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Far East Film Festival 2013

Creato il 07 maggio 2013 da Giorgioplacereani
Eccoci all'annuale reportsul Far East Film Festival di Udine - sempre magnifico, sebbene questo non dovrebbe dirlo uno che ci collabora. Solo che - qui devo permettermi una nota personale - quest'anno a causa di una malattia non sono riuscito a seguire il festival nella sua interezza, e ho potuto vedere in modo abbastanza esaustivo soltanto la selezione giapponese (beh, la migliore). Mettendo insieme le visioni in sala, le visioni precedenti per le selezioni e qualche recupero post-festival, cercherò di tracciare un panorama, ma sarà inevitabilmente più frammentario che negli anni precedenti. Aggiungo che il festival ha pubblicato un bellissimo volume, a cura di Roger Garcia, su King Hu, accompagnato da una mini-retrospettiva, e ha reso omaggio con un film al grande regista filippino Mario O'Hara, recentemente scomparso.
Il Giappone ancora una volta si rivela la miglior cinematografia asiatica. Anche uno dei due capolavori assoluti visti al festival è nipponico (A Story of Yonosuke), mentre l'altro proviene, lieta sorpresa!, dai territori filmici non altrettanto appassionanti della Cina continentale (The Last Supper). Accanto al detto A Story of Yonosukedi Okita Shuichi (vedi scheda sotto),si sono visto altri film eccellenti, come lo sfrenato It's Me, It's Medi Miki Satoshi. Il giovane Hitoshi si appropria dell'identità di un'altra persona per compiere una banale truffa telefonica e questo atto manda la sua, di identità, fuori dai binari del reale quotidiano. Hitoshi comincia a incontra molte altre copie di se stesso, il mondo si “hitoshizza”, ma poi, come in un Highlandermetafisico, i vari Hitoshi si “cancellano” l'un l'altro finché ne resta uno solo - e la riappropriazione di un'identità frazionata si lega a una rinascita morale. Miki Satoshi ci ha abituato a questi film dove la follia cammina a pari passo con un'imperturbabile logica narrativa, ma è anche la sua abilità di regia a rendere It's Me, It's Meun film non solo da vedere ma da studiare. Sullo scambio di identità gioca, in forma realistica, anche Key of Lifedi Uchida Kenji. Un altro giovane squattrinato si scambia i documenti con un tizio dall'aspetto ricco finito in coma per una caduta - senza sapere che costui è un killer professionista. E il killer si risveglia senza memoria e crede di essere il poveraccio... Il nome di Billy Wilder non va speso con facilità, ma questa commedia ha in effetti un certo sapore wilderiano (immaginatevi Tony Curtis e Walter Matthau!).Uno dei migliori film del festival è I Have To Buy New Shoesdi Kitagawa Eriko. Storia di giapponesi a Parigi, è un film intimista, sottilmente malinconico e sorprendentemente piacevole, con interpretazioni notevoli e un montaggio secco e preciso. Dialoghi e scene sono di una naturalezza incantevole - e la Parigi di Kitagawa Eriko è più bella di quella di Woody Allen!Ora dimentichiamo Parigi e spostiamoci nei danchi, anonimi complessi edilizi di case popolari, nati all'inizio del boom economico giapponese e poi - almeno a prestar fede al cinema - decaduti assai. Qui si svolge la vita di Satoru in See You Tomorrow, Everyone di Nakamura Yoshihiro. Fin da bambino Satoru ha preso una decisione (verso metà del film scopriamo perché): non uscire mai dal danchiin cui abita, e dove fa ronde notturne per assicurarsi che tutto sia a posto, mentre però i traslochi fanno calare progressivamente la popolazione. Se prova a uscire dal danchicomincia a iperventilare e deve rinunciare all'impresa. In fondo, Satoru è un hikikomoria livello di quartiere anziché di appartamento. Il film ha un piacevole svolgimento arguto ma non privo di un côtétoccante. Ancora undanchi, ma in chiave horror, in The Complexdi Nakata Hideo, storia di fantasmi ambientata in uno squallido caseggiato. Non sarà bello quanto Ringo DarkWater, i capolavori dell'autore, ma Nakata ha sempre al suo attivo una notevole perizia narrativa, nonché una spietatezza (molto giapponese invero) per cui la conclusione avvicina questo film a Dark Waternella logica di un inevitabile sacrificio. Se non proprio un tristedanchi, un quartiere autosufficiente un po' più elegante fa da sfondo alla vicenda di Maruyama, the Middle Schoolerdel fantasioso regista e sceneggiatore Kudo Kankuro, forse il film più divertente del festival. Basti dire che è un tuffo a capofitto dentro la mentalità preadolescenziale, in base alla quale il giovanissimo Maruyama ha uno scopo nella vita: farsi unafellatioda solo. E questo è il punto saliente di una delirante riflessione sulla sessualità nascente, i rapporti familiari, le figure paterne sostitutive, il culto dei supereroi, e più in generale il tentativo adolescenziale di individuare un ordine nel caos del mondo. Il festival non ha trascurato il genere dei jidaigeki – ifilm storici con samurai e battaglie – con The Floating Castle, diretto dal grande Inudo Isshin (assieme a Higuchi Shinji) con tutto il suo bizzarro senso dell'umorismo e la sua vivezza di sguardo. Si tratta di un film piuttosto spiazzante nel panorama usualmente solenne del genere perché - senza trascurare le scene di combattimento, i dibattiti sull'onore, il doppio gioco e tutti i topoidel caso - si impernia sulla figura di un lord-buffone, Nagachika (Nomura Mansai), che agisce per vie contorte e imprevedibili (la fenomenale scena della danza davanti al nemico). L'ascendenza del film viene direttamente da Kurosawa, come mostra il particolare del rapporto amichevole, in pratica da pari a pari, fra Nagachika e i contadini. Infine, menziono di passaggio il piacevole ma non decisivo Girls for Keepsdi Fukagawa Yoshihiro.
Spostiamoci alla Cina continentale. Purtroppo quest'anno ho perduto la maggior parte dei film; ho potuto vedere l'importantissimo The Last Supperdi Lu Chuan (vedi scheda sotto), ma per esempio, il grande nome di Zhang Yuan segnalava che BeijingFlickersnon era da mancare. Accanto all'inutile An Inaccurate Memoirdi Yang Shupeng, era deludente Million Dollar Crocodiledi Lin Lisheng, un primo esempio cinese di creature movie- sulla carta, perché era ovvio che la censura cinese non ammetterebbe un film in cui una bestia mostruosa fa strage di gente. Così questo film si articola non in termini di dramma sanguinario ma di commedia avventurosa, strano mix di spavento come bluff e buonismo come realtà, con tanto di ragazzino che vorrebbe essere cute. Ilcoccodrillo gigante (femmina) del titolo spaventa molte persone ma in fin dei conti uccide solo una capra - più il cattivo del film (nientemeno che Lam Suet, spiritosissimo). Curiosità: il titolo è perché il coccodrillo si è mangiato una borsa con 100.000 euro, che l'emigrata di ritorno Barbie Hsu era riuscita a risparmiare in otto anni di lavoro in Italia a fare scarpe (sì, bonasera). Molto divertente, in compenso, Lost in Thailand, prima regia dell'attore comico Xu Zheng, che anche lo interpreta coi colleghi Wang Baoqiang e Huang Bo. Si è detto: i cinesi hanno inventato il cinepanettone – e per una volta è vero. Questa avventura di tre cinesi che tirano a fregarsi (o comunque a danneggiarsi per stupidità) in una Thailandia che è la summadi tutti i luoghi comuni turistici sul paese, ci riporta ai tempi migliori di Boldi e de Sica, per di più con una regia più vivace e valori produttivi migliori.
Molti film in costume da Hong Kong. Ronny Yu ha realizzato con Saving General Yanguna delle sue opere migliori (vedi scheda sotto). E anche Ip Man – The Final Fightpotrebbe essere il film migliore (fra quanti ne ho visti: è un autore estremamente prolifico) nella carriera dignitosa ma alquanto diseguale del simpaticissimo Herman Yau. Ennesima variazione sulla biografia di Ip Man, qui nei suoi anni hongkonghesi, interpretato da Anthony Wong, è un film di estrema freschezza, che parla con convinzione e semplicità dell'integrità morale del suo protagonista. Non mancano però le scene di kung fu, molto ben costruite. Particolare gustoso, a un certo punto (in una visualizzazione immaginaria) Yau introduce una vera e propria parodia dello stile tutto CGI dei film di arti marziali moderni più esagerati. E' tanto più delizioso nell'ambito del festival perché sembra una risposta a The Guillotinesdi Andrew Lau - il tipico prodotto alla Andrew Lau minore: molta enfasi che gira un po' a vuoto e un pesante appoggiarsi sulla computer graphics. The Bullet Vanishesdi Lo Chi-leung, con Lau Ching-wan, mette in scena un mysterycon una buona ambientazione d'epoca (primo Novecento), ma si perde per strada. Se parliamo di Hong Kong, infine, non possiamo non menzionare i cortometraggi di autori giovanissimi del benemerito concorso Fresh Wave. Ciascuno di loro mostra un'intelligenza e capacità che da noi non hanno neanche molti registi affermati, figuriamoci i ventenni.Il solo film di Taiwanche ho avuto modo di vedere, Forever Love di Shiao Li-shiou e Kitamura Toyoharu, è molto più gradevole di quanto lasci supporre il banalissimo titolo (pare che il titolo di lavorazione fosse “Hollywood Taiwan”: molto meglio). Questa commedia è un appassionato omaggio all'epoca dei film di serie B in cantonese che venivano prodotti in gran quantità a Taiwan negli anni Cinquanta.
Sia delusioni sia piacevolezze arrivano dalla Corea. Per il primo gruppo, ecco A Werewolf Boydi Jo Sung-hee: Il ragazzo selvaggiodi Truffaut incontra il cinema dei licantropi all'insegna di un iper-romanticismo giovanilista che non si dimentica di Edward Mani di Forbice. Non è memorabile nemmeno The Berlin Filedi Ryoo Seung-wan, il film di apertura, un comune action, meno svelto e piacevole, per esempio, del recente Die Hard – Un buon giorno per moriredi John Moore. Entrambi i film comunque sono stati campioni d'incasso in patria. Molto meglio il folle The Ghost Sweepers(cioè “Gli spazzafantasmi”) di Shin Jung-won. Storia di cinque esorcisti, più una giornalista d'assalto, in lotta contro un potente spirito maligno su un'isola sperduta, è un originale mix di farsesco e (se non proprio horror) avventura fantastica, con passaggi dall'uno all'altro registro talvolta quasi stridenti (ma lo dico in senso positivo). How to Use Guys with Secret Tips di Lee Wong-suk ha addirittura vinto il premio del pubblico. In realtà non è affatto il miglior film del festival; tuttavia è molto arguto. L'uso della computer graphics a manetta - una mania dei coreani - trova la sua giustificazione in un'intelligente formula narrativa che invece di tenere separati i due livelli del film (un corso video su come fregare gli uomini e l'uso che ne fa la protagonista nella sua vita) li mescola e incrocia in un divertente delirio. The Thieves, di Choi Dong-hoon, come molti film coreani è troppo lungo e come tutti i film del regista un po' troppo intricato Tuttavia è molto divertente, ha dell'umorismo, contiene scene d'azione fulminanti - e non dimentichiamo la bellezza di Kim Hye-soo! Non ho visto il film novità proveniente dalla Corea del Nord (ma in coproduzione).
La Thailandiaha contribuito con un film a episodi sull'amore, convincente e piuttosto intenso, Homedi Chookiat Sakveerakul, con un buon film di gangster assai vivace (The Gangsterdi Kongkiat Khomsiri), e con alcuni horror. 9-9-81 è un film a episodi interessante fin dalla concezione: i registi sono molti ma la storia è una. Nel prologo una ragazza vestita da sposa si uccide. I 9 episodi costituiscono una sorta di puzzle che dà la spiegazione di questo e di altri fatti che vediamo in seguito, mentre descrivono la situazione per cui il ghostdella sposa si aggira ancora, ora dolente ora vendicativo. Le diverse sensibilità dei registi (più di nove: alcuni episodi sono co-diretti) realizzano un film molto sfaccettato, sia dal punto di vista del racconto che del linguaggio cinematografico.Long Weekenddi Taveewat Wantha (autore anni fa di una spassosa commedia sugli zombie, SARS Wars) è un horror in senso stretto, e fa anche paura. Deve molto al Sam Raimi de La casa, ma senza il suo umorismo, e sviluppa la sua lezione con intelligenza, adattandola con mano felice alle tradizioni locali. Dall'Indonesia, Upi, sempre una regista interessante, porta Shackled, un thriller dalla atmosfere vagamente alla David Lynch, che però - come dirlo senza spoiler? - è eccessivamente debitore nel dénouementa un famoso film di Scorsese.
Chiudiamo in bellezza con tre urrà per le Filippine. Gli aswang- grosso modo, una via di mezzo locale tra licantropi e vampiri - sono stati il mostro ufficiale del quindicesimo Far East Film, apparendo in due film. Tiktik: The Aswang Chronicles dell'infaticabile Erik Matti è un horror-action ricco di humour e di calore umano, con un'ottima costruzione della situazione: la scena in cui i protagonisti arrivano in un villaggio di aswangsotto mentite spoglie è magistrale. I trucchi sono buoni, specie prima delle trasformazioni finali: il modo animalesco e cauto di muoversi degli aswangquando sono ancora in forma mezzo umana è memorabile. Indovinati certi dettagli, come quando Erik Matti decide di rifare la scena più famosa di Un lupo mannaro americano a Londrasenza CGI (la trasformazione del maialino) - per il puro gusto di farlo, visto che userà la CGI nella scena immediatamente seguente (l'aswangnudo che fa un salto-volo). Anche la fotografia, che corregge al computer i cieli dando loro un valore fiabesco, è da menzionare. Gliaswang ritornanoin The Strangersdi Lawrence Fajardo, un horror minore rispetto all'altro ma comunque mosso e piacevole. La sorpresa (costruita mediante intelligenti allusioni all'inizio) viene sviluppata in modo abile, con false piste, per cui alla fine sorprende effettivamente; la CGI, se non proprio buona, è discreta; e infine, per chi conosce anche appena un poco il cinema filippino, vedere Cherry Pie Picache che improvvisamente si trasforma in un mostro vale da solo il prezzo del biglietto. Il suo ambiguo sorriso prima della trasformazione è una pagina di recitazione indimenticabile!Su una nota più allegra, Chris Martinez ci porta un delizioso musical con I Do Bidoo Bidoo, colorata versione di Romeo e Giulietta fra due famiglie, una ricca e una povera, con stupefacenti interpretazioni (si capisce che la più brava di tutti è la sublime Eugene Domingo). Con la sua prevalenza di duetti e quartetti rispetto alle scene di balletto il film sembra quasi staccarsi dal musical classico all'americana per assumere la forma del film cantato alla Jacques Demy; e Chris Martinez sviluppa al massimo la figura geometrica del rispecchiamento fra i personaggi delle due parti sul piano musicale. E' un vero peccato che non sia piaciuto a tutti gli spettatori. In un mondo perfetto, tutti gli spettatori sarebbero usciti entusiasti dal teatro Giovanni da Udine cantando in coro “I Do Bidoo Bidoo”. Ma che questo non sia un mondo perfetto già lo sospettavamo, vero?

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