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FANTASIA – un malessere etimologico

Creato il 14 marzo 2013 da Sulromanzo

Prima puntata della Rubrica Nella pancia del drago.

Nella pancia del drago, fantasy, etimologia
Spero che lo spoiler della puntata zero vi abbia confuso abbastanza (growl – brontolò la pancia del drago).
Fantasy è un prestito dall’inglese e vuol dire fantasia. Ma ex nihilo nihil fit. La parola fantasia arriva alle lingue romanze e germaniche dal greco φαντασία, in latino PHANTASIA, pronunciato proprio come quella di Michael Ende: immagine, apparizione. Prima del greco, la parola accettata in tutta la Pangea era “Ooooh”, con l’indice puntato e gli occhi sgranati di meraviglia sul mondo.

Sembra paradossale che dall’osservare attonito della realtà sia nata la poetica dell’irrealtà. Il termine fantasy, per come è riconosciuto da noi lettori contemporanei, sta a indicare un genere letterario evolutosi dalla summa tra il patrimonio mitologico fantastico di tutte le società pre-letterarie e la forma del romanzo inteso nel senso moderno del termine. Si potrebbe dire che è proprio su questo collidere che il sistema della critica letteraria storicamente inciampa e, in Italia, sembra vada avanti a balzelloni con le gambe legate.
Perché? In primis, basterebbe un dato di fatto: per ritrovare sia le origini del “romanzo fantastico” che la critica più esaustiva su di esso, bisogna veleggiare per lidi anglo-sassoni, o almeno mitteleuropei. Si potrebbe avanzare l’ipotesi che, come “popolo che legge”, siamo in  ritardo di due secoli rispetto all’elaborazione di una coscienza critica su un genere a cui ci siamo rapportati soltanto in traduzione e negli ultimi sessant’anni. Inoltre, il problema linguistico si pone anche a un livello di terminologia, perché in inglese romance (epico cavalleresco) e novel (romanzo realista moderno) non sono naufragati in sinonimia e la parola fiction non ha trovato una traduzione efficace nel nostro linguaggio letterario, se non quella erronea di fantasia. La contemporanea dicitura romanzo fantasy, in Italia, è una falsa partenza.

A cavallo tra Ottocento e Novecento, si iniziò a chiamare ogni pezzo di long-fictional-prose come romanzo nel senso italiano del termine, ovvero novel, quegli archetipi del romanzo moderno firmati Defoe, Jane Austen,  Gustave Flaubert. A questa forma di narrato si accostava, però, implicitamente un’aspettativa sui contenuti propria del gusto del tempo. Le preoccupazioni delle eroine della Austen non erano, infatti, beowulfiani draghi e teste da tagliare, ma eterno struggimento de lo core, sfortunati matrimoni, gossip e tedium vitae. L’unione di questa forma letteraria con quell’“Ooooh” primigenio sarebbe potuta forse essere facile e indolore? Il mito, la prima e più potente forma narrativa umana, il Grande Cthulhu, si poteva costringere in ottocenteschi merletti rosa? La forma mito non portava con sé soltanto storie, ma una domanda potente: perché l’uomo racconta storie?

Prima di scriverle, le narrava a voce danzando attorno ai fuochi: tempi in cui la realtà in tutti i suoi aspetti era considerata avere un’anima, dove ogni azione quotidiana era, perciò, ben ponderata per non alterare gli equilibri, accompagnata da una certa dose di paura, perché offendere uno spirito l’avrebbe mutato in mostro. Il mito era un monito. Nella mitologia greca, così come in quella induista, si narra di Dei e Dee che combattono con gli uomini una permalosa guerra di ripicche, trasformandosi in animali o piante per raggirarli, ghermirli, sedurli o semplicemente per parlare con loro –  la natura intesa come tramite dell’anima che in essa alberga. Nella stessa mitologia giudaico-cristiana, Mosè incontra Dio sotto forma di “roveto ardente” che gli parla (Esodo 3:1-4:17). Il narratore è bene attento a mostrare il cespuglio non come Dio in sé, ma come un tramite, una forza in divenire, perché limitare in una forma concreta uno spirito sarebbe stato implicare che potesse essere distrutto, un Dio con la parrucca in fiamme in balia della volontà dell’uomo: un potenziale secchio d’acqua.

Ecco, parafrasando la strega canadese Margaret Atwood nel suo saggio In Other Worlds (Nan A. Talese, 2012) – in cui questa puntata affonda le radici –, un cespuglio parlante in fiamme non era cosa che sarebbe piaciuta a Jane Austen in nessuna delle sue novelle. Al che arriviamo al bandolo della matassa: tutti i miti sono storie ma non tutte le storie sono miti
I miti sono storie che una comunità di persone prende molto sul serio, in cui si sente che si sta narrando qualcosa a proposito di noi stessi, noi sapiens sapiens che ancora ricordiamo di quando danzavamo attorno ai fuochi, che non smettiamo di preoccuparci al pensiero di poter essere i “buoni” o i “cattivi”, di capire da dove il mondo e noi insieme saltammo fuori, il perché le cose cattive capitano ai buoni e quelle buone ai cattivi (stronzi): queste le domande portanti dei miti in ogni civiltà pre-letteraria. Quando inventammo il medium della letteratura, smettemmo di raccontarcele attorno al fuoco e facemmo una copia scritta.

Questo, però, non fu un mero switch di cultura materiale: il mito smetteva di essere parte integrante della vita delle comunità, della sua coscienza, e diventava simbolo, allegoria. Il mito si staccava dalla realtà, ma come esseri “narratori” non avremmo potuto che continuare a mitizzarla in altri modi per poterci aggrappare ad essa con più forza.

Le domande primigenie erano, ormai, nel flusso della letteratura e, che alla povera Jane Austen piacesse o meno, non potevano tardare a riaffiorare dalle tenebre dei tempi. La realtà non bastava più a se stessa per spiegare se stessa. C’era, dunque, un pattern di continuità tra il cespuglio parlante, il power-hero Beowulf, i canoni epici e classici riconosciuti come pilastri della storia della letteratura, e le pericolose inclinazioni nel reale del romanzo tardo-vittoriano che sfociò nella letteratura fantastica e, poi, in quella “di genere” trattata come trash? Sì, il canone letterario e il gusto del tempo erano uno scoglio non da poco. Il problema era incarnato in due tipologie ben precise di personaggi, due visioni del mondo radicalmente diverse: round characters vs. flat characters.
I primi erano quelli propri della novella, personaggi profondi, psicologicamente coerenti, con la storia attorno a loro orchestrata apposta per estrapolare le innumerevoli sfumature dell’animo umano nella tortura della vita di tutti i giorni; i secondi erano i Beowful, che, come in un videogioco picchia-duro a scorrimento, andavano avanti a obliterare avversari sino al mostro di fine livello e il salvataggio della vergine in pericolo. 

Nella novella realista, tutto ciò che alludeva all’ignoto, al non-controllabile, al fantastico, al rocambolesco, se era ammesso nel narrato, lo era tramite brecce, sogni, allucinazioni, viaggi (Gulliver), o dentro le chiacchiere dei personaggi sempre ben seduti a prendere il tè. Quando queste istanze fantastiche iniziarono a compenetrare la forma della novella, intravedendo pericolosi rigurgiti di Romanticismo, la reazione modernista fu un incontrollabile tic al sopracciglio. Non che nessuno negasse la libertà di usare espedienti fantastici, ma questi non dovevano diventare preponderanti o avrebbero disturbato il filo conduttore della travagliata storia d’amore tra Marianne e Willoughby. Il gusto modernista – della cui spocchia tutto questo discorso è figlio – derivò nella pratica di spedire tutti i Renzo e Lucia con le orecchie a punta o le tutine alla Star Trek nella sputacchiera della “genre fiction”, tramutati in flat characters per la sola colpa di aver optato per una curiosa scelta di guardaroba e a prescindere dalla qualità – per quanto eccezionale fosse – del narrato.

Nella pancia del drago, fantasy, etimologia
La nostra coscienza letteraria vive nelle derive di questa cacciata dall’Eden, in cui ogni diversa inclinazione delle orecchie di un elfo deve dare vita a un sottogenere di letteratura fantastica. Nella critica anglosassone, quando si parla di origine del genere “fantastico”, fantasy, SF, horror e weird non sono entità divise. Certo, se il nostro eroe incontrerà nel suo cammino dei funghi parlanti, siamo benissimo liberi di inaugurare il mushroomy-fantasy e, se questi viaggiano in un astronave, lo space-mushroomy-fantasy. Si sta parlando, però, sempre della stessa cosa.

La forza delle istanze del mito, la potenza archetipale dell’epica e dell’“hero journey” , era la stessa dell’intrattenimento a bocca aperta attorno ai fuochi primordiali e non poteva a lungo essere costretta nelle anguste finestrelle di evasione all’interno delle novelle realiste. Aveva bisogno di uno spazio proprio, di un mondo, un pianeta, una dimensione a parte dove potersi esprimere; spazi in cui esplorare il noto sino ai suoi limiti e oltre, senza costrizioni, dove il nostro stesso sentirci umani avrebbe potuto essere messo alla prova senza ritegno perché posto di fonte al mostruoso, all’essenza della paura, all’idea della perfezione, alle infinite materializzazioni dei come possiamo immaginare noi stessi, il modo in cui viviamo e sentiamo di vivere, reale nell’essenza proprio perché non più limitato nel vestito. Mimesi: magia.

Il primo che mise la maturità del narrato della novella a servizio del mito in un luogo a esso dedicato fu un professore di filologia, tra una pinta e l’altra di English-ale, seduto al tavolaccio del The Eagle and the Child, al numero 49 di St. Giles, Oxford, Inghilterra. Tolkien, verso la metà del secolo scorso, completava con la consapevolezza del genio nient’altro che ciò che gli uomini avevano iniziato con l’invenzione della letteratura: il mito era rimasto senza realtà, bisognava dargliene un’altra, quale che fosse, per vedere in essa quella perduta. Ecco perché «since his pubblication, most subsequent writers of fantasy are either imitating him or else desperately trying to escape his influence» (Edward James).

Siete ancora qua? E io che pensavo foste già corsi a rileggervi Ragione e sentimento (mi pare di averne intravisto una copia qui da qualche parte, provate laggiù, verso il pancreas). Anyway, c’è una cosa che Tolkien sembrava aver compreso, forse in un momento di terrore: inventando un altro mondo, ci sarebbe stato bisogno di nomi, molti nomi.


Ci ritroviamo on line il 03/04/2013 con la puntata n. 2 della Rubrica Nella pancia del drago: Sono Pdor! Figlio di Kmer! Della tribù degli Star!
Quale accanito lettore fantasy non è stato mai una volta nella vita canzonato in sincero imbarazzo da un non-lettore fantasy per mezzo della citazione da I Corti dei comici Aldo, Giovanni e Giacomo? Il fantasy: troppi nomi. C’è una ragione strutturale per questo “vizio” o è tutto riconducibile ad autorali perversioni in campo genealogico?

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