, Greenleaf, Ingersoll, Kirkland, Cooper, Flint, Pue, Comly, e molti altri. Si presume che questi signori l’abbiano adottata senza esaminarla da Murray, che la desunse da Lily (la cui opera era «quam solam Regia Majestas in omnibus scholis docendam praecipit [3]»), e se ne appropriò senza complimenti, ma con alcune insignificanti modifiche, dalla grammatica latina di Leonicenus. Si può dimostrare, comunque, che questa definizione, così compiacentemente accolta, non è e non può essere una definizione corretta della grammatica inglese. Una definizione è quella che descrive il suo oggetto così da distinguerlo da tutti gli altri — non è definizione di nessuna cosa se i suoi termini sono applicabili ad ogni altra. Ma se si chiede: «Qual è il motivo — il fine — lo scopo della grammatica inglese?» la nostra risposta ovvia è: «L’arte di parlare e scrivere la lingua inglese correttamente» — vale a dire, dobbiamo usare le parole precise usate come definizione della stessa grammatica inglese. Ma l’oggetto da ottenere con ogni mezzo non è, sicuramente, il mezzo stesso. La grammatica inglese e il suo fine contemplati dalla grammatica inglese sono due cose sufficientemente distinte; né l’una può essere comparata più ragionevolmente all’altra di quanto lo possa l’amo da pesca con un pesce. La definizione, pertanto, che è applicabile in ultima istanza, non può, nel primo caso, essere vera. La grammatica in generale è l’analisi del linguaggio; la grammatica inglese l’analisi dell’inglese.

   Ma torniamo alla versificazione come è stata definita nell’estratto citato sopra. «È l’arte», dice l’estratto «di ordinare le parole in versi di corrispondente lunghezza.» Non è così: — una corrispondenza nella lunghezza dei versi non è affatto essenziale. Le odi pindariche sono, sicuramente, esempi di versificazione, eppure queste composizioni sono note per l’estrema diversità nella lunghezza dei loro versi. L’accordo è inoltre definito come il proposito di produrre «armonia con la regolare alternanza», etc. Ma l’armonia non è il solo scopo — neppure il principale. Nella costruzione del verso, la melodia non dovrebbe mai essere trascurata; eppure questo è un punto che tutte le nostre prosodie hanno perlopiù in modo inspiegabile dimenticato di toccare. Le regole ragionate su questo argomento dovrebbero costituire una parte di tutti i sistemi sul ritmo.

   «In modo che si produca armonia », dice la definizione, « con il regolare alternarsi», etc. un’alternanza regolare, come è descritta, non fa parte di alcun principio della versificazione. L’ordine degli spondei e dei dattili, per esempio, nell’esametro , è un ordine che può essere definito casuale. Perlomeno è arbitrario. Senza interferenze con il verso nel complesso, un dattilo può essere sostituito con uno spondeo, o il contrario, in ogni altro punto tranne che nell’ultimo e penultimo piede, di cui il primo è sempre uno spondeo, l’ultimo quasi sempre un dattilo. Qui, è chiaro, non abbiamo nessun «regolare alternarsi di sillabe differenti in quantità.»

   «In modo che si produca armonia», continua la definizione «con il regolare alternarsi di sillabe differenti in quantità», — in altre parole con l’alternanza di sillabe lunghe e brevi; poiché nel ritmo tutte le sillabe sono necessariamente sia brevi che lunghe. Ma non solo debbo negare la necessità di qualsiasi regolarità nella successione dei piedi e, di conseguenza, delle sillabe, ma contesto l’essenzialità di qualunque alternanza regolare o irregolare, delle sillabe lunghe o brevi. Il nostro autore, va osservato, è ora impegnato in una definizione della versificazione in generale, non della versificazione inglese in particolare. Ma i metri greci e latini abbondano di spondei e pirrichi — i primi composti da due sillabe lunghe, i secondi da due brevi; e ci sono numerosi esempi di successione immediata di molti spondei e molti pirrichi.

   Ecco il passo da Silio Italico:

Fallis te mensas inter quod credis inermem

Tot bellis quæsita viro, tot cædibus armat

Majestas eterna ducem: si admoveris ora

Cannas et Trebium ante oculos Trasymenaque busta,

Et Pauli stare ingentem miraberis umbram.

   Facendo le elisioni richieste dalle classiche prosodie, scandiremo così questi esametri:

Fāllīs | tē mēn | sās īn | tēr qūod | crēdĭs ĭn | ērmēm |

Tōt bēl | līs qūæ | sītă vĭ | rō tōt | cædĭbŭs | ārmāt |

Mājēs | tās ē | tērnă dŭ | cēm s’ād | mōvĕrĭs | ōrā |

Cānnās | ēt Trĕbī | ānt’ ŏcŭ | lōs Trăsў | mēnăquĕ | būstā

[[|]]

ēt Pāu | lī stā | r’īngēn | tēm mī | rābĕrĭs | ūmbrām |

   Si osserverà che nel primo e nell’ultimo di questi versi abbiamo solo due sillabe brevi su tredici, con una successione ininterrotta di non meno di nove sillabe lunghe. Ma come dobbiamo conciliare tutto questo con una definizione di versificazione che la descrive come «l’arte di ordinare le parole in versi di corrispondente lunghezza, in modo che si produca armonia con il regolare alternarsi di sillabe differenti in quantità»?

   Si potrebbe insistere, tuttavia, che l’intenzione del nostro prosodista era quella di parlare soltanto dei metri inglesi e che, omettendo ogni cenno allo spondeo e al pirrico, ha virtualmente dichiarato la loro esclusione dai nostri ritmi. Un grammatico non è mai scusabile a causa delle buone intenzioni. Esigiamo da lui, se mai da qualcuno, una precisione rigorosa di stile. Ma concediamo l’intenzione. Ammettiamo pure che il nostro autore, seguendo l’esempio di tutti gli autori di testi sulla prosodia inglese, nel definire in libertà la versificazione abbia inteso dare soltanto una definizione di quella inglese. Tutti questi prosodisti, diremo, respingono lo spondeo e il pirrico. Comunque tutti ammettono il giambo, che consiste in una sillaba breve seguita da una lunga; il trocheo, che è il contrario del giambo; il dattilo, formato da una sillaba lunga seguita da due brevi; e l’anapesto —due brevi seguite da una lunga. Lo spondeo è impropriamente rigettato, come dimostrerò adesso. Il pirrico è a buon diritto scartato. La sua esistenza nel ritmo antico come in quello moderno è puramente chimerica, e l’insistere su un nonnulla così imbarazzante come un piede composto da due sillabe brevi, offre, forse, la migliore prova della crassa irrazionalità e soggezione all’autorità che caratterizza la nostra prosodia. Nel frattempo i riconosciuti dattilo e anapesto bastano per sostenere la mia tesi sulla “alternanza”, etc, senza riferimento ai piedi che si presume esistenti solo nei metri greci e latini — poiché si possono incontrare nello stesso verso un anapesto e un dattilo, quando si ha, naturalmente, una successione ininterrotta di quattro sillabe brevi. L’incontro di questi due piedi, certamente, è un caso fortuito non contemplato nella definizione discussa adesso; dato che questa definizione, richiedendo un «regolare alternarsi di sillabe differenti in quantità», insiste su una regolare successione di piedi simili. Ma ecco un esempio

Sīng tŏ mĕ | Isăbēlle. [5]

   Questo è il verso d’apertura di una breve ballata ora qui davanti a me che procede nello stesso ritmo — un ritmo particolarmente bello. Per di più: — i versi inglesi sono spesso ben composti, interamente, con una successione regolare di sillabe tutte della stessa quantità: — il primo verso, per esempio, della seguente quartina di Arthur C. Coxe [6]:

March! march! march!

Making sounds as they tread,

Ho! ho! how they step,

Going down to the dead! [7]

   Il primo verso è formato da tre cesure. La cesura, di cui dirò molto in seguito, è respinta dalle prosodie inglesi, e rozzamente travisata in quelle classiche. È un piede perfetto — il più importante in ogni verso — e consiste in una singola sillaba lunga; ma la lunghezza di questa sillaba varia.

   Si è così evidenziato che non c’è un solo punto della definizione in questione che non comporti un errore, e invano cercheremo qualcosa di più soddisfacente o intelligibile pubblicato nei trattati sull’argomento.

   Un fallimento così generale e totale può essere imputato soltanto a una radicale idea sbagliata. Infatti, i prosodisti inglesi hanno seguito ciecamente i pedanti. Questi ultimi, come les moutons de Panurge, sono stati occupati a cascare incessantemente nei fossi, per l’eccellente motivo che i loro predecessori c’erano a loro volta cascati. L’Iliade, presa come punto di partenza, fu collocata per essere messa al posto della Natura e del senso comune. Su questo poema, invece di fatti e deduzioni da fatti, o da leggi naturali, furono costruiti sistemi di piedi, metri, ritmi, regole, — regole che si contraddicono a vicenda ogni cinque minuti e di cui per quasi tutte si possono trovare tante eccezioni quanti esempi. Se qualcuno desidera essere completamente confuso — per vedere a che punto l’infatuazione verso quella che è definita “dottrina classica” può condurre un topo di biblioteca a fabbricare il buio lontano dalla luce del sole, gli si faccia sfogliare per pochi istanti qualcuna delle prosodie greche scritte dai tedeschi. L’unica cosa chiaramente sostenuta in esse è un disprezzo evidentissimo per il principio di Leibnitz di “ragion sufficiente”.



[1] Francis Bacon (1561-1626), filosofo inglese, autore dell’opera Novum Organum in cui organizza un nuovo metodo di ricerca scientifica. Gli idola teatri (gli idoli del teatro) rappresentano le antiche idee errate, gli “idoli” appunto, sopravvissute come scene “teatrali”, pregiudizi da abbattere. Bacon li suddivide in tre specie: sofistica, empirica e superstiziosa.

[2] Goold Brown (1791-1857) scrisse Institutes of English Grammar nel 1823. (N.d.T.)

[3] «la sola che la Regia Maestà ordina che si debba insegnare in tutte le scuole.» (N.d.T.)

[4] Silio Italico, Punica, XI, vv. 342-346: “T’inganni a crederlo inerme, seduto al banchetto, / in tante guerre e in tanti massacri l’eterna grandezza/ agognata dall’uomo arma il condottiero: se volterai il viso / davanti agli occhi vedrai incombere Canne e la Trebbia / e le tombe del Trasimeno e l’immensa ombra di Paolo.” (N.d.T.)

[5] “Cantami, Isabella.” (N.d.T.)

[6] Arthur Cleveland Coxe (1818-1896) autore di inni sacri. (N.d.T.)

[7] “March! march! march! / facendo rumore mentre marciano, / Ho! ho! Come scendono, / giù verso la morte!” (N.d.T.)



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