di Marcello Marinisi
Editoria ed editore, scrivere e precarietà
Quando ci si appresta a muovere i primi passi nel mondo dell'editoria, in generale si avverte un senso di smarrimento, di completo abbandono. Come se, alla fine dei giochi, si trattasse di un io contro il mondo intero.Ci si sente frastornati e più si va avanti e ci si immerge nei meandri di questa selva oscura, più ci si rende conto che è impossibile avere una visione sinottica di questo universo costellato da decine, centinaia, migliaia di realtà diverse.
Diciamocelo, il mestiere di scrivere, in tutte le sue forme e dimensioni, è ostico. Una di quelle attività che bisogna coltivare più come hobby che come vero e proprio lavoro. Ma perché?Perché in un Paese come il nostro, non viene concessa la possibilità concreta di vivere di scrittura?
Non parlo soltanto della narrativa, mi riferisco più ampiamente a tutti quei mestieri che prevedono l'utilizzo della lingua scritta e che, in Italia, vengono relegati ai margini del mondo del lavoro. Dal romanziere al copywriter, dall'autore televisivo al giornalista, dal redattore editoriale al blogger al saggista, e via dicendo. Tutti impieghi che, vuoi per un motivo vuoi per un altro, spingono verso una vita di precarietà frustrante e castrante. Senza prospettive.A parte pochi "eletti", la maggior parte degli appartenenti alle categorie "dello scrivere" sono quasi tutti precari sottopagati che vivacchiano e arrancano per potere assemblare uno stipendio degno di questo nome. Editori, agenzie ecc. spremono le giovani menti fino al midollo e poi abbandonano lungo la strada il povero malcapitato che, ingenuamente, aveva pensato che un giorno avrebbe potuto vivere tranquillamente con il suo mestiere.
Nelle redazioni dei giornali, all'interno delle case editrici, nelle agenzie pubblicitarie e via dicendo (ma sarebbe il caso di estendere il discorso comprendendo molti altri comparti produttivi e dei servizi) vige ormai da molti anni la regola della precarietà. Questa precarietà si estende anche verso gli autori – soprattutto i più giovani – che vengono presi, strizzati e gettati nella pattumiera.
Ormai vivere di scrittura è un'utopia. Alcuni si giustificano dicendo che ci sono troppi aspiranti autori, quindi le case editrici devono necessariamente comportarsi così. Io, francamente, non riesco a capire dove sorga la necessità. Se ci sono tanti aspiranti, allora intensifichi le selezioni, le rendi più rigide, alzi il livello della competizione su un piano stilistico e narrativo più alto, in modo da premiare i migliori. Invece, oggi, si assiste a un paradossale ritorno in auge degli esordienti. Gli editori stanno puntando molto sui giovani autori in erba e questo potrebbe fare pensare a un'inversione di tendenza. Invece, no. Si tratta di un'illusione. Gli esordienti vengono messi sotto contratto per escogitare fantasiose strategie di marketing che possano servire da traino anche agli altri testi in catalogo, in modo da scuotere il mercato con una bella novità. Dopo una stagione, l'esordiente viene bellamente invitato a togliersi dai piedi, eliminato dai piani futuri con buona pace dei suoi progetti di vita.
Accade la stessa cosa nel mondo della musica. Pensate a tutta la progenie di "Amici", "X factor" e a tutta la pletora dei così detti talent show, o ancora ai cantanti che vengono fuori per una stagione estiva e poi si eclissano. Si tratta di operazioni di marketing che mirano a ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Ovvio che un soggetto di questo tipo ha meno pretese, meno forza contrattuale rispetto a un artista più scafato. Quando un editore o un discografico decidono di puntare su un giovane, lo fanno per un tornaconto personale, non perché credono fermamente che quella persona possa dare un apporto fondamentale al mondo dell'editoria con le sue idee, con il suo stile originale.Per questo credo che definire i buoni e i cattivi sia davvero un'operazione difficile e che probabilmente la verità stia nel mezzo. Soltanto che il mezzo non esiste.Ovviamente, il mio è un discorso generalizzato e volutamente provocatorio.
Quello su cui vorrei attirare l'attenzione di tutti voi è il fatto che, purtroppo, il mestiere di scrivere (a qualunque titolo e sotto qualunque forma) è duro. Riuscire a vivere di scrittura, quasi impossibile. Ma questo non vuol dire che non ci si debba provare, questo non significa che si debbano mandare all'aria i propri sogni. Bisogna crederci sempre. Alla fine, quello che conta è fare qualcosa che piaccia a noi stessi e lottare per essa.Per questa ragione io dico non arrendetevi. Se il vostro lavoro vi piace, se sentite dentro di voi che è quello che volete fare e non potrebbe essere altrimenti, non mollate.
Morgan Palmas, in queste stesse pagine, indica provocatoriamente i 100 ottimi motivi per piantarla di scrivere. Ha ragione. Ce ne sono anche molti più di 100 di motivi per piantarla di scrivere e io sono d'accordo con lui quando sostiene che gli autori, o aspiranti tali, dovrebbero in primo luogo nutrire loro stessi di letteratura e coltivare lo studio della lingua a più livelli (grammatica, sintassi, stile ecc.), senza cadere mai nell'arroganza di chi pensa di essere migliore degli altri – dimostrando così oltre che poca nobiltà d'animo, anche poca intelligenza. Scrivere è un mestiere impegnativo, e non perché sia sottopagato o perché sia difficile emergere dalla massa e riuscire a imporre la propria storia, quanto piuttosto perché si tratta di un lavoro che richiede impegno e abnegazione, studio e riflessione costante e una profonda passione per la lettura.Questi sono soltanto i miei due centesimi, spero che aiutino qualcuno a vedere meglio dentro a questo mondo.
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