Magazine Politica

Enrico Berlinguer

Creato il 11 marzo 2014 da Lundici @lundici_it
Luigi Berlinguer e Aldo Moro

Si sa, è così, quando nel presente prevale la sfiducia e la mancanza di una figura sincera e leale la situazione si fa drammatica, è più facile che si rivolga lo sguardo al passato.

Enrico Berlinguer lo citano in tanti, i “suoi” (per modo di dire), e gli “altri” (per modo di dire).

Per chi scrive, così come per molti, sono i racconti degli altri e i libri (non quelli scolastici) a fare la “nostra” storia.

Nacque a Sassari nel 1922. Giovanissimo respira, anche in famiglia, l’aria dell’antifascismo democratico e liberale. La sua carriera

download
politica nel PCI comincia nel gennaio del 1948, quando a ventisei anni entra nella direzione del partito e meno di un anno dopo diventa segretario generale della Federazione giovanile comunista. Definito dagli amici timido e introverso oltre che un uomo instancabile, lontano dalla mondanità e dai clamori della politica.

Nel 1972 diviene segretario del PCI e al XII congresso riprende la formula togliattiana della collaborazione fra le grandi forze popolari: comunista, socialista e cattolica. Con tre articoli su «Rinascita», fra il settembre e l’ottobre del 1973, Berlinguer propose la sua analisi della società moderna partendo dal colpo di Stato in Cile, che aveva mostrato a cosa può andare incontro una democrazia fragile.

Il 12 ottobre del 1973 scrive: «la gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano».

Sintetizzando molto il suo pensiero: era fermamente convinto che l’obiettivo di una forza rivoluzionaria consistesse nel trasformare concretamente una determinata situazione storica. La trasformazione per via democratica doveva prevedere in ogni sua fase due aspetti: la forza e il consenso. La forza doveva esprimersi nell’incessante vigilanza e nella combattività delle masse lavoratrici per evitare attacchi alla libertà, ai diritti democratici e alla legalità costituzionale. Il consenso era l’altro elemento necessario che doveva fondersi con la forza; la trasformazione della società sarebbe stata possibile solo se a volerla fosse stata la maggior parte della popolazione.

Il problema delle alleanze è il problema decisivo di ogni politica rivoluzionaria. In Italia lo sviluppo del capitalismo aveva dato luogo alla formazione di un proletariato consistente, esperto di lotte e che con l’influenza del Partito si era reso maturo e combattivo. Questa forza, seppur fondamentale per il processo di trasformazione, rimaneva tuttavia la minoranza della popolazione del nostro Paese.

Osservatore acuto della realtà, visualizzava nella classe sociale che si poneva tra il proletariato e la grande borghesia, il punto focale a cui rivolgere l’attenzione. Il cosiddetto ceto medio genericamente individuato ma che si componeva di una serie di categorie e strati intermedi di cui occorreva individuare e definire concretamente la precisa funzione sociale, economica e politica.

La strategia delle riforme poteva dunque affermarsi e avanzare solo se sorretta da una strategia delle alleanze. Tali motivazioni spingevano il movimento a convergere anche verso quelle forze sociali non ancora classificabili come ceto, come ad esempio: le donne, i giovani, le masse del Mezzogiorno, le forze della cultura, movimenti di opinione; ponendosi obiettivi non solo economici e sociali, ma di sviluppo civile e di affermazione della dignità della persona, di espansione di ogni libertà individuale. Ne conseguiva la necessità di un sistema di rapporti politici che favorisse la convergenza e la collaborazione tra tutte le forze democratiche e popolari fino alla creazione di vere e proprie alleanze. Senza coesione tra forze, sarebbe stato in ballo la sopravvivenza dello Stato democratico.

Proponeva un’«alternativa democratica» che fosse stata espressione delle forze popolari d’ispirazione comunista,

pertini-berlinguer
socialista e cattolica, consapevole che gli attriti sociali e politici non avrebbero fatto altro che peggiorare la situazione del Paese. Esortava alla comune responsabilità, alla comprensione, al fine di cambiare il Paese.

A partire dal 1973, dopo il fallimento del primo governo Andreotti di centro-destra, Aldo Moro scelse il segretario del Pci come interlocutore privilegiato per realizzare il suo disegno di solidarietà nazionale.

Un processo graduale avrebbe dovuto dar vita ad una terza fase, in cui il Pci avrebbe dovuto assumere direttamente un ruolo di governo, magari iniziando dall’attribuzione di ministeri non strategici sul piano della sicurezza nazionale.

Nel 1976, accanto alla proposta del compromesso storico, Berlinguer chiarisce l’altro tema della sua politica di dirigente comunista. A Mosca, davanti a cinque mila delegati, parla del valore della democrazia e del pluralismo, sottolinea l’autonomia del PCI dall’URSS e condanna l’interferenza dei sovietici nelle questioni dei partiti socialisti e comunisti degli altri paesi.

Il progetto di Moro s’interruppe con il suo rapimento, il 16 marzo 1978, e la successiva uccisione il 9 maggio 1978.

In diversi comunicati dei brigatisti, il nome del segretario del Pci e della sua politica collaborazionista ricorsero più volte, e Berlinguer ebbe l’indubbio merito di rinunciare a lucrare per avere un facile consenso, abbracciando la propaganda delle stragi di Stato.

È stato un educatore per la generazione cresciuta tra il ’68 e il ’77, insegnando che l’unica democrazia possibile era quella che c’era, seppur fragile, e che andava difesa con responsabilità da dentro le istituzioni.

Finita la tempesta dei movimenti, i cortei, le occupazioni, venuto meno quel misto di rabbia e amore, la maggioranza dei giovani era smarrita e incerta. A quella generazione Berlinguer disse «Entrate e cambiateci».

Dopo la vicenda Moro, con un accordo che Fanfani aveva preso già nei giorni del rapimento, la Dc scelse il suo nuovo interlocutore, Bettino Craxi e il Partito Socialista. Accordo che avrebbe di fatto escluso il Pci e il suo segretario. Sottolineando la sua diversità, il Partito Comunista tornò all’opposizione.

In una famosa intervista a cura di Eugenio Scalfari del 28 luglio 1981, dichiarò  che «i partiti non fanno più politica…i partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia». I partiti erano diventati delle macchine di potere e clientela, con una scarsa conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente. Gestori di interessi diversi, particolari, a volte in contraddizione, senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani. Sottolineava che non erano più organizzatori del popolo, promotori di una crescita civile ma occupavano lo Stato, le banche, gli enti pubblici e culturali, concentrati a mantenere privilegi e a scoraggiare la partecipazione di ogni cittadino alla cosa pubblica.

Dura fu la lotta politica fra Craxi e Berlinguer, fu netta la divisione tra chi si identificava con l’uno e con l’altro, il primo espressione di una volontà di cambiare il Paese con disinvoltura, in maniera a volte spietata e arrogante, e l’altro restio ad un cambiamento che giudicava come annullamento di conquiste fatte grazie al suo partito.

La distanza tra questi due mondi, fu evidente al Congresso del Psi l’11 maggio del 1984. Berlinguer fu fischiato, insultato, mentre venivano mostrati garofani rossi e segni delle corna. Craxi, tre giorni dopo, disse «… io non mi posso unire a questi fischi solo perché non so fischiare.»

Il 7 giugno 1984 durante un comizio, mentre si apprestava a pronunciare la frase “Compagni, lavorate tutti, casa per casa, strada per strada, azienda per azienda” venne colpito da un  ictus. In diretta televisiva palesemente provato dal malore, continuò il discorso fino alla fine, nonostante la folla urlasse: “Basta Enrico!”. Morì l’11 giugno, a causa di un’emorragia cerebrale.

Il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, si impose per trasportare la salma sull’aereo presidenziale, citando la frase: “Lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta“. Al funerale, il 13 giugno, partecipò una folla immensa.

unita-addio
TUTTI è il titolo rosso che l’Unità dedicò ai funerali in piazza San Giovanni.

Oggi è più facile, dopo aver vissuto certi capitoli più o meno amari della nostra storia, capire che troppe occasioni sono state mancate, sprecate, troppe per non pagarne le conseguenze.

Dopo la sua morte, venne Tangentopoli, il lancio delle monetine, l’esilio ad Hammamet, i conflitti d’interesse e il berlusconismo. Quello che è accaduto è noto, magari lo interpretiamo in modo diverso, ma certamente l’indebolimento del PCI (a volte volutamente discriminato dalle forze di governo, come Berlinguer sottolineò nella già citata intervista del 28 luglio 1981 di Eugenio Scalari) ha contribuito alla lunga assenza di una opposizione attiva e intelligente.

Il ruolo dell’opposizione di governo annebbiato da intese “segrete”, larghe e di convenienza ha favorito l’ascesa di una forma di potere basata sui mezzi e non sui contenuti. Nulla a che vedere con  la luce di un uomo educato, vero, sincero anche nei suoi errori.


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :