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"Fare scene" di Domenico Starnone

Creato il 29 novembre 2010 da Sulromanzo

Di Alessandro Puglisi
"Fare scene", l'ultima opera di Domenico Starnone
Fare scene. Una storia di cinema è l'ultima fatica narrativa di Domenico Starnone, sceneggiatore, scrittore e giornalista; autore di numerosi romanzi, tra cui Denti (1994) da cui Gabriele Salvatores ha tratto un lungometraggio, Via Gemito (premio Strega 2001), e Spavento (2009), Starnone nasce in provincia di Napoli nel 1943 ed in tenera età scopre una smisurata passione per il cinema, la quale non lo abbandonerà più e lo condurrà, anni dopo, all'esercizio del difficile mestiere di sceneggiatore.
In quest'ambito, Fare scene può essere considerato il resoconto romanzato di una formazione artistica. Come dice lo stesso Starnone: «Questi e altri appunti – tutto quello che c'è in queste pagine fino alla fine – sono stati buttati giù anni fa e dovevano servirmi per un paio di libri che avevo in mente. I libri poi li ho scritti, ma non sono riuscito a utilizzare tutto il materiale preparatorio.» È proprio dalla natura, a tratti frammentaria, del prodotto, che si può partire.
Il romanzo risulta infatti suddiviso, come un film, in due tempi, separati da un breve intervallo. Tuttavia, in questo caso, ognuna delle tre parti, ciascuno dei tre costituenti sembra fare storia a sé; l'articolazione interna mette in evidenza sostanziali differenze, tanto dal punto di vista formale che da quello contenutistico, tali che Fare scene potrebbe quasi considerarsi tre romanzi in uno, o meglio, per restare nell'ambito semantico più appropriato, tre soggetti in uno. Con tutti i problemi del caso, ovviamente. Sarà dunque opportuno considerare i tre momenti come separati, tanto e tale appare il “distacco” di ciascuno in relazione agli altri. Si va dal primo tempo, partecipata rievocazione delle suggestioni del piccolo Domenico, stese a pennellate ampie da un io narrante stretto fra la messa a fuoco dei familiari e i prodromi dell'amore per il mezzo cinematografico. Da un apparecchio casalingo per la proiezione, comprato dal padre di Domenico, uomo a tratti scostante ma in sostanza buono, si schiude agli occhi del futuro sceneggiatore un mondo nuovo, un inatteso “circo delle meraviglie” nel quale movimenti, espressioni, sguardi, posture diventano un nuovo modo di raccontare e raccontarsi.
L'intervallo è sicuramente, e forse paradossalmente, la parte più riuscita del romanzo: un breve intermezzo che, prendendo le mosse dal tedio insito nella routine della vita di tutti i giorni, si trasforma repentinamente in riflessione non banale sull'ingerenza dei mezzi di comunicazione, sulla comunicazione stessa, nonché sui suoi attori, talvolta buffi pupazzi in preda a un soverchiante dominio dell'immagine.
Nel secondo tempo il bambino è cresciuto, è diventato un narratore, un inventore di storie, un creatore attraverso immagini; l'azione raccontata, in modo peraltro stanco e quasi del tutto privo di mordente, è quella relativa alla travagliata gestazione di una fantomatica pellicola, ispirata ad un fatto realmente accaduto, il suicidio di un operaio; lungometraggio che dovrebbe, almeno nelle buone intenzioni iniziali, mettere in mostra il processo di “perdita della coscienza di classe”. Il narratore, assoldato per scrivere la sceneggiatura del film in collaborazione con l'eccentrico regista, tale Raggalli, attraversa le varie fasi di realizzazione dello script come in una sempre più veloce discesa all'inferno.
Né romanzo di formazione, né saggio, né biografia, né satira sul mondo cinematografico, Fare scene finisce per non assumere nessun carattere in particolare, sospeso in un limbo che lo condanna a orbitare tra i libri che potevano “dare” molto, e invece non danno quasi nulla.

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