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Fernand Léger | LA VISIONE DELLA CITTA’ CONTEMPORANEA

Creato il 24 giugno 2014 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

fernand_legérVenezia, Museo Correr, 8 Febbraio – 2 Giugno 2014

di Massimiliano Sardina

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Gli anni tra il 1910 e il 1930 sono per definizione gli anni della sperimentazione e della trasformazione – attraversati da una molteplicità di implicazioni e deflorati dalla bestialità del primo conflitto bellico – anni veloci, frenetici, voraci, incredibilmente creativi: un laboratorio a cielo aperto. L’esposizione, come è denunciato nel titolo, non è una retrospettiva sul corpus pittorico legeriano, ma focalizza un preciso frangente temporale, quel ventennio cruciale dove protagonista (nella ricerca di Léger come in quella di molti altri come Delaunay, Kupka, Gris, Gleizes, Duchamp…) è la città in divenire, fucina cubo-futurista, costruttivista e neoplasticista, luogo del presente proiettato nel futuro. La pittura di Léger ci restituisce fumi e profumi della città nuova, quell’inquieta Paris di inizio secolo (metropoli in fieri) viepiù ridisegnata dal rigore razionale dell’industria del progresso, ma per molti versi ancora intrecciata alle curve morbide e femminee della Belle Èpoque.

La mostra, organizzata dalla Fondazione Musei Civici di Venezia e dal Philadelphia Museum of Art, è stata curata da Anna Vallye con la direzione scientifica di Gabriella Belli e Timothy Rub (e con la collaborazione di Carlos Basualdo). Gli spazi espositivi sono quelli infelici del Museo Correr, ci si arriva sudati e col fiatone, dopo rampe e rampe di scale e interminabili corridoi, ma pazienza. L’allestimento, curato da Daniela Ferretti e Francesca Boni, si compone di un centinaio di opere, tra tele, manifesti, studi preparatori, modellini e documenti fotografici e audiovisivi. L’itinerario espositivo si articola in cinque parti: La metropoli prima della Grande Guerra; Il pittore della città; La pubblicità; Lo spettacolo; Lo spazio. Al secondo piano del Museo, in abbinamento a Léger / La visione della città contemporanea, è visibile la mostra L’immagine della città europea, curata da Cesare De Seta (un viaggio nell’urbanistica europea dal Rinascimento all’Illuminismo).

Fernand Léger si trasferisce a Parigi nel 1900. Figlio di un mercante di bestiame, fino all’età di diciannove anni resta nella natia Argentan (nella Francia del nord), studia in collegio e lavora presso uno studio di architettura. Anche a Parigi trova impiego nello studio di un architetto e, respinto dall’Accademia di Belle Arti, si iscrive a dei corsi privati per perfezionarsi nel disegno e nella pittura. Apre il suo primo studio nel 1904 e di lì in avanti si concentra interamente sulla sua personale ricerca pittorica. Assorbe la lezione di Cézanne, fa proprie le scomposizioni e le ricomposizioni di Picasso, Gris e Braque (anche Picasso, come Léger, si trovava a Parigi nel 1900), e non nasconde la fascinazione per il primitivismo di Rousseau Il Doganiere. Sottoposto a continue sollecitazioni grafico-pittoriche, dall’astrattismo geometrico puro alle soluzioni della nuova figurazione, Léger non tarda a maturare un personalissimo metro stilistico che fin da subito si impone come una mediazione tra rappresentazione realistica e sintesi cromo-lineare. Nel 1910 viene notato da Kahnweiler (produttore artistico dei cubisti), che tre anni dopo lo lega sotto contratto. Sono gli anni delle frequentazioni con Picabia, Kupka, Villon, Delaunay…, stimoli e confronti che poi confluiranno nel gruppo “Sezione aurea” (un gruppo di artisti in aperto contrasto con le soluzioni del nuovo realismo cubista, difensori della pittura geometrica pura). Sempre nel 1910 dipinge Nudi nella foresta, cezanniana all’ennesima potenza, strutturazione pura, trattazione di soggetti e oggetti con la medesima materia pittorica.

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Così Apollinaire descrisse l’opera: <<I boscaioli portano le tracce dei colpi inferti agli alberi dalla loro scure. Tutto il colore è imbevuto di quella luce verdastra e profonda che scende dal fogliame.>> La ricerca dell’intima struttura geometrica delle forme della realtà si traduce in una pittura “tubista”, tubolare, meccanomorfa. Nel 1911 l’opera viene esposta al Salone degli Indipendenti, sala 41 (accanto alle opere dei colleghi cubisti Delaunay, Gleizes, Metzinger e Le Fauconnier). In Nudi nella foresta Léger getta i semi della sua produzione futura, anche se è ancora lontano da quella sintesi plastico-volumetrica che maturerà solo all’indomani del primo dopoguerra. Seguono “quattro anni senza colori”, così Léger definì l’uniforme piatto grigiore della prima guerra mondiale; tuttavia, poco dopo la chiamata, per questioni legate alla salute il pittore riuscì ad essere congedato. La sua ricerca si indirizza sempre più prepotentemente sull’oggetto, detentore di leggi plastiche ed estetiche, ordigno di misteriose e primordiali energie implose. Guarda al soggetto con sospetto, lo tiene alla larga (come facevano i futuristi), lo esclude, lo decentra o lo incorpora circonfondendolo nei volumi plastici così che a malapena lo si riesce a distinguere; è l’oggetto, idolo muto e impenetrabile, ad attirare la sua attenzione, l’oggetto-macchina, l’oggetto-motore. Alla poetica decadente (simbolista, crepuscolare, espressionista, ottocentesca) del soggetto Léger oppone quella propulsiva e costruttiva dell’oggetto industriale e tecnologico, protesi dell’uomo contemporaneo. L’artista recupererà la figura moltissimi anni dopo, ma in questa fase cubo-futurista non c’è spazio che per i contrasti di geometrie pure. Ne scaturisce una pittura viva, vivace, maschile, corroborata dai contrasti cromatici, una pittura capace di restituire la complessità del pensiero attraverso forme semplici, semplificate, sintetizzate. Dietro ogni opera decine di studi preparatori, di schemi, calcoli, appunti, ripensamenti, a testimonianza di una ricerca attiva, vigile, onesta, talvolta problematica. Nel 1919 Léger dipinge La ville (La città), opera manifesto della pittura incentrata sulla rappresentazione della città contemporanea. Focus dell’esposizione veneziana, La città è la summa delle precedenti esperienze di Léger in seno alle direzioni indicate da Cézanne e dalle Avanguardie d’inizio secolo. Colori netti, pieni, accesi, delimitati da contorni altrettanto decisi; volumi isolati e insieme compartecipi gli uni con gli altri di una composizione comune. Léger si fa testimone di una realtà urbana dinamica e meccanica, animata da un’energia interna.

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Tutta la pittura di Léger negli anni Venti riflette sull’uomo in rapporto alla macchina e sulla macchina in rapporto all’uomo. Decisivo, nel 1920, l’incontro con l’architetto Le Corbusier, che lo introduce nella cerchia dei pittori dell’Astrattismo geometrico (un’ampia sezione della mostra è dedicata al lungo e fertile rapporto di collaborazione tra l’architetto e il pittore). Nel 1922 progetta le scenografie e i costumi per il Balletto svedese. Mutazione, movimento, ingranaggio, ritmo, transitorietà, passaggio, velocità, intermittenza… tutti elementi che Léger travaserà anche nel suo film Ballett Mécanique (1924), trasposizione cinematografica della sua ricerca pittorica di quegli anni; nel balletto meccanico legeriano troviamo condensati l’animato e l’inanimato, senza trama, in un’unica soluzione di continuità: per effetto di un montaggio isterico e reiterato anche l’immobile genera l’illusione della mobilità. Più che un film deve considerarsi un’opera multimediale in chiave cubo-futurista (alla proiezione, infatti, era abbinata una performance e un’esecuzione musicale con strumenti automatizzati). Risale al 1924 anche il film dada Entr’acte di René Clair. Sia Ballet Mécanique che Entr’acte sono interamente visionabili su appositi monitor nel percorso della mostra. Il nonsense, la frenesia, le geometrie partorite dall’industria, le immagini caleidoscopiche, le luci elettriche, l’ascesa delle nuove tecnologie… ogni movimento della danza meccanica è generato dal motore roboante della ville contemporaine. Del 1924 è anche Paesaggio animato, che lo ritrae (con Venezia sullo sfondo) accanto al mercante d’arte Leon Rosemberg. È l’unica concessione che gli organizzatori hanno voluto riservare al Léger squisitamente “figurativo”: qui compaiono i cittadini della ville contemporaine (anche se la Venezia d’allora aveva ben poco di contemporaneo), vestiti con gli abiti della città, coronati da cappelli (così come gli edifici sono coronati dai tetti), trattati con la stessa materia pittorica del contesto che li ospita. Scale, ringhiere, finestre, persino la prua di una barca (non una gondola): l’artista e il mercante d’arte sono tubolari – linee verticali, orizzontali e oblique – parte integrante dell’imago urbis, indissociabile. Alle rotondità tubolari dei visi e degli arti si accompagnano quelle altrettanto cilindriche delle balaustre: una serena omogeneità è come stesa, spalmata sulla superficie.

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Con l’opera La città Léger inaugura la stagione più sperimentale, cubo-futurista, della sua pittura. <<Non che Léger voglia semplicemente copiare le macchine – scrive Emilio Tadini – simbolo e strumento dei tempi nuovi. Vuole piuttosto rappresentare il mondo, le cose e gli uomini, in una meccanica generale di consistenze e di forze. (…) Léger arriva a rappresentare anche un’idea, un sentimento della vita contemporanea: in cui ogni cosa è ribaltata furiosamente fuori dai suoi limiti individuali, in un affollarsi movimentato di incontri, di rapporti attivi.>> In composizioni come L’impalcatura, La bandiera, Il tipografo, L’uomo con il bastone, Uomini in città, Dischi nella città, Il grande rimorchiatore, Elemento meccanico… Léger applica quella che lui stesso definisce una “legge costruttiva” tesa a evidenziare tutta l’energia implicita nella materia, quella stasi solo apparente che traveste la realtà visibile. Le forme di Léger sono tanto solide quanto libere. La celebrazione della macchina non va letta né nell’ottica meramente futurista né in quella picabiana o dadaista (si pensi alle macchine inutili). Léger si fa testimone oggettivo del suo presente – un presente febbricitante dove uomo e macchina convivono e interagiscono senza prevaricazioni – e lo restituisce attraverso una pittura priva di sentimentalismi e di svenevolezze, una pittura logica, razionale, sintetica, ma per nulla intellettualistica; al centro della sua ricerca, sintetizza bene Tadini, c’è <<una rappresentazione dei rapporti fra l’uomo e la natura, fra l’uomo e gli strumenti di cui si serve per edificare il suo modo di essere, di liberarsi, partecipando all’oggettività del mondo.>> La visione della città contemporanea – intesa quale luogo archetipo del movimento e della trasformazione – informa tutte le indagini avanguardiste (dall’Espressionismo al Futurismo, dal Cubismo all’Astrattismo, dal Dadaismo al Neoplasticismo e al Costruttivismo), ma nella Ville di Léger sembra trovare una sorta di manifesto.

Léger, forse più efficacemente di altri, fissa la contemporaneità per quello che è, senza orpelli o pleonasmi, raccontandola attraverso i suoi stessi elementi. La città legeriana non è più la vecchia signora di fine Ottocento, con le sue gerarchie sociali e le sue divisioni classiste, ma un superorganismo che brulica di contaminazioni e rimescolamenti. Nella sua pittura Léger convoglia i nuovi linguaggi della comunicazione pubblicitaria, le grafiche commerciali, le riproduzioni e, più in generale, tutta quella nuova iconografia standardizzata meccanicamente e spalmata dai mass media sul tessuto urbano (cartelloni, manifesti, giornali…). Anna Vallye, curatrice della mostra, definisce La città un “dipinto non dipinto”, proprio in virtù di questa commistione con le cosiddette “arti minori”. Léger la definirà, molto significativamente, un’opera “murale”, rimarcandone così la collocazione esterna. Ormai prossima a festeggiare il secolo La città resta tuttora una configurazione più che mai attuale della contemporaneità. Olio su tela, tre metri in larghezza e due metri e trenta in altezza, di immediato impatto, anche se la qualità pittorica, diciamolo, non è delle migliori. Geometrie morbide, sporcate qua e là da una pennellata visibile, pittorica, non dissimulata. Alle campiture piatte si alternano i volumi individuati attraverso gradazioni chiaroscurali. Léger compila sommariamente le singole forme, non sta lì a rifinirle con eccessiva precisione, le perimetra con cromie contrastanti, le giustappone, le sovrappone, le ordina e le confonde. Una scala al centro della composizione invita l’osservatore a entrare, ma un istante dopo lo inghiotte, lo ingloba nell’intersezione dei piani, lo assorbe nella trama del tessuto urbano. Balaustre, finestre, tetti, facciate, pali, tralicci, insegne, lacerti di manifesti e segnaletiche, tracciati, incroci, crocicchi, sbuffi di fumo e fughe improvvise. Non ci sono alberi, giardini, nemmeno il posticcio di un’aiuola: nella città del presente-futuro l’artificiale si sostituisce al naturale, in un sobrio carnevale di metalli. C’è fermento e c’è smarrimento, c’è routine e c’è imprevedibilità, c’è interazione e c’è alienazione: nella città tutto vive, convive e sopravvive, tutto va e viene, tutto è libero e tutto è prigioniero. La città si profila al contempo quale fondale teatrale (il teatro, altra grande passione di Léger, che negli anni successivi si dedicherà, oltre che ai celebri manifesti pubblicitari, anche ad allestimenti teatrali e a progetti di costumi). Léger non è un pittore da cavalletto. La sua pittura, antesignana di certa street-art murale, esce dagli atelier e dalle gallerie e letteralmente si getta fuori, si estroflette, si espone assorbendo quanto di già esposto la città può offrire.

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Nel 1919, finita la guerra, Parigi si reimbelletta: nei boulevard si riaccendono le luci, si riaffiggono locandine e manifesti, si ricostruisce il nuovo sulle macerie del vecchio; la ville, rianimata e ripopolata, coinvolge gli artisti, i grafici, i pubblicitari (e, più in generale, tutti gli operatori creativi) nelle dinamiche del riassetto e della ridefinizione. Ditte e aziende affidano la loro immagine agli artisti più innovativi, e di qui la publicité comincia a imporsi come forma d’arte autonoma. Nei nuovi manifesti si fa strada un linguaggio più immediato, ben percepibile anche a distanza e dunque capace di distinguersi e di emergere dal trambusto visivo quotidiano. Geometrie, ritmi, campiture cromatiche nette: il manifesto degli anni Venti affina quelle strategie attrattive già sperimentate precedentemente, cattura l’attenzione con maggiore efficacia, quasi chiama l’osservatore, lo pone in un’ottica d’allarme. Léger diventa un maestro in questa nuova arte della comunicazione, e verrà preso a modello da molti grafici pubblicitari. Manifesti, allestimenti teatrali, cinema, pittura… Léger consegna l’arte alla vita, la fa circolare per le strade, fra le automobili che sfrecciano, la gente, le luci delle insegne, i fumi delle fabbriche, il tran tran. Libera il colore puro, lo affranca definitivamente dalla rappresentazione tradizionale e lo applica nel cuore pulsante della città contemporanea. Dei nuovi potenziali legami tra arte e spazialità esterna discute anche con l’amico Le Corbusier e con Theo van Doesburg. L’utopia legeriana è quella di un colore libero e rigeneratore che evade dalla tela e si diffonde per tutta la città, un colore demiurgo, essenziale e puro.

Massimiliano Sardina

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