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Festival

Creato il 14 febbraio 2011 da Pupidizuccaro

di Dino Buzzati

Festival
Il direttore mi chiamò: “Me lo faresti un elzeviro sul festival di Sanremo?”.

Canzoni e festival non sono il mio mestiere, ma dissi subito di sì. Forse per imprudenza o presunzione. Il fatto è che il festival di Sanremo mi aveva sempre affascinato. Non che io sia un patito di canzoni e canterini, ma alla televisione, anche quando le canzoni erano brutte, e i cantanti mediocri, Sanremo sprigionava una irresistibile carica di vita.
Era come se sul palcoscenico, fra luci lustrini scalinate e pedane da trionfo, fontane luminose e vari orpelli di gusto spaventoso, si concentrasse la tensione di milioni e milioni di anime, attese, nostalgie, sogni, amare solitudini, disperazioni forse, di uomini e donne sparsi nei punti remoti del Paese che in quelle sere da Sanremo aspettavano, chissà, la voce che li avrebbe consolati.
Come se a Sanremo, ogni anno, potesse succedere un piccolo miracolo e all’improvviso, nella sparuta cittadina segnata appena sulla carta geografica, al bar dell’angolo, nel salone dell’oratorio, nel polveroso salotto del vecchio avvocato, nello scantinato del circolo dove in quelle sere non si odono i toc delle palle da biliardo e le stecche se ne stanno sulla rastrelliera abbandonate, come se all’improvviso, di lassù, a quella gente complessivamente umile e infelice potesse giungere la parola nuova, ma sì, diciamolo pure, il messaggio di patetica illusione che avrebbe riscaldato un po’ la vita.

E allora, proprio per la compatta e travolgente concentrazione di questi flussi vitali, il palcoscenico del festival, magari senza suo merito, li riverberava attraverso le onde dell’etere, e i volti le parole le canzoni le luci i gesti i sorrisi risultavano, sui lontani video, carichi di significati meravigliosi e arcani, quasi che a tutti, anche a chi non pagava una lira, anche a chi dalla strada, attraverso il vetro appannato, sbirciava lo schermo appostato nel fondo del caffè, fosse concessa una porzione, in quelle sere, della grande e sciocca favola di oggi, e Modugno, Mina, Rascel, Dallara e gli altri sommi entrassero nei ritrovi più umili dicendo: a voi decidere della nostra sorte: chi di noi è il più bravo?
E così, ridicolo o no, si crea il mito, nel quale, credono milioni e milioni di italiani, anche coloro che in pubblico lo negano. Così il festival, per quanto lo spossa deplorare, diventa un fatto nazionale, una delle punte massime in cui si esprime ogni anno lo spirito genuino del Paese. Io quindi pensavo: se alla televisione il festival, a me che di canzoni generalmente me ne infischio e fra i miei dischi, in mezzo ai molti Perez Prado, posseggo soltanto un’antologia a 33 giri di Modugno e due di Mina a 45, se a me il festival, visto alla tivì, fa un’impressione così potente e straordinaria, chissà come dev’essere sul posto, chissà che furore di pubblico, rarità di gente, atmosfera allucinata. Se tanto mi dà tanto, assistere di persona alle tre serate dovrà essere una esperienza formidabile, non so come assitere alla cento metri delle Olimpiadi, a una prima mondiale di Stravinski, al crollo del monte Cervino.

Eccomi qui, dunque, seduto nella prima fila della galleria (devo dire che noi giornalisti, nonostante il sussiego della manifestazione, siamo accolti con estrema cortesia) mentre in un impeccabile smoking Mike Bongiorno si avvicina all’asta del microfono per pronunciare le prime sua fatidiche parole.
Intimidito dalla maestà del festival, ho messo anch’io lo smoking ma, guardandomi intorno, constato di essermi dimostrato provinciale. Sparati e farfalline nere sono esigua minoranza e i miei colleghi poi, specialmente i vecchi lupi di festival grondanti autorità, ostentano, allo scopo di snobbare, giacche grigie o addirittura sport. In quanto alle donne, immaginavo che ci fosse un delirio di toilettes di grandi firme, pettinature di Carita, collane e diademi da maharani. No. Il vestiario è piuttosto dimesso e i dècolletès degni di questo nome si contano sulle punte delle dita. Mi trovo in un teatro alquanto nudo e privo di significati architettonici, sul palcoscenico una pista sinusoidale discendente, il podio per le presentatrici e a destra la pedana dei cantanti, tre cespugli di garofani disposti a porcospino: il pavimento è di linoleum verde-azzurro. Il tutto ricorda le fiere campionarie degli anni trenta, gli stands delle grandi paste dentifrice. E sul candido scenario, per tutta la serata, palpiteranno cangianti giochi di colore, verdi viola e gialli, di effetto decisamente atroce.

Vedo, dall’alto, nelle favolose file delle poltrone pagate settantamila lire (che poltrone non sono bensì sedie da cinema di terza visione) un fitto alternarsi di teste maschili calve, o semicalve, o bianche, o bionde zazzere di donne, quel falso e terribile biondo che denota lotta disperata con l’età (chissà poi perché tante signore abbienti, quando la giovinezza le abbandona, ricorrono a espedienti, come i capelli ossigenati, che le invecchiano due volte di più, e dimenticano che una donna può essere bella anche a settant’anni purché sia coraggiosa abbastanza da non dissimularli).
A questa platea anziana – l’età media, a occhio e croce, deve essere il mezzo secolo – è affidato in grande parte il compito di giudicare le canzoni. Ma chi le dovrà cantare? Dei capitani d’industria forse? Delle nonnine? Dei venerandi notai? Dei generali in pensione? No. Le canzoni sono destinate alla camerierina del terzo piano, al garzone del lattaio, alla passeggiatrice del parco, alla ninfetta di Torvajanica, ai fusti della balera rionale, alle mondine della Bassa Pavese, tutte creature nel fiore dell’età. E allora perché la scelta viene fatta dalle generazioni precedenti? Tutto sta, è chiaro, nel fatto che settantamila lire da spendere per tre serate di canzoni ce le hanno soltanto gli uomini arrivati, che hanno fatto ormai la loro strada; e non ce le hanno i ragazzetti. E questo è un fenomeno fatale. Ciò non toglie che sia una cosa assurda. Ma anche nella galleria, occupata quasi tutta da giornalisti e invitati, sono rari i giovani. E questo senso di complessivo vecchiume – a cui, intendiamoci, anch’io contribuisco perché da un pezzo non sono più un ragazzetto – mi impressiona fin dai primi minuti. E mi perseguiterà più o meno durante le tre serate, nonostante i momenti di fuoco e di passione quando Milva farà sprofondare la sua voce in torride e sensuali caverne o Claudio Villa sparerà le sue bordate da 381, nonostante le frenesie a rotazione delle claques rivali in gara di isterismi.

Festival
È molto meglio questo, insomma, dei festival visti alla televisione? Anzi, non riconosco più, sul posto, quel fenomeno di ingenua, stupida forse, ma strapotente vita, l’illusione, l’esaltazione lirica. Manca il senso di gioco, di sospensione, di scoperta, di rivelazione, che in anni passati usciva, innegabilmente, dai convessi vetri dei televisori domestici. Mi accorsi di una cosa: di là dalle infatuazioni del momento, dalla convulsa lotta elettorale, dai complicatissimi intrallazzi per ipotecare la vittoria, da tutto ciò che era febbre del traguardo, avvertivo intorno a me un’aria risaputa e stanca: dal complessivo allestimento scenico, di gusto 1930, alle facce degli ascoltatori, dalle lampadine riunite a ciuffo ai fiori che sembravano finti. E non parliamo poi delle canzoni (ma questo è un compito che non spetta a me). Perfino i divi, gli idoli, i celebri cantanti, mi parvero qui ricoperti da un velo di polvere. Ai bar, ebbi la fortuna di vedere la Milva da qui a lì: un clamoroso vestito rosso, di struttura a piramide, la faceva assomigliare a una elaborata dea dell’età alessandrina, e la gente si voltava sbalordita. E sarà una bellezza popolaresca fin che volete con quella faccia rincagnata e proterva, ma confesso che la trovo molto in gamba. Eppure anche Milva, quella sera dimostrava quarant’anni come minimo. E incontrai Tony Renis il ragazzetto per antonomasia, il pivello, il campione della nouvelle vague. Eppure al festival pure lui pareva appannato da una specie di ragnatela opaca. Ahimè, l’importanza invecchia in modo tremendo. Nell’attimo stesso che uno diventa celebre la giovinezza va a farsi benedire. E questo probabilmente è giusto perché tutto, nella vita, va pagato fino all’ultimo centesimo. Ed era vecchio Joe Sentieri, vecchiettina la Cocky Mazzetti, non parliamo poi di Flo Sandon’s, di Sergio Bruni e di Aurelio Fierro, i quali parevano dei patriarchi addirittura.

Sapete in quelle tre sere, al casinò di Sanremo, dove, al paragone, ho ritrovato un po’ di giovinezza? Ai tavoli da gioco. Non già i giocatori, s’intende, i quali erano tutti decrepiti in partenza anche se sul passaporto denunciavano trent’anni. Erano i croupiers giovani e vivi: soavi e diabolici folletti vestiti di nero che con matematici giochi di mano smistavano al millimetro la fortuna rastrellando i nostri sudati risparmi. Spietate guardie di un Molok insaziabile, sia pure, carnefici sorridenti della bendata dea sorte, però autentici, pronti alla chiamata come i veri soldati, professionali al cento per cento, terribilmente efficienti. E a questo punto capii di avere sbagliato strada. La bellezza, l’incantesimo, il patos, la poesia del festival, la quale indubbiamente esiste, non dovevo cercarla qui, in questa strana città tanto ridente, quieta, verde, ospitale, ricca e riposante, da assomigliare a un fatato cimitero in anteprima, ma dovevo andarla a cercare nella cantoniera della Val Padana assediata dalle nebbie, nei due locali più servizi alla periferia di Ancona dove si è appena sistemata la coppia di sposini, nel salone del diruto castello siciliano dove il settuagenario duca paralitico chiede al video un supplemento di vita continentale, nella casa parrocchiale della Gallura, il cui prevosto indulge, tre sere all’anno, alle peccaminose propensioni delle sue pecorelle. Laggiù sì, il festival può diventare una cosa grande.

Peccato che i terrazzani dell’Emilia, che i camionisti dell’autostrada del Sole, che i mandriani della Maiella, che i pescatori dello Stretto, non leggano l’elzeviro del “Corriere”. Mi dispiace. Perché ai milioni di anime semplici che sparse per l’Italia hanno seguito con trasporto il tredicesimo festival della canzone, vorrei poter dire: la vera festa è stata la vostra, la vera illusione è stata la vostra, quel po’ di poesia è stata tutta per voi. Non rimpiangete di non essere stati presenti a Sanremo. Da galantuomo ve lo garantisco, non ne valeva la pena.

Festival

Questo articolo di Dino Buzzati sul Festival di Sanremo è apparso sul Corriere della Sera il 9 febbraio 1963. Tratto dalla preziosa e ormai introvabile raccolta fuori catalogo “Cronache terrestri”.

(Marco Bisanti)


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