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Erano meglio gli androidi

Creato il 11 giugno 2011 da Aronne

Erano meglio gli androidi
Perché oggi viviamo come in uno stato di perenne attesa? In un limbo fatto di scadenze di breve periodo e di progetti rimandati? Nell’attesa e nella speranza che il domani ci dia una maggiore stabilità. Che l’orizzonte sia più nitido, la rotta più certa?
Diverse sono le ragioni di questo stato di cose. Grave stato di cose.
La prima di carattere economico. Se guardiamo all’Italia in particolare, l’ingresso nell’Euro ha portato con sé, come effetto collaterale, la necessità di far marciare la locomotiva Italia alla stregua della Germania. E si sa che le ferrovie Italiane non sono per niente efficienti come quelle teutoniche.
Pertanto chiunque, a tutti i livelli, ha potuto sperimentare una enorme difficoltà nel mantenere le proprie posizioni: status e/o salari. E’ indubbio che, anche se spesso tanti lo colgono solo animalescamente, da circa dieci anni ciascuno di noi è costretto a correre molto di più. I ritmi sono diventati sempre più frenetici e il potere d’acquisto, anche per quei fortunati che hanno visto resistere il livello delle proprie retribuzioni, è calato.
In altre parole lavoriamo di più (“bisogna aumentare la produttività”) ma guadagniamo meno (“crollo poter d’acquisto”). Come se ciò non bastasse, mentre negli USA ad esempio esiste una certa cultura del debito, e dell’indebitarsi, qui da noi questa tendenza è frenata da un’inerzia culturale che storicamente ha afflitto un paese, il nostro, troppo stretto tra Est e Ovest. Così, frenando i consumi, si frena anche la crescita. Il governo ultraliberista di Tremonti ha fatto il resto. Rigidità e controllo del debito per sbattere definitivamente (diminuzione Investimenti pubblici) la porta in faccia all’aumento del PIL.
La seconda ragione è di ordine sociale. Più grave. Quando larghi strati della popolazione, in particolare quelli più giovani, quelli che con il proprio entusiasmo e la propria energia, tipica della loro età, sono costretti a rinunciare a progettare la propria vita, il sistema paese vede cambiare completamente il suo DNA. Incontrovertibilmente.
Attenzione, per progettualità si intende quella capacità dell’uomo di prefiggersi obiettivi di lungo termine, ambiziosi e importanti. Obiettivi che richiedono forza, coraggio, intelligenza, intraprendenza. Che impongono la messa in gioco di tutto sé stessi cercando di violare le leggi di natura, le leggi della fisica e quelle dell’economia se necessario.
Grandi uomini devono ambire a fare grandi cose. A cambiare il mondo. Di piegare il futuro al proprio volere. Di rendere comune a tanti il proprio destino.
Ed invece da tempo il declino (altro che decrescita felice) è prima di tutto un declino sociale. Si è smarrita la tempra di molti che un tempo erano capaci di giocare ai dadi il destino di tanti. Che erano capaci di andare contro la natura, spericolati surfisti sull’onda dell’imprevisto. Si è smarrito quella luce che illuminava gli occhi di chi correva per il proprio pezzo di terra nel West. La luce degli occhi lunghi, acuti dei grandi navigatori. L’idea della ricerca di un mondo nuovo, di terre incontaminate e misteriose. Il fascino dell’esotico, di ciò che è sperduto, dell’ignoto. L’avventura. E’ scomparso dal vocabolario del cuore dove una volta albergava il coraggio.
La donna, in tutto questo, è la sconfitta più grande. E’ rimasta senza eroi e senza principi. Senza uomini che un tempo, con il loro destriero, correvano a salvarla. Fin su la torre in cui era rinchiusa. Sfidando qualsiasi ostacolo, rischio o pericolo. Le foreste di natura come i gineprai della malvagità umana.
Alla donna non è rimasto altro che consumare. Consumare quei beni che hanno permesso di rivitalizzare per qualche decennio un capitalismo avvizzito, che veniva da mezzo secolo di machismo.
Obbligata, oggi, nell’Occidente super sviluppato a consumare più di quello che produce, e nel Terzo Mondo a non riprodursi affatto perché il Terzo Mondo, che non consuma beni futili, non ha diritto di consumare l’energia che serve all’elite dei paesi industrializzati.
Da una giogo all’altro. Prima, la donna occidentale doveva produrre prole per rinforzare stati ed eserciti, perché più individui in una nazione, significavano più consumo, più forza e più Impero. Poi via, via, una cultura consumista ha finito con il far affievolire la voglia di maternità. Del resto, la maternità, il concepimento, la nascita e tutto ciò che segue, (un impegno a tempo indeterminato), non sono semplicemente piccole crepe nel bozzolo promesso ed ardentemente desiderato, ma creano una falla grande e impossibile da richiudere: una falla in cui il tanto deprecato imprevisto, incidente, destino può irrompere nella fortezza faticosamente costruita e attrezzata senza risparmio al fine di tenerli fuori (cfr. - BAUMAN - "Vite che non possiamo permetterci").
Viviamo in un’epoca che ha santificato la difettosità, quando intesa come strumento di marketing di prodotto, capace di far accrescere senza limiti gli indici di rotazione di magazzino: il ROS, il ROE. Ma che con altrettanta esasperata intransigenza si erge a bandirla se la stessa difettosità alberga nell’uomo.

Viviamo senza porci neanche l’idea della rinuncia o della posticipazione di un piacere o di un desiderio. Aggressivi ma statici, preferiamo atmosfere asettiche. Che non profumino di bio, ma che verosimilmente ricordino qualcosa che soddisfi il nostro status. Sempre più artificiali e digitali sembriamo a noi stessi dei robot. Dimenticando che solo qualche decennio fa, quando andavano molto di moda film, telefilm e cartoni animati che avevano per protagonisti “androidi”, di essi ci piaceva quando tradivano una certa umanità. Quando scattava qualcosa dentro quei circuiti, forse proprio per lo stare a contatto con l’umanità, che gli faceva compiere dei gesti che solo un uomo vero sarebbe stato in grado di fare.



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