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Emilia Paranoica – Cronache da Cavezzo (prima parte).

Creato il 27 giugno 2012 da Loffio

Emilia Paranoica – Cronache da Cavezzo (prima parte).

Mercoledì

Sveglia alle sei e un quarto, annaspo tra lenzuola e sudore. Denti, doccia, caffè e cercare lo zaino tra i raggi del sole che filtrano dagli scuri.

Cosa porti se devi andare per un giorno in campo di rifugiati dal terremoto? Mah, una maglietta in più, perché suderai, ciabatte, che non si sa mai, un paio di mutande in più, lenti di ricambio e iPad, hai visto mai ci fosse da scrivere qualcosa.

Contravvenendo a ogni legge spaziale, dimentico l’asciugamano.

Alle sette sono a caricare le pizze su camion refrigerato. L’idea della missione è molto semplice, si portano 2000 pizze precotte alla tendopoli di Cavezzo, portandosi dietro anche il forno, e si torna indietro in nottata, semplice e indolore, se escludiamo i 40 gradi di media e l’idea di tornare alle quattro di notte.

Arrivati a destinazione cominciamo a vedere tende ovunque, nei giardini pubblici, nei parcheggi, nelle aiuole spartitraffico, nelle rotonde, l’intero paese sembra diventato una sorta di campeggio improvvisato, con tanto di vecchini in mutande che dormono sulla sedia di fronte all’entrata, fornello da campo col sugo che bolle e panni stesi ai tiranti.

Eppure le case sono tutte in piedi, almeno quelle che vediamo. “Ma le fondamenta son tutte sballate, un’altra scossa e vengono giù, poi tu ci torneresti in casa col rischio di ritrovarti sotto un’altra scossa?” mi dirà poi un tizio in coda per la mensa.

Non mi pare il caso di rispondergli “Beh oddio, se non ho salvato la partita…” anche perché dentro ho una paura fottuta all’idea che la terra possa tremare di nuovo. Il terremoto non è come le altre catastrofi naturali, perfino un Tsunami lo puoi prevedere, ma il terremoto è come un gruppo di tifosi nell’autogrill, arriva, fa il cazzo che vuole e se ne va, e tu rimani a contare i danni.

Superato il cancello della protezione civile, siamo stati indirizzati verso quello gestito dai abruzzesi, veniamo accolti da alcuni volontari che cercano di farsi largo col machete del buon senso nella giungla della burocrazia. Il piazzale principale è un deserto battuto dal sole dove ci sono centinaia di tonnellate di materiale da catalogare, spostare e stoccare. Roba a volte deperibile, che al caldo si deteriora peggio di un obeso si in spiaggia, ma che spesso è costretto a frollare nel forno dei container per ore per motivi assurdi.

Vuoi perché non si trova l’attuale responsabile, o manca l’assicurazione per il conducende del muletto, o la roba è già troppa, o chi deve occuparsene sta scaricando altro, molto spesso alla fine la situazione si risolve con quattro disperati stravolti dal sudore che si guardano negli occhi e fanno “va beh dai, la spostiamo noi e vaffanculo”.

Intanto, il giorno in cui siamo arrivati noi, non so quante tonnellate di macinata sono state buttate via perché nessuno poteva spostarla, ed è marcita sotto il sole.

Fortunatamente a noi va un po’ meglio, alla parola “birra” trovano subito un container refrigerato per le pizze e gli otto pancali di birra e un muletto per scaricare il forno. Per pranzo abbiamo finito, e posso mettermi in coda con i rifugiati per un piatto di pasta. Pasta con le salsicce, cotoletta arrosto, insalata, albicocche una bottiglia d’acqua, quando vado a complimentarmi per il servizio, Alessandro, un tipo con la basetta scolpita che assomiglia vagamente a Castellitto mi fa “guarda io ho un solo criterio, cucino, assaggio e poi mi domando: lo mangerei? Se sì, lo servo, che poi di lavoro faccio il fabbro eh?”.

Con tutto il pomeriggio a disposizione, tanto vale fare qualche foto, ma dopo poco un tizio della protezione civile in camicia mi ferma.

“Non si possono fare foto qui, ci sono i bambini”

“Non sto facendo le foto ai bambini, solo in giro”

“Non si può c’è l’ordinanza del prefetto, la privacy, le cavallette”

“Ma perché? Non sto fotografando nessuno, solo le strutture del campo, comunque se serve l’autorizzazione la chiedo”.

“Senti perfavore, non si può, o smetti o dobbiamo portarti fuori”.

Metto il telefono in tasca, solo per tirarlo fuori subito dopo per scattare altre foto facendo finta di telefonare, benvenuta nel 2012 ordinanza del prefetto.

Che poi non capisco veramente che male ci sia, pur con mille problemi di organizzazione, di invidie tra i vari campi e i vari comuni, che fanno a gara a chi ha più roba e si litigano le risorse, pur col caldo e la polvere che sta facendo venire la congiuntivite a tutti quelli che rimangono più di una settimana, pur con le tensioni etniche che stanno salendo sempre di più in vista del ramadan, le strutture sono buone, i bagni puliti, le tende in ordine, si mangia bene e c’è perfino uno spazio per far giocare i bambini, che sembra essere quelli ad aver risentito meno del problema.

L’atmosfera del campo, tutto sommato è meno peggio del previsto, probabilmente perché all’interno la gente è poca, chi ha una tenda o un camper preferisce dormire vicino casa, per evitare gli sciacalli (Un carabiniere la sera mi confiderà che hanno arrestato persino gente che rubava ai morti, due giorni prima), e al campo mangiarci soltanto. Dentro ci sono solo anziani, qualche famiglia con bambini e extracomunitari.

I ragazzi dai 16 ai 30 anni sembrano scomparsi, volatilizzati, chi può è andato al mare, o da amici, o è rimasto nel suo alloggio universitario. Altro che universitari con la borsa a tracolla, fashon blogger e barbe ironiche, se vi stanno sul cazzo gli hipster un campo di rifugiati è il posto perfetto per voi, qua la geste veste a cazzo di cane solo perché in un giorno s’è ritrovata a possedere solo ciò che ha arraffato scappando.

La maggior parte della popolazione del campo è composta da volontari, che si dividono nelle classiche categorie che nascono quando c’è da fare qualcosa:

Ci son quelli che si fanno il culo come una capanna, pulendo i bagni, tirando cavi, preparando generatori e spostando materiale tutto il giorno e alle dieci russano in branda.

Ci sono quelli che lavorare sì, ma se passa una birretta fredda datemela anche a me.

R quelli che stanno tutto il pomeriggio seduti a far lavorare gli altri dicendo “ah come riempie il cuore fare volontariato”.

Poi vabeh ci sono anche personaggi del tipo “sì ma facciamo veloce con ste scartoffie, con voglio andare al mare” e i NAS che vengono a controllare, assaggiando, che la roba sia buona, bloccandoti la preparazione della cena, gente che pure l’esercito di Mordor si schiferebbe ad avere nei propri ranghi.

Alla fine, tra un coro alpino e quattro bestemmie per collegare il forno alla rete elettrica, siamo pronti per la serata, un gruppo sta all’aperto col forno e un gruppo cuoce le pizze all’interno di un camion cucina dove suderebbe il diavolo, vi lascio intuire dove sono finito io, ma ve lo racconto la prossima volta.

Fine prima parte.

Argomenti trattati cavezzo, emilia, pizza, terremoto
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