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Editoria: decrescita felice e circoli viziosi

Creato il 21 luglio 2011 da Autodafe

di Cristiano Abbadessa

Tiene banco da qualche giorno il dibattito fra editori (e librai) sulla proposta di una “decrescita felice” dei titoli pubblicati; una sorta di moratoria editoriale, con riduzione della produzione, oggi insostenibile, a vantaggio di un’auspicata qualità.
Di prim’acchito, mi appare come la solita querelle tra entità che non appartengono al nostro mondo: editori che viaggiano verso il centinaio di titoli all’anno (come Minimum Fax, dalla quale viene per bocca di Marco Cassini l’idea della decrescita) chiedono a editori che stanno sopra le migliaia di nuovi titoli all’anno di ridurre l’impatto devastante di una sovrapproduzione che stressa il mercato, chiedendo di fatto un po’ di spazio in più per sé. Ma siamo, appunto, in ordini di grandezza che non riguardano certo i piccoli editori, quelli da dieci titoli all’anno come Autodafé; e la querelle serve semmai a perpetuare l’equivoco per cui sono “piccoli” quegli editori che non fanno parte dei “big five”, dei colossi oligopolisti del settore, ma che in realtà piccoli non sono affatto, configurandosi a tutti i livelli come medie imprese di rispettabilissima consistenza (per capitali, fatturato, forza lavoro, investimenti). Anche i piccoli editori (quelli veramente piccoli) contribuiscono per parte loro alla proliferazione di nuove opere pubblicate; ma solo perché sono tanti, e non perché singolarmente producano molto. Quindi, semmai, la discussione porterebbe in questo caso a ventilare non il taglio dei titoli editi ma il taglio delle case editrici; soluzione che a qualcuno fa certo piacere (e che facilita, negando l’accesso ai punti vendita attraverso il controllo della distribuzione), ma che vogliamo credere non sia nello spirito della proposta.
Capita però di sentire, per voce dei librai, che la vera colpa della crescita infinita di titoli sia colpa proprio dei piccoli; non per la loro esistenza, ma per la loro tendenza a pubblicare non solo nuove opere ma anche valanghe di edizioni economiche di autori storici (quelli per i quali non si pagano più i diritti). E qui il problema si complica: perché una produzione di non sole novità e di almeno venti titoli all’anno è la condizione minima posta dal distributore; e non è una condizione posta per vezzo del distributore stesso, ma è la risposta alla politica delle “rese finanziarie” praticata proprio dai librai. E qui il gatto si morde la coda.

Editoria: decrescita felice e circoli viziosi
Provo a chiarire, per chi non conoscesse il meccanismo. Nella distribuzione delle grandi catene, i soldi girano subito: il distributore paga all’editore le copie prese in consegna, il libraio paga al distributore le copie che decide di tenere in vendita. Però c’è il diritto di resa. E quando il libraio rende al distributore le copie invendute, queste gli vanno teoricamente ripagate; e lo stesso deve fare l’editore quando il distributore gli presenta il conto dell’invenduto. Per compensare il rientro di copie invendute, l’editore (e poi il distributore) devono fare in modo che le copie (provvisoriamente) vendute  di nuovi titoli superino sempre le copie rese che tornano indietro.
In questa catena, è evidente che siamo di fronte a interessi che non coincideranno mai e che sono destinati a generare una corsa folle al continuo aumento di titoli e di produzione. Il libraio che ha investito 100 e venduto poco, cercherà di far cassa con le rese restituendo, a breve, tutti i titoli invenduti; ma il distributore, per non pagare materialmente i resi, di fronte a un ritorno di 90 farà sempre in modo di vendere 110, per essere lui a incassare quella differenza che gli permette di sopravvivere; e lo stesso farà l’editore, che più si vedrà sommerso di copie di ritorno, più dovrà venderne di nuove, sempre per fare in modo di avere un minimo flusso di denaro in entrata (e non in uscita).
Questo sistema, davvero perverso, ha portato all’aumento dei titoli pubblicati e anche, per logica conseguenza, alla diminuzione del loro tempo di vita. Perché il libraio, costretto a liberare gli scaffali per le nuove opere e voglioso di tagliare i costi di investimento, tende a restituire subito (persino dopo un mese!) il titolo che “non vende”. Resta perciò spazio solo per i bestseller o per i titoli che hanno un immediato boom di vendite dovuto al lancio mediatico di massa; mentre quelli che lieviterebbero con il lento passaparola dei lettori (e che sono probabilmente quelli che valgono davvero) non hanno tempo a disposizione, e tornano in mano all’editore prima di avere avuto un’opportunità di mercato.
Non si tratta, a mio modo di vedere, di accordarsi per una chimerica e astratta decrescita felice, che non può essere il punto di partenza. Perché tutti gli attori, se operano dentro questo sistema, finiscono per alimentare un circolo vizioso che spinge nella direzione opposta.
E allora? Allora è forse venuto il momento di pensare a forme di distribuzione diverse, a librerie che tornino a svolgere la loro funzione originaria, a una ripartizione dei rischi d’impresa che non si trasformi in uno scaricabarile. La decrescita che si realizza per spontaneo accordo tra i produttori rischia di essere solo una semplificazione del mercato a favore dei più forti. La rigorosa selezione dei titoli da mettere in vendita sarebbe invece uno strumento meritocratico in grado di scoraggiare produzioni gonfiate solo per fare volume, senza differenza tra il capolavoro, il buon libro e la semplice stampa di un qualcosa di impubblicabile.
Ecco perché chiediamo a piccoli librai e distributori sensibili di cambiare il punto di vista. Interrompere il flusso puramente (auto)consumistico per provare a scommettere sulla qualità. Per fare in modo che chi distribuisce o mette in vendita un libro lo faccia con la ragionevole speranza di saperlo e poterlo vendere. Perché la pagnotta torni a essere guadagnata, da tutti gli attori, vendendo davvero i buoni libri ai lettori, e non attraverso la creazione di vorticosi giri finanziari di prodotti e denari che alimentano un circuito senza sbocchi.
Ovviamente, per scommettere sulla qualità è condizione indispensabile tornare a conoscere il prodotto di cui ci si occupa commercialmente. Nel caso, leggere i libri.


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