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Enheduanna e Lilith

Creato il 04 dicembre 2011 da Vivianascarinci

Enheduanna e Lilith

[apparso sul numero 2 della rivista Filosofi per caso]


Chi scrisse per primo? Potrebbe sorprendere che fosse una donna, una donna sumera, il suo nome era Enheduanna, sacerdotessa e figlia del re Sargon di Akkad e visse circa tra il 2285 e il 2250 a.C. Stando alle iscrizioni poste dietro ad un antico disco di alabastro, Enheduanna è il più lontano autore noto al mondo, le cui opere sono state scritte in caratteri cuneiformi circa 4300 anni fa. Era sacerdotessa di Inanna, la dea della luna, ed è proprio alla dea di cui praticava il sacerdozio che Enheduanna dedicò la sua poesia. Al di là delle numerose leggende sorte intorno a questa figura, leggende che vedono la sacerdotessa in tale profondo rapporto con la sua divinità, da ottenere da questa qualsiasi cosa chiedesse per il suo popolo, i versi di Enheduanna, spiccano per una caratteristica allora sconosciuta, l’utilizzo della parola”io”, della prima persona, per giunta femminile, che spiega attraverso la poesia, la difficoltà e anche la pena delle pratiche legate alla professione del culto di Inanna. Il risultato fu che il suo testo venne ritenuto sacro al punto che 500 anni dopo fu usato come esempio per l’insegnamento dell’arte dello scriba. Enheduanna e Lilith, queste, due tra le figure femminili più antiche che si ricordino, sono al centro della maggiore parte della poetica della poesia araba femminile contemporanea. Scrive Amal al-Juburi riferendosi a Enheduanna

Lei era il gioiello di Sargon,
ora è sacerdotessa della frammentazione.
Urlate e non dimenticate,
monumenti maledetti,
che il cuore di Enheduanna
era più grande della
scrittura di questi tiranni

(Amal al-Juburi poetessa irachena nata nel 1967)

ma se nel caso della celebrazione di Enheduanna, per una poetessa contemporanea, si tratta dell’esaltazione di un “metodo” di promozione dell’io creativo che lega la scrittrice a un processo di emancipazione femminile della donna islamica del tutto attuale, nel caso di Lilith, l’attenzione dal metodo di emancipazione si sposta sull’alto valore archetipico cui, Lilith, la prima sposa ripudiata da Adamo, finisce per suggerire in buona parte degli scritti a essa dedicati. Da non dimenticare poi che sia Inanna, che Lilith si legano entrambe simbolicamente alla luna, che con i suoi cicli rappresenta il lato femminile del creato. La prima ne è la dea, cioè la componente femminile visibile, cui la donna islamica, secondo la poesia che se ne fa portavoce, assurge a modello dal punto di vista dell’emancipazione pratica, la seconda, Lilith, la luna nera è la faccia di un’intimità esistente e celata che la femminilità araba esalta attraverso molte voci contemporanee ma soprattutto tramite la sua poetessa più significativa, Joumana Haddad

Sono Lilith, la tenebra femminile, non la tenebra luce. Nessuna interpretazione mi definisce, non mi piego ad alcun significato. La mitologia mi ha accusato di malvagità, le donne mi hanno trattata da uomo; non sono la donna virile né la donna bambola. Sono il compimento della femminilità mancante. Non dichiaro guerra agli uomini, né rubo i feti dagli uteri delle donne, perché sono il demone ricercato, scettro della coscienza, sigillo dell’amore e della libertà

(Joumana Haddad poetessa libanese nata nel 1970)

E’ sempre Joumana Haddad a dare con la poesia, attraverso il suo ultimo libro, Ho ucciso Shahrazad, la misura di un fraintendimento tutto occidentale riguardo la consapevolezza reale della donna araba, nonostante ancora in molti paesi del mondo islamico essa subisca una coercizione volta a celare se non a mortificare molteplici aspetti della sua femminilità. Sottotitolando il libro “Confessioni di una donna araba arrabbiata” la Haddad attacca le credenze e le leggende fomentate da una non conoscenza reale del mondo arabo, così vario e plurale, in riferimento alle donne, rivelando agli “stranieri” l’autonomia, il giudizio, l’intelligenza, l’indipendenza di molte donne arabe di cui non si parla. Ma l’impegno delle donne arabe riguardo l’emancipazione della propria condizione non viene esercitato solo attraverso la poesia, come per esempio nel libro pubblicato da Rita El Khayat, intellettuale marocchina, candidata al Nobel per la pace nel 2008, che come accade sovente tra le donne colte dell’islam, si è occupata con impegno e profondità tanto di letteratura quanto di politica. Rita El Khayat è stata la prima donna del mondo arabo a scrivere nel 1999 a un sovrano, Re Mohamammed VI, Epistola di una donna a un giovane monarca . Documento che in meno di due mesi è stato tradotto in undici lingue.Il suo libro, Cittadine del mediterraneo è una puntuale attestazione d’amore per tutto ciò che da secoli concerne la donna marocchina, nelle abitudini, nelle tradizioni, negli obblighi, nelle circostanze effettive del quotidiano, attraverso la spiegazione di parole, oggetti, cerimonie, usanze che sono descritti fin dal nome con occhio amorevole. La scrittura di questo libro è propensa in ogni passaggio a una bellezza che rende a chi legge il servizio di rigenerare e restituire alla contemporaneità una tradizione mondata di quegli aspetti che la rendono troppo pesantemente contenitiva per i nuovi nati in quel contesto

In questi ultimi anni si è affermato che la condizione femminile è in genere difficile. Io ho voluto rettificare questa posizione. Essere donna può essere piacevole: le donne sono belle, ridono e scherzano. Raccontano e si raccontano, cantano e danzano. Si vestono di colori sgargianti e di molteplici riflessi cangianti. Amano i gioielli e sanno indossarli, la loro ricerca del piacere è già di per sé una forma di bellezza.

(Rita El Khayat scrittrice marocchina, nata nel 1944)

Rita El Khayat, infatti è semplicemente una donna che in queste pagine descrive alla figlia ciò che ama che è anche la condizione germinale della sua esistenza in vita in quanto figlia e nipote di donne marocchine. Per questo la sua scrittura assume una bellezza che va oltre l’aspetto sociologico dell’analisi dettagliata della cultura marocchina e a buon diritto prende il titolo di Cittadine del mediterraneo, indicando a chi legge al di là del Marocco, come sia possibile una cittadinanza restituita ai confini effettivi di se stessa, in qualsiasi ambito geografico culturale si trovi a mediare. Questo epocale lavoro di restituzione alla propria cultura che le intellettuali arabe stanno compiendo, assume un valore che supera l’ambito strettamente legato al loro territorio per via dell’impegno trasversale che quella poetica femminile evidenzia nel rivolgersi alla sua origine per esaltare nel presente la politica di un’emancipazione che può essere considerata esemplare, non solo dal punto di vista della condizione femminile e non solo dalle popolazioni arabe. Riflettendo infatti sull’apparente estraneità di una cultura, può accadere che essa coincida con il disagio, con lo straniamento anche inconscio che una diversità apparente finisce per suscitare. Ma se si pensa allo straniamento come termine con cui si indicano alcuni aspetti emotivi suscitati da “forme” altre, non si può far a meno di pensarlo un movimento interiore anche capace di portare al di fuori di se stesso chi guarda a quelle forme estranee. Ciò magari con il risultato auspicabile che istanze universali come quella dell’emancipazione e del rispetto tra popoli, possano essere assunte nel proprio contesto culturale, in un punto di vista sulle cose presenti e attuali, sensibilmente più ampio e inclusivo.


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