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Elephant Micah – Louder Than Thou

Creato il 09 luglio 2012 da Carusopascoski

Elephant Micah – Louder Than ThouJoseph O’Connel, sovrano assoluto del pluriennale progetto musicale Elephant Micah, ha deposto lo scettro della bassa fedeltà per questo nuovo capitolo della saga, “Louder Than Thou”, che estende il suo regno musicante fino alle pendici di “On The Beach” di Neil Young, per quella pastosa eleganza compassata e sorniona che rivela più di qualsiasi stridente e scomposta verità cantautoriale.
Questo capitolo ha la classe avvolgente degli episodi più tradizionali di Beck e il dono dell’intimità di un Mark Kozelek (Red House Painters, Sun Kill Moon), come i più hanno fatto notare con insistenza, e con tutte le ragioni del caso.

Autore di culto, sembra dire ai suoi fan il precoce ammonimento “fate di me un idolo e io lo brucerò” che ha reso appena meno indecorosa l’ultima svolta artistica di Giovanni Lindo Ferretti. Perché se i titoli precedenti avevano uno straordinariamente vivido carattere di estemporaneità, qui dallo studio di registrazione ci si è non solo passati, ma ci si è fermati e preso tutto il tempo che serviva per uscire con un disco rotondo, che non smette di girare, compatto e delicato nella sua interezza.

L’iniziale incedere dissonante di “Tin Oil Continent” è l’ideale passaggio di consegne tra le visioni trascorse e i nuovi passi in musica di questo trentenne dell’Indiana che canta con la maturità compassata di un Jason Molina, un brano che accende i motori dell’album con la piacevole lentezza di una ballata qua e là già sentita, qua e là con elettriche immissioni di gangli nervosi più rock. E la voce di O’Connel è già viatico emozionale, stende, unisce e collima in vista della destrutturazione rarefatta di “Won These Wings”, in cui si sfiorano atmosfere da Jandek, o meglio si spingono più in là quelle già crepuscolari e risolutive di “Pink Moon” e in cui un funereo fiato sale a far notte, in una visione d’apnea.
Ma un attimo e siamo all’altro estremo umorale del disco, con “My Cousin King”, da un “loner” che prova nostalgia per tornare a sorridere e non per spegnere l’ennesimo ricordo, attraverso un agreste connubbio chitarra-fisarmonica che fondendosi con la voce calda di O’Connel forma una popular song di gran classe. Poi, arriva Neil Young con la sognante litania di “If I Were A Surfer”, abisso d’amore del disco, con uno stacco insolitamente dolciastro ma così perfettamente al suo posto, in un disco dalla rara apertura spirituale e sincerità autoriale, con una coda finale a la Fairport Convention, sarà per quella voce femminile così folk. “Rooster On The Loose” è il cordone ombelicale più netto con le precedenti prove del progetto Elephant Micah, e resta lì davanti a noi, con il suo carico di note indecifrabili a costellare una notte qualsiasi di note sentimentalmente sinistre, con quei borbottii che sciabordano corde e atmosfere precedentemente illustrate, come a dire che non è in questo gruzzolo di note che si risolve l’enigma del cielo che ci sovrasta. E ci si lascia poi con la classe inarrivabile di “Airline Living”, un pezzo che potrebbe persino esser apprezzato da un fan che mischia Ben Harper a qualcosa di ben più mainstream di quanto lo sia quest’ultimo: è l’incontro con i propri limiti, nella parentesi più magica del disco, ossia l’intermezzo strumentale Floydiano che inizia dal secondo minuto. Perché quando si canta del cielo, della memoria, del bisogno di spiritualità di un’epoca che collassa sul proprio vuoto, si canta la necessità di amare, che O’Connel sublima così, chiudendo il disco: “Bad handwriting in the sands at night / So long / Until I meet you again”.

E con la sincerità più pura d’un abbandono ai propri sentimenti come quello contenuto in questi due versi, sfuma l’ultima perla d’un disco miracoloso e che poteva arrivare solo dall’America dei grandi interpreti delle desolazioni, con in dono il frutto maturo e consapevole d’un cantautore abbastanza rodato da lasciarsi andare senza compromessi a un linguaggio più comprensibile attraverso il quale dimostra di conoscere tanto l’alfabeto sospeso delle emozioni tanto come tradurle in note, e senza far toccare loro terra.


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