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Esclusivo – Il saggio di Reyhaneh Jabbari scritto a sua stessa difesa. La vera storia, l’accorata supplica, la poesia. Parte 1/10

Creato il 08 novembre 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
10390006_10205036930861962_1270790694241658229_nPremessa: L’ICAE (Comitato Internazionale contro le esecuzioni capitali) ha pubblicato online l’intero saggio, in dieci parti, scritto da Reyhaneh Jabbari a sua difesa, durante la lunga prigionia nel carcere iraniano che sarebbe stato anche la sua ultima casa prima dell’esecuzione avvenuta lo scorso 25 ottobre.
 
Raramente mi è capitato di leggere qualcosa di così “terribile” e poetico ad un tempo! Di una bellezza estetica sostanziale sotto livelli multipli. Ma non è questo il motivo per cui ho deciso di tradurlo in italiano per intero. Di fatto lo tradurrò perché in tutti i suoi scritti, Reyhaneh continua a ripetere di voler fare conoscere la sua storia… questo è un modo come un altro per darle una mano a raggiungere quel suo traguardo.
 
Rina Brundu, in Dublino, 08/11/2014

di Reyhaneh Jabbari

 

Parte 1/10

Io, Reyhaneh Jabbari, ho 26 anni. Con la corda che pende davanti agli occhi, ma che non mi incute paura, scrivo per raccontare la storia di cui sono stata protagonista; non lascerò niente di non detto. Voglio raccontarvi tutto ciò che ho ribadito in tribunale e che non hanno capito. E voglio raccontarvi il mio pianto sotto tortura che non è stato ascoltato. Tutto ciò che ho urlato mentre venivo brutalmente presa a calci da quattro inquisitori che si credevano onnipotenti. Chissà che qualcuno in questo mondo non possa sentire le mie urla e il mio dolore. Voglio che le persone sappiano e giudichino come meglio ritengono. Voglio che mi ascoltino e se poi lo desiderano potranno stringere ancor più forte la corda intorno al mio collo. Voglio che sappiano cosa mi è successo all’età di 19 anni e mi ha portato a non temere più la morte. Voglio raccontarglielo affinché sappiano in che modo la mia voce è stata soffocata in gola. In che modo le tristi trame che mi hanno portato ad essere conosciuta come un’assassina sono state ordite con il complotto e con l’imbroglio. Per ottenere un verdetto che considero ingiusto.

Io, Reyhaneh, ho 26 anni e vivo in un prigione-tomba in Shahre-Ray, in attesa della mia ultima ora. Tanto tempo fa, in un giorno di primavera del 2007 vivevo libera dal dolore e dalla sofferenza in una casa costruita con l’amore e la compassione che ancora la riempiono.

Io, Reyhaneh, la figlia più grande, ero una studentessa universitaria diciannovenne, al terzo semestre, e studiavo informatica. Da circa un anno ero anche impiegata come decoratrice d’interni part-time. Il mio stipendio mensile era di 150,000,000 Rials. Lavoravo in ufficio ogni giorno dalla mattina alla sera, tranne i giorni in cui andavo all’università per gli esami. Mio padre e mia madre mi aiutavano e mi davano ancora la mia paga, non ho mai avuto problemi economici.

Un giorno di primavera, mi trovavo in una gelataria. Parlavo al telefono con un cliente per il quale avevo preparato lo stand in una esposizione internazionale. Finita la telefonata, un uomo di mezz’età, colà seduto insieme ad un amico, mi si è avvicinato. Aveva l’aspetto dell’uomo ordinario che si può incontrare per strada; in un taxi; che può fare la fila con noi, o che si può incontrare in un parco o in un ristorante. Uno di quegli uomini a cui chiederesti aiuto se un ragazzo ti mancasse di rispetto in pubblico.

Disse: “Senza volere ho ascoltato la tua conversazione telefonica e ho capito che sei una decoratrice d’interni”. “Sì, è così!” risposi. “Ho un locale che vorrei trasformare in uno studio medico, sono un chirurgo plastico” aggiunse allora lui. Fremevo di gioia dentro.

Io, Reyhaneh Jabbari, avevo diciannove anni allora e la testa piena di idee, un cuore che bramava il successo. Ero cresciuta in una famiglia creativa e di talento. Sebbene fossi una studentessa di informatica, ero a mio agio con il tipo di lavoro che deve svolgere un designer. Ero inoltre capace di creare i bozzetti con il software disponibile a quei tempi.

Gli ho dato il mio biglietto da visita con l’indirizzo della ditta il mio nome e numero di telefono. Io, Reyhaneh, ho fatto la conoscenza del Dottor Sarbandi e del suo amico, il signor Sheikhi, quel giorno. Sono uscita dalla gelateria e ho atteso un taxi sul ciglio della strada. Subito, una macchina si fermò per offrirmi un passaggio. Si trattava del Dottor Sarbandi e del suo amico. Ho rifiutatato ringrazandoli ma hanno insistito dicendo che si sarebbe potuto parlare di affari durante il viaggio. Ho obbedito.

Io, Reyhaneh Jabbari, diciannovenne, non avevo idea che l’incontro con questi due uomini avrebbe cambiato il mio destino e mi avrebbe portato prossima alla morte.

Ci accordammo per un nuovo incontro nel quale discutere il progetto lavorativo. Pochi minuti dopo, sono scesa in Nobonyad Street. Al solito, appena arrivata a casa, ho subito informato la mamma di ciò che mi era accaduto quel giorno. Ero contenta di essere riuscita a procurarmi lavoro da sola. Ho detto a mia madre: “Quando lo studio sarà pronto, dovranno publicizzarlo, stampare cartelloni e volantini”.

Un mio vecchio sogno era di aprire una tipografia. Volevo assumere il più alto numero di ragazze possibile e per farmi la necessaria esperienza avevo chiesto al mio datore di lavoro di farmi curare le relazioni con la stamperia che si occupava dei nostri ordini. Non mi stancavo mai. Il lavoro non mi spaventava. Avevo una grande voglia di imparare. Non avevo mai creduto nella fortuna ed ero sempre stata convinta che ciascuno è l’artefice della propria fortuna. Purtroppo, ora, all’età di 26 anni, ho capito che a volte basta uno schiocco delle dita – non importa quanto leggero – a sconvolgerti la vita e a seppellirti sotto le rovine dei tuoi sogni.

Passarono alcuni giorni senza che nessuno si facesse sentire. Avevo gli esami da preparare. Un giorno il cellulare squillò – lessi un numero strano composto di 8 soltanto. Chi chiamava lo stava facendo anonimamente. Risposi al telefono, era il dottor Sarbandi. Mi disse che voleva prendere un appuntamento per visitare il locale che voleva ridecorare. Gli spiegai che non ero al lavoro perché stavo studiando per gli esami. “Sarà per dopo, allora” disse. Un paio di settimane più tardi ero a casa quando ricevetti un’altra telefonata da quello stesso strano numero. Il dottor Sarbandi mi chiese di incontrarlo fuori dall’ufficio postale sul Sadr Bridge. Mi stavo preparando per uscire ma mia madre mi fermò. Non le piaceva il fatto che io non avessi neppure il suo numero di telefono e mi ordinò di non uscire. La implorai e alla fine mi diede il permesso ma a condizione che lei venisse con me.

Come molte diciannovenni non volevo che mia madre mi accompagnasse. Feci notare che ero grande abbastanza per uscire da sola, la stessa cosa che dissi il giorno in cui mi ero iscritta all’università. La notte prima dell’iscrizione, avevo immaginato che tutti gli studenti si sarebbero presentati senza genitori tranne io. Il giorno dopo il cortile era pieno di genitori che erano venuti per accompagnare i loro figli, solo io ero sola. Nonostante ciò, volevo fare da me, l’ho pregata di lasciarmi andare ma lei fu irremovibile. Uscimmo insieme. Io attesi fuori dall’ufficio postale e mia madre rimase sull’altro lato della strada. Aspettammo per circa mezz’ora, poi mia madre mi fece cenno che era tempo di tornare a casa. Sulla strada mi ammonì come al solito: “Non rispondere più alle chiamate da questo numero. E anche se si fa di nuovo vivo, non fare il lavoro che ti ha chiesto, passalo a un collega”. Sapevo già che non avrei obbedito. Volevo quel lavoro per me, dall’inizio alla fine, e andare orgogliosa del mio successo in età così giovane. Non volevo neppure che il contratto fosse firmato tra la mia ditta e il dottor Sarbandi, nella mia testa pensavo che avrei dovuto firmarlo io con lui. Ero abituata a pensare che potevo fare tutto da me, controllare tutto. Mi intendevo un poco di affari e avevo sovente visto mio padre preparare e chiudere i contratti con le aziende.

Un paio di giorni più tardi, ricevetti una nuova chiamata dal solito numero. Era sempre il dottor Sarbandi e ci mettemmo d’accordo per un incontro serale all’inizio di Aghdasieh Street. Ci andai. Si presentò insieme al signor Sheiki. Salii sul sedile posteriore della macchina, dove si trovava posato anche un forno a micro-onde. Il dottor Sarbandi disse di averlo acquistato come regalo per la moglie per la festa della mamma. Il suo cellulare continuava a squillare. Il signor Sheiki spiegò che era il giorno del matrimonio di un parente e che avrebbe dovuto lasciarci. Il dottor Sarbandi mi parlò invece della sua attività: importava medicine, rifornimenti e apparecchiature mediche. Avendo già lavorato per quel tipo di società, sapevo che se si fosse raggiunto un accordo avrei ottenuto numerosi contratti per la tipografia. Ci sarebbe stato un volantino, un catalogo da stampare, ogni giorno. Mi proposi quindi come fornitore di quei servizi e lui accettò, ma disse che avrebbe dovuto vedere prima come avrei fatto il lavoro di ridecorazione e solo se soddisfatto avrebbe firmato anche il contratto per i lavori tipografici. Spiegò che stava trattando anche con un altro fornitore ma io insistei per avere l’esclusiva. Nonostante la mia sfacciataggine nel fare queste richieste ero troppo timida per chiedergli il numero di telefono e forse questo è stato il mio errore più grande.

Io, Reyhaneh Jabbari, avevo diciannove anni a quel tempo e non avevo idea di quale destino mi stesse aspettando. Non sapevo che ogni nuovo incontro mi stava portando sempre più vicino alla morte. Scesi dalla macchina e tornai a casa. Ci eravamo messi d’accordo per incontrarci alle 6 del pomeriggio di sabato 7 luglio 2007. Non mi passò mai per la testa allora che i due giorni successivi sarebbero stati gli ultimi che avrei trascorso a casa. Che sarei stata gettata in un pantano di sofferenza, pianto, dolore e silenzio. Non lo sapevo e ho trascorso quei due giorni con gioia e felicità. Due giorni felici nei quali ho partecipato al matrimonio di un amico e di un cugino.

Io, Reyhaneh Jabbari, non vedevo l’ora che arrivasse la sera fin dal primo momento in cui cominciai a lavorare quel sabato. Verso mezzogiorno il cellulare squillò mentre rientravo da una visita alla Rayan Teb Company. Il dottor Sarbandi disse che mi avrebbe dato un passaggio dall’ufficio dato che si trovava nella zona. Mi sono fatta coraggio e gli ho detto: “Non ho il suo numero di telefono e non saprei come avvertirla in caso di ritardi”. Mi diede un numero di telefono e la cosa mi fece stare meglio. Chiamai mia madre e le dissi che avevo un appuntamento con il dottor Sarbandi e con il signor Sheikhi e che quindi avrei fatto tardi. “Non fare troppo tardi, dobbiamo uscire alle 7” mi ricordò, voleva che guidassi io. “Farò del mio meglio” promise; quasi subito ricevetti un messaggino da parte del dottor Sarbandi. Il messaggio diceva  “۷/۷/۲۰۰۷”.

Si dice che quando il giorno in cui il giorno del mese e dell’anno coincidono, venga liberata una data energia. E avevo sentito che il numero 7 è un numero sacro. Dio creò il cielo e la terra in 7 giorni. Ci sono 7 giorni in una settimana. Ci sono 7 cieli nel firmamento. Mi sono detta che il dottor Sarbandi credeva nell’astrologia e forse sapeva qualcosa dell’oroscopo cinese, dei segni dello zodiaco e dei vari tipi di personalità. Ho risposto al suo messaggio con un punto interrogativo e più tardi ho aggiunto: “L’aspetto, dottore?”.

Mentii ai colleghi e dissi che mi avrebbe dato un passaggio un amico di mio padre perché mio padre voleva comprarmi una nuova macchina. Subito ricevetti un altro messaggio dal dottor Sarbandi “Sono arrivato, qual è il numero dell’edificio?”. Questi pochi messaggini sono tutti i messaggi che ho scambiato con il dottor Sarbandi. Prima di allora non ho mai avuto il suo numero di telefono e mai gli ho mandato messaggi.

Alle 6 lo attendevo davanti all’ufficio. I colleghi ci spiavano dalla finestra quando il dottor Sarbandi arrivò da solo. Dov’é il signor Sheikhi, mi chiesi? Chissà perché pensavo che i due fossero sempre insieme. Mi accomodai sul seidile davanti e partimmo… verso la trappola…. verso la tela intessuta dai ragni… verso il dolore, il sangue, le urla.

Una canzonetta moderna suonava alla radio. Io, Reyhaneh, diciannove anni, amavo tutto ciò che era moderno. Ero orgogliosa di vivere in un secolo di tecnologia avanzata che continuava a sviluppare. Mi piacevano i generi musicali moderni e non amavo quelli più tradizionali. Parlammo della canzone e dei nostri gusti musicali. Il dottor Sarbandi si fermò diverse vie più avanti e il signor Sheiki salì in macchina. Si sedette dietro ma io insistei per scambiarci i posti: rifiutò. Disse che sarebbe sceso poco dopo e così fece. I due uomini parlottarono per un po’ fuori dalla macchina, non li sentivo. Poi il signor Sheikhi si allontanò e il dottor Sarbandi tornò a salire in macchina.

In Shahid Beheshti Street parcheggiò di nuovo, spiegò che aveva dellecompere da fare per un’anziana zia. Tornò dopo pochi minuti con una scatola di pannolini per bambini e una busta di plastica arancione. In Mirdamad Street, parcheggiò fuori dall’ufficio del governatore e chiese alla sicurezza di fare buona guardia alla macchina. Fui assalita da una improvvisa sensazione di grande paura: chi era quell’uomo che poteva parcheggiare nell’ufficio del governatore? Che titolo aveva per dare ordini alla sicurezza? Cercai di tranquillizzarmi dicendomi che anche se aveva una posizione d’autorità nel governo non sembrava pericoloso. Non sapevo che gli uomini possono essere come i camaleonti: possono mutare di colore in ogni momento.

Entrammo in un edificio e salimmo i piani con l’ascensore. Forse se avessimo preso le scale avrei visto un paio di scarpe fuori da una qualche porta o notato un qualche altro segno tipico di un edificio abitato, e avrei sentito i campanelli d’allarme suonare. Ma purtroppo con l’ascensore non mi fu possible; quinto piano. Vicino all’ascensore c’era una porta che il dottor Sarbandi aprii con le sue chiavi. Ero in shoc: non si trattava di un ufficio. Era un appartamento cadente, sporco, e pieno di polvere; in disordine. Non c’era alcun segno di vita. Nessun odore di cucina, nessuna luce casalinga. Era un luogo abbandonato; lasciai la porta aperta. C’era un tavolo vicino alla porta con alcune sedie. Mi accomodai in una di quelle più vicine alla porta. Lui mi invitò a mettermi a mio agio. Ma non ero a mio agio. Mi disse di togliermi il foulard ma ero impaurita. Il tavolo era in disordine e c’erano diversi oggetti sopra: un foglio di carta, una chiave, un telefonino, un paio di occhiali, un posacoltelli, un vaso per fiori e altre cianfrusaglie. Il dottor Sarbandi mosse verso il tavolo e nel cucinino. Io esplorai la stanza e memorizzai ogni particolare, vicino e lontano, tutto, ogni cosa, dalla porta d’entrata alla televisione, al sofa, al ventilatore, alla mensola, allo specchio. Il tappetto per le preghiere e persino i tavolini. Lui tornò con due bicchieri di succo di frutta e subito bevvé il suo. Disse che faceva caldo e mi invitò a bere. Io guardavo i cubetti di ghiaccio nel bicchiere, pareva danzassero.

Io, Reyaneh Jabbari, diciannove anni, non sapevo allora che quella danza si sarebbe trasformata in una danza di morte. Una danza nata dal pianto, dalle ferite, dall’imbroglio, dal complotto, dalle percosse, dalle percosse e da altre percosse, dal dolore, dal dolore e da altro dolore.

Nonostante ciò, una volta di più ignorai gli ammonimenti del mio istinto. Tentai di non cullare pensieri negativi. Mi dicevo che la sua faccia non era quella di un uomo pericoloso. Ma avevo un nodo in gola e non riuscii a bere. Dissi: “Prima parliamo di affari”. Mi alzai di scatto e ispezionai le altre stanze, guardai fuori dalle finestre. Eravamo davvero in alto! Mi chiesi che cosa sarebbe successo se qualcuno fosse caduto dalla finestra: che pensieri sciocchi!

Feci dei disegni su un foglio e presi appunti. Tornai indietro. Subito lui si allontanò dal tappeto delle preghiere e venne verso di me. Il sofa era adesso coperto con un lenzuolo. Sbiancai, avevo la bocca asciutta e ancora quel nodo alla gola. Guardai verso la porta, era chiusa. Mi sedetti sulla sedia e scorrevo i miei fogli. Si era avvicinato ancor di più. Tirò fuori un pacchettino e me lo mostrò: “Sai cos’é?” chiese. Lo sapevo. Il terrore si impossessò della mia anima. Mi alzai, mi sentivo più piccola e più fragile da seduta. Si fece avanti.

Io, Reyhaneh Jabbari, quel giorno, ero bagnata di sudore. Esattamente come lo sono ora, all’età di 26 anni, quando ripenso a ciò che ho passato. Persino ora, mentre seziono questo tumore maligno sono bagnata di sudore. Da quel momento in poi, presi coscienza che tutti i miei sogni si erano infranti. Assalita da una febbre che non sapevo controllare, ho visto la morte volare su quella casa, l’oscurità e la rovina, il fumo, il dolore. E ora voglio soltanto chiudere con quel vecchio incubo.

Ho cercato di scriverne più volte ma ogni volta ho lasciato lo scritto a metà. Infierire su quella vecchia ferita con un coltello la rende ancor più dolorosa. Ma in quest’ora di una notte infinita, nella seconda corsia della prigione di Shahre-Rey, sotto la luce della luna e nel silenzio della prigione, senza nessun bisbiglio, sono finalmente riuscita a dare voce al mio dolore. Non posso fare altro che raccontare la mia storia, alla pietra paziente delle leggende che ascoltavo da bambina. Se non potessi raccontarla, morirei. Così confesserò i miei dolori a quella pietra fino a che non li sopporterà più e dovrà scoppiare. Forse allora il mio dolore finirà. Forse allora riuscirò a cantare di nuovo.

Sono morta quando ho preso in mano il coltello e da allora in poi ho fatto finta di vivere. Ho solo atteso che il giorno diventasse notte e la notte diventasse giorno. La mia anima è morta. La mia delicatissima anima è morta all’età di diciannove anni. Ho trascorso molte notti tra gli incubi. Sognando la morte degli animali che avevo salvato. Il dolore degli esseri viventi mi ha sempre fatto male. E tutti questi miei anni, questi ultimi 7 anni, sono stati riempiti di dispiaceri e di dolore. I dolori delle ragazze che hanno una storia triste come la mia. Come Fakhteh (una compagna di prigionia) che ho visto impiccata. Ho imparato in questi anni che la morte non è un modo per porre fine al dolore. Forse è un nuovo inizio. Io, Reyhane Jabbari, 26 anni, non temo la morte. Ma la Reyhaned diciannovenne la temeva.

“Non la farai franca”, è il verdetto che ha oscurato il mio mondo. Lo ha annerito come i miei capelli. Quei capelli che solo pochi mesi più tardi hanno cominciato a incanutire….

Continua…..  

Traduzione dall’inglese di Rina Brundu, Dublino, 08/11/2015

Se copiate citate la fonte, per favore.

Artwork, la foto della madre di Reyhane, Shole Pakravan, mentre prega davanti alla sua tomba. La foto è tratta dalla pagina Facebook di Shole.

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