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Fabrizio De Andrè: quarant’anni di creuza de ma

Creato il 25 novembre 2015 da Cultura Salentina

25 novembre 2015 di Augusto Benemeglio

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1. Creuza de Ma

…Ed ecco, quando tutto il suo filone lirico sembra esaurito, riaffluire come un’ondata oceanica, la grande musica che viene da lontananze storiche, dall’Islam, dai paesi mediterranei, dalle torri dei muezzin, ma anche dalle torri costiere salentine, dalle piazze salse di tutti i paesi di mare, dalle cinture, dai paesaggi, dai ponti levatoi, dai fiumi riarsi, dai paesaggi deserti, ecco le generazioni di marinai di Creuza de Ma: “Ombre di facce, facce di marinai / da dove venite dov’è che andate / da un posto dove la luna si mostra nuda / e la notte ci ha puntato il coltello alla gola / e a montare l’asino c’è rimasto Dio, / il Diavolo è in cielo e ci si è fatto il nido, / usciamo dal mare per asciugare le ossa dell’Andrea / alla fontana dei colombi nella casa di pietra”.

Ed ecco le notti sotto le ascelle dello scirocco, anni a percorrere questa mulattiera tra i muri a secco e il respiro del ventre del mare, vele di pirati che urtano contro gli orizzonti, di maestri d’ascia che tirano a secco le barche, le ginocchia contro i denti, tutti rattrappiti, come vecchi pianisti che con dieci dita tambureggiano sotto gli scalmi, lungo la carena, che tastano il fasciame; e le loro teste che vacillano nei rollii della passione senile e brontolano, a sera, come gatti schiaffeggiati dal vento; sudori e fiori di catrame, la fatica e la magia d’un arte che annienta la realtà nel mistero e,a sera,  vino o birra a go go, per l’unica cura possibile per un marinaio, la “ciucca” rituale. Eccoli, lì, riversi nel loro tugurio-sogno, sputando pollini bianchi e moccio azzurro.

Ed ecco il vecchio Faber rinascere, delirare nella sua “Zena”che gli si dispiega e gli va incontro coi suoi profumi amari, come una Nuova Donna che Fa innamorare, ecco che Faber rientra nei fetidi sobborghi in cerca di sesso innominabile, sesso di Gorilla pelosa, o di Peppino, il travestito; ed ecco che, disciolti i capelli nella tempesta, la vecchia città sale sulle terrazze bianche, fa calare gli scuri delle finestre; ecco l’altra faccia del tempo, l’altra piramide di Genova dove sono scolpiti gli urli di tutti i marinai e le loro rughe, e la loro fronte negra, e l’acqua salata che li insegue anche sulle rive, tra le rocce e tra le pietre nere, e cantano pure con la lingua tagliata mentre l’usignuolo rimane spiaccicato sul muro dei muli, dov’è affisso il cartello: vietato il transito ai cavalli, questa è Creuza de Ma.

Ma “chistu è pacciu!”.”Balengo!” Non venderà neppure un disco, e invece…un successo internazionale, e rieccolo, ancora e sempre, con la chitarra, il canto, la sigaretta incollata alle labbra e le sue vertigini ormai costanti (ha lasciato la bottiglia per una promessa fatta al padre morente); ora ha cominciato la serie dei nuovi mega concerti, dove c’è tanta gente, una vera orchestra cogli strumenti più disparati, e c’è anche il figlio, Cristiano, che suona divinamente il violino, e c’è pure l’ultima della covata, la figlia Luvi, Luisa Vittoria, che canta a voce spiegata: Creuza de Ma!

2.Portami a vedere il colore del vento

Ma poi venne una notte di gennaio di fine secolo, nell’esatta luce irreversibile e pura, altera e lodata, sora nostra morte corporale; attraversò il vasto e casto sudario, entrò silenziosa nel giardino di rose, e portò una musica lieve nel colore azzurro del vento. Fabrizio De Andrè,ormai simulacro di sé stesso, in coma irreversibile, staccò la spina per sempre da questa terra. Era l’11 gennaio 1999 E allora tutte le nostre solitudini furono una soltanto; nello specchio d’acqua della sua fontana, nel marmo del tempo, nella roccia dov’era conficcata una spada, che in realtà era una chitarra (“è bello che dove finiscono le mie dita,/ debba in qualche modo cominciare una chitarra”) che si profilava come un’ancella mora sulla serenità di una terrazza bianca. Da lassù si scorgevano tutte le albe, i tramonti e le distese d’erba tremanti, ed ecco venire un angelo in volo, gli tese le mani, lo disfiorò con le sue ali, e lui si ridestò dal sonno e disse: portami a vedere / il colore del vento…. Ed io rividi d’un tratto, come per arcana divinazione, oserei dire per transustanziazione, tutta la sua vita d’artista, da uccello canterino, da pettirosso da combattimento, quarant’anni di vita magica e profonda, allegra triste folle e ribelle, fatta d’ombre aurore e buio, vita  da Una e Mille Notti, che fu rivissuta sull’unghia, all’istante, nell’attimo fuggente, come nei film di buona partitura, quasi per caso, come un’anomalia, m’immersi inconsapevole in quella marea di emozioni che risalgono la schiena blu di quelle notti di stelle filanti genovesi, notti di sublimi bagordi.

  1. Innamorato dei gatti

Ed eccolo il giovane Faber a bere sul muro d’ombra e fuoco, a scherzare atrocemente con Fracchia Villaggio, Mauro, Pippo e Rino Oxilia, sul muretto delle beffe, e poi cenare a fagiolame e cotiche con vorace passione a consumar brani di gelosia di vivere sulla  brace pietosa; e poi, ancora ubriachi, a far sesso come viene, da Gorilla o Bocca di Rosa, senza dir parola – “tu ridi nuda, fanciulla,/ frutti di fuoco e di artificio / i sensi s’aprono “. E così col Sali e Scendi in un fusto di rame, in una scala del pozzo, tra confusioni taciturne, senza misura, senza nessuna misura, quasi con involontario cinismo, ma anche con improvvise derive di tenerezze per i casi umani che più umani non si può, come quello di Piero Repetto, completamente paralizzato (“portami con te nel mondo reale, nella favella del reame, nel reale dell’irreale”), e lui a portarlo di peso con la carrozzella, fra la gente più strana, farlo sentire vivere e cantare incastrato tra l’acciaio, con uno scintillio sulla fronte e le giocate totali a testa o croce, o a dadi, il rotolare delle monete o delle facce coi numeri, per vincere tanti soldi e poter comperare una fattoria con tanti animali e fiori di lillà; sì, era un gattaro, Fabrizio, e ci credeva alla loro divinità, come gli egizi, e sognava di fare un paradiso tutto per loro, per la loro solitudine sotto la luna e il loro segreto inaccessibile; sognava la stagione dei melograni in cui i gatti vanno in amore, come lui, e si esibiva al teatrino della Borsa di Arlecchino con quella voce da carezza flautata e la prima chitarra che strimpellava appena (la madre gli aveva pagato tante lezioni di violino tutta andate a puttane), e il padre a rincorrerlo con lo sguardo e i telai del linguaggio, perché finisse gli studi e prendesse finalmente la sospirata laurea in giurisprudenza…”Poi fai quel che ti pare nel tempo che t’avanza, vai anche nelle fogne dei sonnambuli, nel letto dei rasoi, ma fino al venerdì, ricorda: tu…sei l’avvocato Fabrizio De Andrè, belin”!

  1. Voglio essere ricordato come amico

Non posso pretendere che i miei errori mi siano perdonati, disse ad amico a cui aveva sottratto la ragazza. Così come non posso dare il coraggio che non ho (noi artisti siamo tutti dei gran fifoni, anche se cantiamo la libertà e il coraggio). Io ti posso dare la speranza, o l’illusione di una speranza anche per te che conti zero virgola zero. Ma voglio essere ricordato meno come poeta che come amico; per questo vado a cantare sull’albero che sanguina a mezzanotte, per questo vado fin sulla Croce a vedere “sbiancare come un giglio /uno che ebbe un nome ed un volto: Gesù. E’ questa da sempre la sua milonga senza musica, con la mano che indugia sulle corde della chitarra e anche sulla patta dei ”blue jeans”; io non sono un predicatore, sono un giullare e le parole sono parole, vanno e vengono a secondo delle rime, degli accordi, dell’assonanze, non rompetemi i coglioni con gli esagerati sgangherati sentimentalismi e le piattole e i pruriti dei benpensanti. Abbiamo vent’anni, siamo cavalieri di rovi e di more, dei giorni segreti della merla dove stanno tutti i giorni sempre uguali, vogliamo amici sigarette whisky e fare tante scopate, ma c’erano anche beffe e agonie d’impiccati per amore come Michè (…si è impiccato ad un chiodo perché/non poteva restare vent’anni in prigione/ lontano da te… //Domani alle tre/nella terra bagnata sarà/ e qualcuno una croce/col nome e la data / su lui pianterà.  E poi non la smette più, è una germinazione di incubi, un pugno di luce e di risate beffarde, e dai allora con le nuvole barocche, Carlo Martello, la ballata dell’eroe, e altre mille dissacranti canzoni e ballate di oggi e di ieri, rulli di tamburi e re, torri regine e castelli, eroi innamorati, fannulloni e camorristi, Ofelia e le acciughe, Giovanna d’Arco e il Suonatore Jones, storie di impiegati, Rimini Lama e Fellini, Erode, Tito e i re magi. E naturalmente Gesù e la Buona novella, “la mia migliore canzone”. E’ un amico, leale, sincero, incapace di mentire in quelle notti condivise davanti al mare coi miracoli quotidiani e le budella rovesciate, i testimoni della risurrezione quotidiana che lo ri-trovavano sul letto nel suo delirio circolare, alla quattro e mezzo del pomeriggio, a sognare, rigorosamente una storia, un destino, una maschera di libertà; a sognare che cosa?, un altro whisky, un’altra chitarra, un’altra donna da amare.

  1. 5. Il terrore del palcoscenico

“Ha stravolto i canoni della canzone italiana con le sue ballate, sempre sospese tra mito e realtà. E ha sfidato gli arroganti di ogni tempo con il linguaggio sferzante dell’ironia. Senza mai cedere alle “leggi del branco”, ma ha sempre avuto il terrore del palcoscenico”. La sera della prima alla Bussola di Viareggio, il 18 marzo 1975, lo salvò Marco Ferreri il regista, che aveva una laurea in veterinaria e gli fece credere che il suo polso fosse regolare – (in realtà era in pieno marasma tachicardico, con mezza bottiglia di Whisky in corpo) e lo spinse dolcemente sul palcoscenico (“Questo è il gesto più eroico che abbia compiuto. Lui era un artista di levatura internazionale, proprio perché era essenziale, un signore che mi ha dato molte emozioni e soprattutto un vero amico che ti riempiva d’affetto, parlavamo solo di pillole, medicine e donne, naturalmente”), ma in seguito, durante i tour, capitarono serate in cui era talmente sbronzo da non poter salire sul palco: “Tu sei uno stronzo – gli disse Gianni Bellemo dei News Trolls – certe figure di merda sul palco a noi non ce le fai fare. Ti proibisco di bere ancora Whisky”. E lui gira sopra un riflesso, cade in linea retta, col viso di un’affilata bianchezza. Hai ragione, dice. “Non berrò più whisky”. E alla prossima occasione era lì dietro le quinte con una bottiglia di Petrus.

“Gli anni son passati, un’inquietudine dà orrore alla mia veglia, non dormo più da cent’anni, prima era oro e amore, ora è quieto tumulto, è l’inutile ridirmi del ricordo di ieri, è il sogno che non sognai mai, è la mia solitudine che mi percorre tutta la via del corpo e dell’anima, cerco una notte antica e definitiva, e tuttavia continuo a vivere sui palcoscenici dove mi manca l’aria, mi manca il corpo, mi manca di finire in ospedale perché ogni volta me la faccio sotto, non sono capace di affrontare il pubblico, al primo impatto mi viene sempre una vertigine, prima o poi sarà un infarto e ci lascio le penne !…

  1. Che cazzo d’aspettavi?

“O Cristo mio, le tue braccia m’offrono riparo alle molte lune, so che il tuo potere è obbedienza, è perdono, un tutto è ciascuno, in un altro tutto, in un altro uno…Ma tu sei uomo, come me, fratello grande, enorme, fratello di tutti del mare e degli alberi e di ciò che mi alza e mi regge e mi lascia cadere. Lo spernacchiarono per questo suo inno al perdono, alla solidarietà, per questa ricerca della libertà vera, il poema che sta dentro di noi”.

I ragazzini del Palasport di Roma gli gridavano dietro “scemo,scemo” altri lanciavano monetine, e quelli dell’organizzazione di sinistra, i colonnelli dell’ordine, avevano preso i ragazzini e li avevano sbattuti giù dai gradini in maniera selvaggia. Poi, dopo che lui era intervenuto per tutto sedare, lo avevano preso in disparte, preteso la divisione degli incassi, con richiesta di altre percentuali, una vera e propria mafia. Ma tu De Andrè che cazzo t’aspettavi? Da ribelle contestatore senzadio, provocatore, vieni a parlarci di Cristo e della Madonna! Il tuo è un cammino senza avanzare, anzi vai indietro, vai negli angoli polverosi delle parole infrante, nell’arcaicità delle tavolette cuneiformi, nei pozzi aridi dove l’acqua è bruciata da secoli e gli orizzonti sono tutti fuggiti, noi siamo accerchiati dai padroni, borghesi come te,tu sei tornato al tuo posto,in fondo sei tornato alla partenza, infame borghese! Lui vivrà tutto ciò sempre in modo un po’ schizofrenico. Perché la sua vita, il suo modo di parlare, le sue amicizie, i suoi gusti, rimarranno borghesi. E preferirà sempre cantare per gli amici, il resto lo fa per denaro, per un sogno di oasi e libertà nella terra degli “indiani di Barbagia”, la Sardegna.

  1. La solitudine

” Ogni disco, come ogni libro, credo, nasce da qualcosa, da una sensazione. Questo disco, Anime salve, nasce dal senso di solitudine. La solitudine può avere origini dalla follìa, o dal desiderio della persona che si sente sola perché vuol star sola. E questo è proprio il caso dell’artista, secondo me: l’artista di solito ha bisogno di solitudine per crearsi o per assecondare una sua visione. Infine la solitudine può essere il risultato dell’emarginazione. Emarginato e quindi solo può essere un individuo, ma anche un gruppo, un intero popolo. Pensiamo solo per un attimo ai Rom. Un popolo antichissimo, visto che già Erodoto ne parlava, dicendo di loro che esercitavano il mestiere di maghi e indovini…E come sarebbe bello poter vivere anche oggi di un mestiere come questo…”

Ormai Fabrizio dialoga con la propria anima, anima solitaria, anima libera, anima diversa, anima di cristalli sottili, anima legata ai giorni della merla,al freddo gennaio, mese in cui morirà, mese in cui era stato pubblicato il suo primo album ufficiale, che si apriva appunto con “Preghiera in gennaio”, scritta, nel 1967, la notte prima del funerale di Luigi Tenco, morto suicida. Ed ecco, sempre in gennaio, ma trent’anni dopo, “Anime salve”, che chiude il ciclo. E’ racchiuso qui il nostro cuore, nella memoria poetica e musicale di tutti quelli che hanno ascoltato le sue canzoni come un dono prezioso, un miracolo, di tutti coloro che hanno letto le sue poesie e poi l’hanno viste farsi musica, per divenire ciò che sono ora: silenzio, armonia, spazio infinito dell’anima. L’ultima cosa che ha scritto Fabrizio De Andrè, è “Smisurata preghiera”, vero e proprio testamento spirituale. Dirà Alvaro Mutis che soltanto una grande anima avrebbe potuto scrivere una cosa così, con eleganza, forza, grazia, versi vestiti di una musica di nuvole, come di sogno:… ricorda Signore questi servi disobbedienti/ alle leggi del branco/ non dimenticare il loro volto/ che dopo tanto sbandare/ è appena giusto che la fortuna li aiuti/ come una svista/ come un’anomalia/ come una distrazione/ come un dovere

  1. Amico fragile

Nell’estate del 1998, Faber avverte i primi dolori forti al petto, (“Mi tolsi la giacca, mi stesi sul letto e tornai a sognare le tigri”), poi gli spasmi (“Sono l’unico uomo sulla terra che fuma settanta sigarette?, ma forse non c’è terra, né uomo. Forse c’è un dio che mi inganna. E mi ha condannato da tempo, vivere è stata una la lunga illusione”) Ad Aosta sviene sul palco, l’anima gli fugge via (“Ho sognato per tutta la sera e la mattina del giorno dopo: “Ho visto Nina volare tra le corde dell’altalena/un giorno la prenderò /come fa il vento alla schiena”).Ricoverato in ospedale, la Tac non lascia speranze. Tumore ai polmoni con metastasi diffuse dappertutto. Inoperabile. (“Ho sognato la mia spada/nel fondo del mar Ligure”)  La marea nera delle sillabe copre il foglio del referto. Tutto precipita. C’è un vento freddo che ci assottiglia, ci stranisce, ci diminuisce, ci annichilisce. Ecco il giallo, l’azzurro, il rosso. Ho sognato la mia fragile infanzia. E’ l’11 gennaio 1999, è notte, qualcuno spalanca una veranda sull’abisso,e lo accompagna in quelle regioni sconosciute da cui nessuno fa più ritorno. Sono le 2,15 esatte su Milano, ed è ferma la notte. (“Ho sognato il giorno di ieri. Ma forse non ebbi ieri. Forse non sono mai nato”). Muore Fabrizio Cristiano De Andrè. “Nel grembo umido, scuro del tempio / l’ombra era fredda, gonfia d’incenso;/l’angelo scese, come ogni sera, / ad insegnarmi una nuova preghiera; poi,d’improvviso, mi sciolse le mani/ e le mie braccia divennero ali, quando mi chiese – conosci l’estate – / io, per un giorno, per un momento corsi a vedere il colore del vento

Roma, 23 novembre 2015


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