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Essere o apparire? la tv del “mi vedi dunque sono”

Creato il 19 novembre 2011 da Theanonymato

Senza la televisione non potresti fare niente. La televisione è una scatola. Ed è una scatola magica. Che c’è in tutte le famiglie. L’accendi, da casa ti vedono e diventi “popolare”. Diventare popolare, lo diventa chiunque. Basta apparire.

ESSERE O APPARIRE? LA TV DEL “MI VEDI DUNQUE SONO”

Appunto. Popolare lo diventa chiunque. Cioè tutti noi, potenzialmente, un giorno, magari inconsapevolmente, magari per caso, potremmo diventare popolari. Tanto, come dice il Lele Mora di Videocracy, dando voce e volto a un dato di fatto, “basta apparire”. Basta. Ma che vuol dire diventare popolare? Vuol dire che, come ci insegna Ricky, “diventi famoso, hai soldi, hai ragazze”? Oppure come dice Corona, diventi un simbolo a cui si ispira la gente? Non lo sappiamo. A meno che qualcuno di noi non sia nel frattempo diventato popolare. Diversamente, ciò che conosciamo di questo mondo magico, in cui nulla si trasforma ma tutto, come dal nulla, si crea, è legato a stereotipi. A luoghi comuni. Non a caso Corona parla di simboli; peccato però che citi il protagonista del film “Scarface” e l’attore che lo interpreta, Al Pacino. Nulla a che vedere con la televisione. Forse Corona voleva parlare di miti. Ma i miti, si sa, durano nel tempo. Ciò che arriva in tv, e dalla tv arriva a noi, oggi, pare invece destinato a scomparire nel momento stesso in cui appare. Perchè l’apparire, appunto, è il senso ultimo, lo scopo. L’apparire è l’epifania, il clou dell’essere televisivo. Basta apparire. Non ti serve altro.

Videocracy – Basta apparire è un documentario del 2009, diretto dal regista italiano, ma residente in Svezia, Erik Gandini, che per il suo film ha scelto una produzione italo-svedese. Scelta che gli ha permesso di circolare più agevolmente anche all’estero. Almeno all’estero. Visto che in Italia RAI e Mediaset si sono rifiutate di trasmettere il trailer. Presentato alla 66esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, sarà poi distribuito in sole 70 sale italiane. Il film vuole essere un’analisi di come in Italia il potere della televisione influenzi comportamenti e scelte delle persone essendo la principale fonte di informazione per la popolazione. Il regista si focalizza sulla costruzione dell’impero mediatico berlusconiano, fonte poi del potere politico del Presidente: “Trent’anni dopo, la televisione del Presidente, si è moltiplicata in un impero mediatico. Il Presidente della televisione è diventato il Presidente dell’intero Paese”. L’incipit del film, accompagnato da una ripresa a volo d’uccello sulla città, ripresa che, con un solo sguardo, tutto abbraccia e porta con sè, è dichiarazione di intenti del film. Che apre ad argomentazioni tanto varie quanto ampie. E con buone ragioni qualcuno sostiene che per il pubblico italiano (ma anche internazionale direi) non c’è nulla di nuovo. La televisione è un mezzo di comunicazione di massa. Chi ne possiede le chiavi di accesso, chi ne conosce i segreti detiene il potere. In tutte le sue forme. Non solo politico. Tanto è vero che già nell’ormai lontano 1975, Sidney Lumet realizza un film sulla televisione, intitolandolo, appunto, Quinto potere. Potere di fare cosa? Potere di invitare per esempio i propri ascoltatori ad affacciarsi alla finestra e a gridare a squarcia gola la loro rabbia. Attraverso la vicenda narrata il film di Lumet diviene riflessione sul rapporto tra la realtà e il desiderio di onnipotenza della televisione che, eludendo la distanza tra sé e il mondo, si fa portatrice unica di verità, decretando l’esistenza delle sole cose che essa manda in onda. Come accade per il cinema ci si chiede: è la realtà ad essere spunto e fonte di ispirazione per lo schermo, oppure la televisione (e il cinema) creano un mondo e situazioni fittizie poi emulate nella realtà? Tema che travalica confini di spazio e di tempo, in anni di reality, esecuzioni in diretta e quant’altro.

ESSERE O APPARIRE? LA TV DEL “MI VEDI DUNQUE SONO”

Le recensioni e i commenti su Videocracy ovviamente si sprecano: tenendo conto che il film vuole essere un riflessione sull’evoluzione della tv, su come Berlusconi abbia “modificato l’Italia a colpi di tette e culi” (cit.), è abbastanza scontato l’apparire di reazioni più o meno schierate, indignate, osannanti. Potremmo stare giorni a discutere su cosa Gandini sostenga, su come abbia usato il preziosissimo mezzo cinematografico, nella forma (permettetemi poco riuscita) del documentario. Ma non credo sia questo ciò che ci interessa. Videocracy attira la nostra attenzione non tanto per le argomentazioni che sostiene, quanto per come le espone. Nel film di Gandini si parla molto; c’è addirittura una voce narrante, quella dello stesso regista, che fa da collante al materiale di repertorio, creando talvolta un’inutile ridondanza. Ma ciò che conta sono le immagini: gli intervistati talvolta sono immortalati così, fissi, davanti alla macchina da presa, muti. Lo sguardo in macchina. Non sanno che dire; allora cercano con imbarazzo un appiglio fuori campo. Scena tanto surreale quanto emblematica. Come a dire: non serve che parli. Ti vedo. E già basta.

Ha ragione Gandini a dire che la tv è cambiata. Una volta “fare la televisione” era una professione. Nel vero senso del termine; intesa cioè come la messa in campo di competenze acquisite con studio ed esperienza. Non si arrivava in televisione per caso o perchè come accade oggi, secondo l’opinione comune, si arriva a “concedere qualche parte del tuo corpo a qualche altro potente”. E se il “Van Damme italiano” vuole andare in tv per non fare l’operaio a vita, Rupert Pupkin, il protagonista dello scorsesiano Re per una notte, in tv ci vuole andare perchè è bravo. Rupert vive con disagio la realtà che lo circonda; la sua condizione di emarginazione è data, prima di tutto, dal fatto di percepirsi come naturalmente dotato di capacità superiori rispetto alla massa, e di essere in questo modo destinato al successo. Ce lo dice Rupert stesso nel breve colloquio (in realtà monologo) che riesce a strappare al comico televisivo Jerry Lanford infilandosi nella sua limousine:

“Volevo solo dirti Jerry, il mio nome è Rupert Pupkin. So che il mio nome non ti importa molto, ma importa molto a me. Beh, forse ti stai chiedendo chi sono io. Sono stato tante volte là fuori, tante, tante volte, sai…ora io sto facendo tanti lavori, ma vedi, ed è questo il punto del discorso, io sono un comico nato. Mi capisci? Lo so quello che pensi: “Eccone un altro!” No, no, credimi Jerry, sono molto bravo, davvero, sono molto bravo, sono dinamite. Io non avrei rubato un attimo del tuo tempo se non fossi convinto che sono davvero dinamite. Forse ora ti stai chiedendo: “sì, ma se è tanto bravo, perché non è mai stato ospite del mio show?” ti dirò il perché, sai perché? Fino a un certo punto ho fatto tutto piano, con calma, con molta cura, in modo che quando il mio momento spunterà, come è venuto il tuo quando hai sostituito Jack Parr, quando Jack Parr si ammalò fu la tua grande occasione e fu quella notte che decisi che sarei diventato un comico. Venni fuori dal tuo show come in un sogno sai? Poi ho seguito tutte le tue partecipazioni allo show di Sullivan. Ho studiato tutto ciò che hai fatto, ho studiato come costruisci la battuta, con calma, rilassato […]. È proprio questo che mi piace di te, è da tanto che volevo dirtelo. Ora sono pronto, come se avessi finito la scuola. E solo il pensiero che sono seduto qui ora con te, forse è la mia grande occasione. Mi capisci? Che dici?”

In un mondo nel quale l’immagine televisiva è in grado di sancire la veridicità dei fatti e ciò che conta è l’essere visto, apparire in uno show televisivo è il massimo al quale Rupert può aspirare; è ciò che gli permetterebbe di uscire dall’anonimato al quale pare condannato. De Niro interpreta un personaggio completamente alienato in un mondo fittizio, da lui costruito, che sostituisce il mondo reale nel quale è costretto a vivere e nel quale le sue aspirazioni non trovano realizzazione. Una dimensione privata, alimentata dai suoi sogni e dalla sua sete di successo; dimensione che è doppiamente fasulla: in primo luogo perché, naturalmente, è frutto della mente di Rupert, ma anche perché il mondo dello spettacolo è già di per sé una duplicazione e distorsione della realtà, una sua sovrastruttura.

ESSERE O APPARIRE? LA TV DEL “MI VEDI DUNQUE SONO”

Ne sa qualcosa anche Truman Burbank, personaggio di The Truman Show, del regista Peter Weir. Ignaro protagonista di un seguitissimo reality a lui intitolato, il povero Truman esiste solo perchè miriadi di persone ogni giorno stanno incollate allo schermo per seguirne le vicende. “E’ tutto reale, è tutto vero. Non c’è niente di inventato. Niente di tutto quello che vedi nello show è finto. E’ semplicemente controllato”. Questo sostiene uno degli attori in una finta intervista. Una scena su tutte, credo, valga la pena di citare: quella in cui Truman, in apertura, si specchia. Ecco, noi non vediamo la sua immagine riflessa. Noi siamo nello specchio. Noi siamo lo specchio. Praticamente Truman si specchia su di noi. Ciò che lui vede è ciò che noi gli rimandiamo. Truman esiste perchè gli spettatori lo guardano. Non sono scelti a caso i nomi dei protagonisti: Truman è composto da True (vero) e man (uomo). Il cognome Burbank fa riferimento alla città di Burbank, in California, sede di molti studi televisivi e cinematografici. E il creatore del programma si chiama Christof, evidente allusione a Cristo. Ma a giudicare dalla posizione che occupa durante lo svolgimento del programma (una falsa luna dove ha sede lo studio), egli somiglia più ad un burattinaio. Come Lele Mora che parlando dei suoi talenti dice: “l’agente deve progammarlo, farlo crescere, vestirlo, come si deve comportare, quello che deve dire, come si deve vestire, capire la testa”. Avrà fatto così anche con Corona? con Corona “il personaggio” s’intende”, che ha fatto della fotografia l’arma con cui sparare a zero sui ricchi che, da moderno Robin Hood, vuole derubare per arricchire sè. Eh sì, perchè “lui vi può dire tutto. E quello che non sa l’ha fotografato”.

Significativa è l’intervista che Gandini rilascia alla presentazione del film alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia: “Non ne posso più di parlare di questo film, che nessuno ha visto. Tutti parlano di questo film. Tutti parlano del trailer. E’ diventato un caso politico. Per me personalmente è un film, e voglio che torni ad essere un film. Che stia da solo sui suoi piedi, sulle sue gambe; che inizi a vivere la propria vita“. E alla domanda: “sei pronto a entrare tu, che sei in genere dietro la macchina, nel suo (della televisione) circo mediatico? Perchè vedrai che ti coinvolgerà…” Il regista risponde: “Io guarda, mi contraddico adesso, però io adoro essere una persona anonima. Nel mio lavoro non mi da niente essere conosciuto, anzi, è una cosa che schivo. Purtroppo in questo momento il film mi porta in queste situazioni ma spero di venire dimenticato il più presto possibile“. Beh, dimenticato, caro Erik, probabilmente lo sarai di sicuro. Questo è il destino di tutte quelle meteore che, arrivate ad ardere tanto forte sul piccolo (come sul grande) schermo, così da essere viste da tutti, poi si spengono, e la scia che lasciano dura meno del tempo di un pensiero. Ed è paradossale che il film non l’abbia visto quasi nessuno. Se per esistere basta apparire, seguendo il sillogismo, cos’è…Videocracy non è mai esistito?

Di fatto Videocracy, punta il dito contro un meccanismo che il film stesso mette in atto: non sarà diventato “popolare”, ma quanti, dopo i titoli di coda, non si ricorderanno del “Van Damme italiano”? Che nel film di Gandini trova il suo quarto d’ora di celebrità warholiana. Quante volte si sarà riguardato sul piccolo schermo il nostro Riccardo? A quante persone avrà mostrato con orgoglio il video? Riccardo, il ragazzo bresciano che l’intervistatrice del Festival definisce “il protagonista sconosciuto, la vera vittima di questo sistema televisivo”, forse è il vero vincitore.

ESSERE O APPARIRE? LA TV DEL “MI VEDI DUNQUE SONO”

Lui che cosa dice di tutto questo? E avrebbe voluto essere qui?” “Lui verrà stasera. Lui verrà stasera e io spero che gli venga un’altra idea di cosa vuol dire andare in televisione; però sarà difficile perchè il suo sogno è talmente grande. Sicuramente gli farà molto piacere partecipare a questo mondo, che è così lontano dalla fabbrica in cui lavora tutti i giorni no?”

Un’altra idea? Ma Erik, allora, che film hai visto?

N.M.


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