Magazine Diario personale

Erik orsenna

Da Silvy56
ERIK ORSENNA
L’ospedale? Un ospedale per le parole? Non riuscivo a crederci. D’un tratto, mi vergognai. Qualcosa mi diceva che eravamo noi umani i responsabili delle loro sofferenze. Sapete, un po’ come quegli indiani d’America morti per le malattie portate dai conquistatori europei. Non ci sono né astanteria né infermieri in un ospedale di parole. I corridoi erano deserti. Ci guidavano soltanto le luci azzurrine delle lampade notturne. Nonostante le cautele, le nostre suole zigavano sul pavimento. Quasi in risposta, si udì un rumore debolissimo. Due volte. Un gemito soffocato. Passava da sotto una porta, come una lettera fatta scivolare con discrezione, per non disturbare. Il signor Enrico mi lanciò una rapida occhiata e decise di entrare. Era lì, immobile sul letto, la frasetta ben nota, fin troppo nota: Ti amo Due paroline magre e pallide, pallidissime. Le cinque lettere risaltavano a malapena sul candore delle lenzuola. Due parole collegate ciascuna da un tubo di plastica a un flacone pieno di liquido. Ebbi l’impressione che la frasetta ci sorridesse. Mi parve che ci parlasse: “Sono un po’ stanca. A quanto pare ho lavorato troppo. Devo riposare”. “Su, su, Ti amo” rispose il signor Enrico. “Ti conosco. Da quando sei nata. Sei forte. Qualche giorno di riposo e sarai di nuovo in piedi”. (…) “Povera Ti amo. Riusciranno a salvarla?” Il signor Enrico era sconvolto quanto me. Avevo le lacrime in gola. Non riuscivano a salire fino agli occhi. Noi ci portiamo dentro lacrime pesantissime. E, queste, non potremo mai piangerle. … Ti amo. Tutti dicono e ripetono ‘ti amo’. Ricordi il mercato? Bisogna trattare con cura le parole. Non ripeterle a ogni piè sospinto. Né usarle a casaccio, l’una per l’altra, raccontando bugie. Altrimenti si logorano. E, a volte, è troppo tardi per salvarle. Erik Orsenna

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