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Fantasmi del tempo: Weschler, Bernhard, Sarraute

Creato il 14 novembre 2011 da Ghostwriter

Weschler

Com'è risaputo l'idea di Wunderkammer indica l'antenato medievale e infine settecentesco del museo, con la differenza che mancherebbe di ordine e, quindi, di precisi confini razionali che ne fanno un luogo più per appassionati e curiosi che per il grande pubblico che affolla - sempre più velocemente, temo- posti come il Louvre o il Moma di New York. Probabilmente Michel Foucault difenderebbe a spada tratta la Wunderkammer contro il museo, e d'altra parte c'è già uno come Jean Clair a corrodere il vecchio tempio dell'Arte. Meno risaputo è il fatto che una specie di Wunderkammer post-illuminista (post surrealista?) è riuscita a sopravvivere in una città poco promettente a questo proposito come Los Angeles, e che la cura un tipo curioso ed esperto in ogni genere di assurdità di nome Mr. Wilson. La vera storia del suo bizzarro Museum of Jurassic Technology la racconta lo scrittore e studioso Lawrence Weschler in questo rarissimo racconto intitolato Il gabinetto delle meraviglie di Mr Wilson. Sarei tentato di non dire niente sul contenuto del libro, sia per innato "snobismo" (so bene che nessuno ne ha mai sentito parlare tranne alcuni fortunati fulminati sulla via di una bancarella metropolitana), sia perché parlare di formiche canterine del Camerun, centauri seppelliti pacificamente in Grecia e altre giurassiche amenità va oltre le mie capacità descrittive...ma non oltre quelle di Weschler, cultore appassionato di ogni esoterismo culturale e letterario, oltre che scientifico. Il suo libro è disseminato di precise e affascinanti illustrazioni, e non manca un senso storico che si spinge ben oltre il normale per uno scrittore. Il fatto è che lui è un esperto di creative nonfiction, per dirla all'americana, e c'è da sospettare che sia molto più letto in patria che da noi. Del molteplice talento di Weschler parla in modo accattivante anche Gianluigi Recuperati in questo articolo  per la gioia dei viaggiatori del tempo e dello spazio. Consigliato a chi non riesce a togliersi il gusto del bizzarro, e magari del postmoderno raffinato e blasè che guarda ai prodotti "attuali" come ciò che sono: fossili del futuro.

Bernhard

Dalla schizofrenia del collezionista alla paranoia del critico che non riesce a scrivere nemmeno una riga su Mendelssohn Bartholdy. Sarà tutta colpa di sua sorella? Non proprio, perché la scrittura di Thomas Bernhard è calibrata sulla perdita delle certezze e sull'ambiguità del personaggio inattendibile, come sanno bene i suoi affezionati lettori. Raramente lo scrittore austriaco si allontana da quest'impostazione così tipica del suo pessimismo lacustre e delle storie che racconta, scritte spesso sul filo della nevrosi, al limite della digressione e del monologo teatrale. Il protagonista di Cemento è un dilettante della musica, aspirante critico musicale oltre che esteta, che vorrebbe sbarazzarsi di una dipendenza cronica da sua sorella che gli impedisce di concentrarsi sulla stesura di un importante saggio che attende da dieci anni...Lei è la sua esatta antitesi in ogni cosa: lui misantropo, lei socievole anche se per interesse; lui debole e ombroso, lei forte e affermata donna d'affari; lui cerebrale e che non esce mai di casa, lei eterna postulante nei salotti che contano. Ma più si leggono le pagine di questo fluviale romanzo uscito nel 1982 e apparso da noi nel '90 (ed. SE), e più ci si rende conto che l'ambivalenza di Rudolf verso la sorella e il mondo intero ne segna anche il fallimento e l'impossibilità di essere onesti con sé stessi. La verità rimane la permanente oscillazione di ciò che non si lascia risolvere. D'altra parte, direbbe lui, non sarà che la coscienza stessa è un furto? Come sempre, i passi esilaranti rivelano le nostre più scomode verità, per esempio: “La verità è insomma che io amo il mio essere solo, io in fondo non sono abbandonato e non ne soffro neppure, anche se mia sorella cerca continuamente di farmelo credere, io sono felice con la mia solitudine, so i vantaggi che me ne derivano, lo osservo negli altri che non hanno una solitudine del genere, non possono permettersela, la sognano per tutta la vita ma non possono averla”. 

Enfance

Restiamo nel prestigioso catalogo SE e tiriamo fuori questo gioiellino francese che è L'uso della parola di Nathalie Sarraute. Perché muovere qualche passo da queste parti? Perché non capita spesso di leggere una scrittrice come Sarraute, in primo luogo, e poi si tratta di un libro sui generis persino nella sua bibliografia: non un romanzo, nemmeno dei racconti, neppure delle riflessioni nello stile di Voltaire o della più erudita Yourcenar...E allora, che cos'è mai questo libro?  Una raccolta di testi che indagano le vicinanze di certe parole, di alcune espressioni che hanno colpito l'immaginazione dell'autrice de I fiori d'oro e di Infanzia. Per esempio, l'espressione che apre il libro è Ich sterbe. In tedesco, vuol dire “io muoio”. Sembra che queste parole le abbia pronunciate Cechov in punto di morte, ma l'essenziale non è questo: Sarraute crea e costruisce delle narrazioni partendo dai mondi racchiusi in un termine, in una manciata di parole come se seguisse i consigli, al tempo stesso, di Wittgenstein e di Freud: se è vero che i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo, che cosa c'è di più coerente e promettente, al tempo stesso, di scrivere delle “analisi” narrative che ne seguono i tragitti nascosti, le omissioni, le dimenticanze? Particolarmente belli e riusciti alcuni testi, meno altri, ma in ogni caso resta uno splendido congedo dal nouveau roman. Dimenticata, Sarraute, sì. Ma com'è che recita quella frase?“Che cosa dici, tesoro, ma tu non sai quel che dici, non c'è nessun io muoio tra noi, c'è soltanto noi moriamo”.  

Pubblicato da Remy71 


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