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Evaristo il "ragazzo" che aveva chiara la rotta

Creato il 28 luglio 2015 da Marianna06

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Era un bambino come tanti altri al suo villaggio natale quando, anni fa, laggiù arrivarono per la prima volta i missionari.

La sua era una famiglia povera come lo erano quasi  tutte le altre.

Una famiglia allargata, all’africana, con nonni e zii e molti figli, che viveva in prevalenza di una modestissima agricoltura.

L’equivalente di quel che può offrire un fazzoletto  di terra per il fabbisogno familiare.

E per di più esposto ai ripetuti capricci del clima di stagione in stagione.

Mais, banane e caffè, di cui quella terra in realtà era ed è anche oggi prodiga, certo ce n’erano da portare a casa… ma solo quando si andava  a giornate nei campi degli altri.

Dei cosiddetti benestanti della zona, padroni di grandi latifondi.

E si allevavano pure  polli, conigli e qualche capretta solo  però quando si riusciva a mettere da parte,con grossi sacrifici della famiglia tutta, un po’ di denaro e andare al mercato per l’acquisto.

Per di più in casa nessuno aveva mai frequentato la scuola. E quasi tutti, tranne la nonna paterna, praticavano quella che è chiamata religione tradizionale.

La religione degli antichi  padri. Quella che contempla il  noto culto degli  antenati.

Cioè  paganesimo o  animismo, a seconda della connotazione(positiva o negativa) che s’intende darle.

E che gli stessi tanzaniani, quelli istruiti e acculturati, quasi sempre cittadini e con la puzza sotto il naso, definiscono alternativamente, in tono dispregiativo, quando si riferiscono alle pratiche devozionali dei meno abbienti.

In particolare  in riferimento a quelle dei contadini.

Di coloro cioè  che vivono lontano dai grandi centri,quasi confinati,e che  molto raramente arrivano in città e che, secondo i primi, non conoscono e mai conosceranno la modernità, quella che  essi, scioccamente, definiscono civiltà.

Ovvero Rolex fasulli, autentiche patacche da mostrare in giro agli amici, occhiali griffati e abiti alla moda.

Non importa poi se ci si indebita prima del tempo l’intero salario o lo stipendio.

Ma l’intelligenza,dono di cui dobbiamo essere eternamente grati per il solo fatto di possederla, non guarda certo provenienze e censo, quando viene distribuita dal Creatore.

E, in questo caso, nemmeno fa  differenza, rispetto alle città, per quello che è un remoto villaggio del Tanzania, a parecchi chilometri  di strada polverosa e  dissestata dal grande centro di Iringa.

E, cioè, per il villaggio in cui  Evaristo Marc Chengula è nato.

Evaristo, un nome che, tanti anni fa, era forse piaciuto al papà, che di sicuro lo aveva appreso da gente di passaggio. Cacciatori o bracconieri. Militari o altri missionari. Chissà… Ma di cui il vecchio ormai, ovviamente, non si  ricorda più.

Così il bambino, più avanti poi adolescente, comincia a bazzicare,  ogni giorno sempre di più, la casa della missione, che considera un contesto piacevole.

Lì è dove può giocare a calcio con altri coetanei come lui e sgranocchiare, magari ogni tanto, qualcosa di buono, che mama Rose, la cuoca dei missionari, offre generosamente ai ragazzini ospiti.

Successivamente poi, grazie alla campagna di alfabetizzazione diffusa del governo, sempre Evaristo, il nostro Evaristo, prende  anche ad andare a scuola come era suo desiderio.

La scuola del villaggio è una specie di pluriclasse con un maestro, che si spende senza risparmio per i suoi allievi. Piccoli, medi e grandi. In molti, infatti, al villaggio la frequentano. E che consentirà al nostro,a prezzo di un grosso impegno, di conseguire almeno l’istruzione primaria. E cioè di saper leggere, scrivere e fare di conto. E di appropriarsi, inoltre, di una   qualche sommaria nozione di storia e di geografia.

Evaristo, senza dubbio, è un ragazzino davvero molto sveglio, che ha desiderio di apprendere e pende in particolare dalle labbra degli uomini bianchi, i missionari, che sono arrivati fino a lui e che conoscono tante cose e che sanno soprattutto raccontarle  e accendere  così la sua già sbrigliata fantasia di adolescente, incline all’avventura.

Padre Tommaso, un anziano piemontese, un omone un tantino burbero ma di cuore generoso, che ha colto l’interesse del ragazzo per lo studio, gli regala una Bibbia nel giorno che lo ha visto guardare con curiosità i libri nello scaffale del suo studiolo.

E da quel momento Evaristo non ha mai smesso, quando il papà glielo permetteva, fuori dal lavoro nei campi, di leggerne e rileggerne i racconti tutte le volte che poteva.

Era ed è per davvero il suo “tesoro”.

Di notte, infatti, si addormentava tenendolo ben stretto il “tesoro”, accanto a sé, sulla stuoia.

Lo attraeva molto il libro della Genesi. Un racconto che ben si sposava con le fantasie del suo mondo ancestrale. E poi il Vangelo di Marco per la semplicità e la chiarezza della narrazione.

Naturalmente Evaristo, col trascorrere del tempo, frequenta anche il catecumenato per divenire cristiano e cattolico (perché così ha deciso tra sé e sé) e segue con profitto e interesse gli insegnamenti del suo catechista, un anziano uomo del villaggio, molto stimato dalla gente, che frequenta assiduamente, nonché  i suggerimenti dei padri missionari, che ormai, tranne padre Tommaso che quasi certamente non ripartirà più per l’Italia, si avvicendano alla missione, provenienti da differenti continenti e nazioni.

E all’età di diciannove anni ecco che, finalmente, riceve l’agognato battesimo.

Battesimo che per lui significa molto.

Significa, anche se non ne ha messo a parte i suoi genitori, una scelta di vita differente da quella che  i familiari potrebbero ipotizzare per lui.

Ne aveva parlato una volta, tempo addietro, solo con padre Tommaso. E questi lo aveva incoraggiato, pur dicendogli a chiare lettere che l’impegno nel campo degli studi sarebbe stato oneroso al massimo e che avrebbe potuto anche non farcela. E poi, sempre il missionario, non aveva trascurato di parlargli  dell’aspetto sociale della scelta.

Essere prete in Africa per un africano non è cosa facile, gli aveva precisato più di una volta.

Ma il chiodo fisso di Evaristo lo porta comunque, come desidera, alla soglia del seminario diocesano proprio grazie alle buone parole spese per lui da padre Tommaso, che non smetterà di seguirne il percorso di studi e con il quale si confida le poche volte che fa ritorno al villaggio per le vacanze.

Completa brillantemente gli studi nonostante alcune difficoltà di percorso prevedibili per quella che è una vocazione adulta e viene, al termine dell’intero iter, ordinato sacerdote.

Fa subito da aiuto parroco in una piccola cittadina del sud della Tanzania, dove è stato destinato dal suo vescovo. E non si trova affatto male. Sfacchina da mattina a sera, specie con i giovani, con i quali ha il compito di fare da animatore e da formatore. Sorride e mai si lamenta.

Poi, però, in un incontro successivo, avvenuto qualche tempo dopo con i suoi amici missionari a Iringa, durante una visita per salutare padre Tommaso, ormai anziano e che si trova lì per motivi di salute, opta definitivamente per quella che era la motivazione iniziale del suo essere prete e cioè l’essere un  missionario.

Altro percorso. Altri anni di formazione. Altra destinazione.

Sacrifici fatti e sempre con gioia.

Il bello d’essere missionario, e missionario della Consolata, è l’internazionalità che la scelta sottende.

Infatti per Evaristo c’è lo Zaire di allora, oggi Repubblica democratica del Congo.

Ed è qui che il nostro si fa le ossa da missionario e vive numerose esperienze interessanti e, talora, anche piuttosto difficili.

Ma la fiamma che lo anima, la fede sincera di persona autentica che è, il senso pratico di un uomo che da ragazzo, e ancora prima da bambino, ha conosciuto da subito la durezza della quotidianità in un contesto di povertà, solo all’apparenza senza speranza, e  che proprio  per questo sa essere generoso con chi ha bisogno d’aiuto, specie i piccoli, gli hanno fatto e gli fanno superare allora e, ancora oggi, tutto con ottimismo.

E, a ricordarli oggi quegli anni,adesso che  i suoi capelli grigi e bianchi sono più di quelli neri, egli sottolinea che sono stati  senza dubbio un’esperienza bellissima e molto arricchente in termini di umanità.

Oggi monsignor Evaristo Marc Chengula, certamente non più giovane ma non domo, e che della gioventù conservaintatti tutti gli entusiasmi, dal novembre del 1996 è vescovo di Mbeya, in una zona montuosa del sud-ovest del Tanzania, al confine con lo Zambia e il Malawi.

Si tratta di un territorio con una popolazione cattolica in continuo aumento. E quel che è bello, e in un certo senso  anche esemplare, è che quel ragazzo molto deciso di un tempo è arrivato, con la sua sola grande forza di volontà,  con la disponibilità di chi ha saputo ascoltarlo al momento opportuno e  con l’aiuto di Dio, che conosce il nostro cuore e i nostri desiderata, a essere nientemeno che il primo  vescovo tanzaniano appartenente alla famiglia dei  missionari della Consolata.

Che non è  certamente poca cosa. 

                          

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                                                       Marianna Micheluzzi (Ukundimana)


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