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FAITH NO MORE – Sol Invictus (Ipecac)

Creato il 13 maggio 2015 da Cicciorusso

Faith-No-More-Sol-InvictusSol Invictus uscirà tra qualche giorno ma già da parecchio è reperibile sulla rete (da poco anche in streaming ufficiale). Mi piacerebbe dire che ho aspettato il 19 maggio, che sono andato in negozio a comprare il cd (cosa che ovviamente farò a tempo debito) e che ho svolto tutta la sfilza di riti apotropaici volti a scongiurare una possibile delusione e quegli altri gesti sacri e simbolici quali lo scartare la confezione con la delicatezza di un bambino che maneggia un fiocco di neve, il tirare fuori il dischetto e guardare sotto se ci sono graffi (sì, lo so che è inutile coi cd nuovi, ma è il riflesso condizionato di quelli che hanno la mia età e hanno bazzicato tra polverosi scaffali dell’usato per troppo tempo), l’annusare il booklet prima di sfogliarlo e così via, per tornare con la mente a diciotto anni fa (18!) in quel bel giorno di sole che andai a comprare Album of the Year. Non prendiamoci in giro: io non sono più quello lì e queste cose non fanno più parte della mia quotidianità e poi come si fa a resistere fino al 19 maggio?

Cominciamo dalla forma:

Il titolo: Sol Invictus. Pensavo fosse uno scherzo di cattivo gusto e invece no. È un titolo fuori contesto rispetto ai brani, come tutti i titoli dei vecchi dischi dei Faith No More, e ha, come gli altri, l’unico obiettivo di stampigliarsi in testa per sempre e secondariamente di far pensare alla rinascita, al ritorno, all’incoraggiamento per l’essere ancora attivi e così via.

La copertina: in bianco e nero. Anche AotY era in bianco e nero. Lì una foto del presidente cecoslovacco Masaryk su un treno mentre parte per andare a un funerale. Facile comprenderne il messaggio simbolico visto che già si sapeva da tempo che quello sarebbe stato il disco del commiato. Qui c’è un bambino in atteggiamento minaccioso (da un libro di foto di Ossian Brown) che sta a significare il doppio lato oscuro e innocente dei FNM. Di cazzate simili ne sentirete dire fino allo sfinimento.

Il tempismo: il disco viene fuori dopo una campagna mediatica (almeno nel vecchio continente) abbastanza sobria e dopo un tour durato oltre cinque anni. Io leggo questa cosa in modo estremamente positivo e mi riferisco al saper creare le giuste aspettative, senza forzare la mano e spingere sul pedale del business, dopo aver verificato in giro per il mondo che ancora forte è l’aura intorno alla band, come anche il desiderio di averne di più.

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Poi la sostanza:

La produzione: fatta in casa, che non vuol dire per forza fatta male, non in questo caso almeno. In questo caso, dunque, sta a significare la totale libertà di espressione, disintermediata rispetto ai voleri di questa o quella label, questo o quel produttore (che qui, per inciso, è lo stesso Gould). Quindi ci sono sia gli strumenti materiali adeguati che i mezzi di diffusione (la Ipecac).

La line-up: la stessa di AotY e del tour di questi ultimi anni. Come a voler dimostrare che esiste una continuità col passato o, forse meglio, che quella era già la line-up perfetta; imperfetto era il contesto (le pressioni della Slash Records, la cui coda degli obblighi contrattuali si è estinta da poco, che si aggiungevano a quelle di un pubblico abituato alle manifestazioni di genio).

I pezzi: e qui viene il bello. Com’è il disco? Bella domanda. Ho pronte in bozza due recensioni, più questa, e in ognuna dico una cosa diversa. Non è giusto giudicare un disco a seconda dei propri stati d’animo quindi devo mediare con me stesso. Matador – cominciamo da questo perché da qualche parte bisognerà pur cominciare – è il pezzo meglio riuscito, strutturato, in cui più forte ed evidente è la sintassi del più tipico songwriting dei californiani. Non un caso visto che proprio da questo pezzo, che è stato suonato tantissimo dal vivo durante il tour della reunion (cioè dal 2009 ad oggi), è ripartito tutto. Poi è il primo pezzo creato dal 1997. Probabilmente da lì Gould ha iniziato seriamente a pensare che dopo un tour poteva starci anche un disco nuovo. Il pezzo in sé è bello e molto diverso dalle versioni live, ovviamente più rifinito, e ricorda i fasti degli anni ’90. Poi ci sono le anticipazioni, sulle quali qualcosa è stato già detto: Superhero e Motherfucker sono due brani deliziosi ma che alla lunga stancano un po’. Questi sono espressione di una volontà pura di giocare col proprio nome (emblematica è la copertina del singolo Motherfucker), col pubblico e con le tendenze più in voga oggi (l’intervista al sito della Marvel ne è un esempio), ed esprimono il classico atteggiamento irriverente dei FNM nei confronti del music business. Senza continuare con noiosi track by track, vi ritrovo brani godibili ed altri chiaramente classificabili come filler o B-sides, come quelli che trovavamo nei singoli da collezionismo: pezzi tutto sommato trascurabili che però avevano una dignità proprio in quanto rarità da collezionisti. Nessuna hit memorabile o un brano che spicchi particolarmente nel mucchio e che rappresenti la maledetta chiave di lettura dell’album, che non c’è, o io ancora non l’ho trovata. Questa, se ci pensate, è una novità in quanto nei precedenti ce ne stava sempre almeno una ed era lampante. A volte predomina quel lato più ‘crooneristico’ e ‘confidenziale’ di Patton non supportato, però, da una base strumentale di raffinatissima fattura come poteva essere una Evidence e che si confonde, ahimè, in una imitazione troppo smaccata di un Nick Cave, per esempio (giusto per non offendere nessuno). I brani più chiaramente definibili ‘alternative’ ricordano i primi Tomahawk nello stesso modo in cui questi, insieme ai Fantômas (o meglio, al suono dei Fantômas), ricordavano gli ultimi FNM al punto di mettere in difficoltà l’ascoltatore nel provare a differenziare i due mondi. Sunny Side Up ti entra in testa tanto da creare fastidio (e alla lunga lo crea, fidatevi); Cone of Shame, Rise of the Fall (‘pattoniana’ nel senso stretto del termine), Black Friday (dal sapore a metà tra il western e un retro funky-rock sexy da morire) e From the Dead (la ballata in chiusura che ti dice proprio non puoi fermarti qui, amico, ricomincia, lo so che lo vuoi) sono i motivi per i quali mi ritrovo a premere play ancora una volta, soprattutto perché, pur essendo gradevoli, sfuggono e scivolano via in modo veramente troppo liquido. Rimandi ad altre sonorità familiari ce ne sarebbero a iosa ma farlo sarebbe oltremodo sbagliato e oltraggioso nei confronti di un gruppo che ha fatto storia.

Nel complesso Sol Invictus è ciò che ci si poteva aspettare. Non sarà il migliore dei loro album, semmai farà a braccio di ferro con AotY per la palma di peggiore (escludendo dal lotto le esuberanze giovanili di Introduce Yourself), ma al momento è l’unica cosa che si poteva fare: dare una prova di vitalità compositiva. Le condizioni per fare un nuovo album c’erano tutte, la band era pronta, rodata e in forma, la motivazione era quella giusta, l’ispirazione tutto sommato c’era: le carte erano in ordine per creare qualcosa di ordinario. Chiudo richiamando le affermazioni dei miei esimi e saggi colleghi: Ciccio, che ha un sesto senso notevole per queste cose, dice che potrebbe essere tipo un 13: mi sembra un paragone azzeccato; Roberto si è spesso domandato se gruppi di un certo calibro, quelli che si riuniscono dopo molti anni ad esempio, debbano necessariamente fare un disco nuovo per giustificare un altro tour: a più riprese i cinque di Frisco hanno dichiarato che trattasi solo di un gioco e mi viene veramente difficile crederlo, piuttosto mi capita di pensare, in questi casi, quanto sia facile cedere alle lusinghe del pubblico, all’orgoglio o all’egolatria. (Charles)



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