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Fare decluttering significa soffrire

Da Gynepraio @valeria_fiore

In vista del trasloco dalla casa vecchia a quella nuova, avevo già smaltito gli oggetti inutilizzabili regalandoli, buttandoli o scambiandoli con generi di prima necessità. Non ci ho guadagnato ma si sarebbe comunque trattato di scatole in più da avvolgere nel pluriball, imballare, trasportare e ridisporre.

Siccome io sono il tipo di persona tronfia e beata che “corro 10 km —-> sono praticamente pronta per la maratona di New York” e “ho buttato via quattro stronzate —-> San Francesco d’Assisi chi?”, mi sono documentata sul minimalismo. Su suggerimento di questa blogger, ho letto da cima a fondo un bellissimo sito che si chiama www.into-mind.com, curato in un inglese cristallino -minimalista?- da una ragazza berlinese.

Dei vari blog in tema “minimal life” è quello che affronta con maggiore dettaglio il decluttering del guardaroba e la sua ricostruzione in chiave minimalista. E’ noto che possiedo una quantità di indumenti non solo superiore rispetto alla media nazionale ma anche assolutamente sproporzionata al calendario gregoriano. Ci sono indumenti che indosso forse una volta l’anno; molti sono stracci comprati in saldo da Zara a 9,99 euro, ma sono mediamente in ottime condizioni perché non li usuro, li lavo poco e al primo accenno di “pallini” o scolorimento li butto. Ho una sarta di fiducia che aggiusta, accorcia, allarga, stringe qualsiasi capo che abbia dei difetti. Tengo con cura anche gli indumenti pass-partout: per dire, uso regolarmente trench, borse, stivali e costumi da bagno comprati tra il 2005 e 2007. Oltretutto, non essendo una vera schiava della muoooooda, raramente compro abiti di tendenza e comunque non nell’ultimo anno in cui la ristrutturazione di casa mi ha costretto ad un spending review radicale. Infine, avendo per ora una cabina armadio e un armadio 4 stagioni a disposizione, nemmeno la questione spazio è così pressante.

decluttering

Vista cabina armadio pre-decluttering

Allora, perché intendo ripulire l’armadio? Perché, da una serie di solitarie dressing-sessions, ho scoperto che nel mio armadio ci sono cose che mi stanno DEMMERDA.

  • capi viola, arancio o giallo (anche se mi piange il cuore perché io la vedo come lei): i tre colori che, in quasi qualsiasi tono della scala Pantone, mi regalano un incarnato da cirrosi epatica.
  • Indumenti loose-fit; forse perché la statistica è con me (diciamo che nella vita sono più le volte in cui sono ingrassata che quelle in cui sono dimagrita), forse perché inconsciamente mi sto preparando ad una maternità plurigemellare, forse perché mi illudo che un indumento borseggiante “segni meno” di uno fasciante? O forse perché sono scema.
  • pezzi brutti comprati in evidente stato d’ebbrezza / acchiappati in qualche swap-party / donati da gente che di me non ha capito granché.

Quindi, un mese fa, ho iniziato l’opera di accantonamento. Non ho seguito alla lettera le regole di decluttering proposte da Into-Mind (=separare gli indumenti in buttare-regalare/vendere-aggiustare-tenere in base a stato di conservazione-utilità-frequenza effettiva d’uso) ma semplicemente ho fatto una shopper IKEA di ciò che non voglio più. Il risultato è stata una caterva di capi praticamente tutti utilizzabili. Stavo decidendo a quale associazione benefica donarli, quando mi è venuta l’idea malsana di attribuire un valore economico a ciascun capo. Insomma, lì c’erano tipo 1.000 euro. Tutto il sangue tirchio, piemontese e contadino che scorre nelle mie vene mi è montato alla testa, mi è salita la pressione, mi sono comparse delle allucinazioni uditive: sentivo i miei golfini dire “Valeria, sii buona, dacci un’altra chance! Lasciaci dimostrare che valiamo qualcosa! Donaci il nostro ultimo quarto d’ora di celebrità!”. Mi facevano l’effetto delle icone dell’Iphone, che quando devi cancellare qualcosa tremano tutte con l’aria di implorarti “no, ti prego, non farlo!”

Allora ho pensato che avrei messo ognuno di quei capi ancora una volta, all’interno di un outfit studiato attentamente, per vedere se riuscivano a convincermi. E’ presto per dire come si concluderà l’operazione perché sono passate solo 3 settimane, ma riporto comunque alcuni commenti a caldo di genitori, amici e colleghi.

  • abitino a vestaglia —->”è normale che dal vestito ti escano le tette?” (collega ufficio commerciale)
  • camicia bianca —->”non è brutta, è che sembri Riccardo Muti” (padre)
  • golf bianco —->”madonna che pallida, va’ a mangiarti una braciola” (collega ufficio acquisti)
  • camicia beige —->”tra te e Michy tutto bene? Pare che hai pianto” (collega della reception)
  • gilet blu —-> “college-college-cococococococcollege” (il fidanzato)

Come avrete capito, ormai è diventata una sfida, una prova di sopportazione, un esperimento estetico-sociologico.

E comunque sì, ho capito, poi li butto.

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Tra Mimosa, Tangerine, Radiant Orchid e altre simili nefandezze, io son 3 anni che sembro itterica

 


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