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Era il tempo della corsa all'oro

Da Johnbrunosaid
ERA IL TEMPO DELLA CORSA ALL'OROEra il tempo della corsa all’oro.
Avevo costruito la mia piccola casa lungo la riva del fiume,
quella sinistra,
dove gli orsi, nel periodo estivo, affamati,
cercavano di afferrare i pesci
guizzanti e boccheggianti.
Mi divertivo ad osservarli.
senza paura,
e così loro.
La mattina sorseggiavo il mio caffè,
con lo sguardo rivolto
verso la montagna, dove la neve sembrava mai morire.
Il cielo, grigio, non offriva altri spunti di riflessione
a differenza delle acque del fiume,
azzurre o verdi, e che desideravo gialle.
Non ero solo,
avevo un felino come guardia,
leggente storie di topi,
umanizzati,
che lo facevano sentire colpevole
dei suoi istinti.
Iniziò ad abbaiare,
così come io a parlare inglese,
ma nessuno dei due veniva capito.
Desideravo il brillare,
la polvere,
tanto da inalarla, diluirla e sorseggiarla.
Sognavo che qualcuno mi offrisse,
nel più bel ristorante della nazione,
un pasto luccicante,
e di poter inzuppare il pane
in una salsa dorata,
che mi sporcasse la barba
senza sentire il bisogno di pulirmela.
Utilizzavo un monocolo,
per elaborare visioni diverse
e cercare senza sosta,
per ore e ore, giorni e giorni,
non badando al sole,
giallo pure lui,
come le vene e le arterie,
dell’apparato circolatorio
delle rocce,
vive a tal punto,
da dialogare con le suole dei miei scarponi,
bucati.
La sera difendevo il territorio
rubato ai legittimi proprietari,
modificando le pergamene
degli antichi esploratori
del tardo ‘500.
La mia dinastia,
con spiccata fantasia,
era composta da ominidi cornuti
forniti di lame
che tagliavano i fili d’erba.
E la notte mi svegliavo di soprassalto
con la paura che un mio avo
venisse a trovarmi.
Ma non ero ricco,
neppure così bello,
non evocavo invidia,
e non schiacciavo le noci con le mani.
Se fossi stato il figlio adottivo
di Gordio e Cilene,
forse,
ma la Frigia era lontana.
La statica degli ammassi rocciosi,
con cui mi confrontavo quotidianamente,
non mi dava pace.
Toglievo inutilmente volume
per creare spazi,
subito occupati,
e grattavo come una talpa,
cieca e impaurita
dalla luce e dai predatori
che non attendevano altro
di vedermi stremato.
Cauterizzavo le ferite
leggendo ogni giorno tre righe
del libro nella cassetta
del pronto soccorso.
Le pagine erano consunte
per l’uso smodato
che ne avevo fatto,
ed alcune righe cancellate,
indebolivano la mia presunzione
di immortalità.
Utilizzavo, con sempre maggior frequenza,
la serratura di casa,
preparavo i bagagli,
cucinavo per l’ultima volta.
Ma, la mattina seguente,
mi svegliavo sempre nello stesso letto,
in una casa aperta,
con la valigia vuota a terra,
e la pentola nel lavello
ancora da lavare.
Gli anni erano trascorsi,
senza che me ne accorgessi
perché nessuno mi regalava calendari.
Confondevo le stagioni
pur riconoscendole.
Spiavo il mio riflesso,
dimentico.
Cambiare,
come aveva fatto il felino,
custode?
Epilogo:
Le domande non si pongono
negli scritti.
Al contrario si elaborano,
si stravolgono
le connotazioni mentali
dei lettori
che si chiedono
cosa stiano leggendo
mentre si confrontano
con la palpabile realtà del reale,
falsa,
che non produce altro che estinzione.
Era, comunque, il tempo della corsa all’oro.
Pf, suona Brett,
l’ultimo coguaro è stato qui.

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