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Fiamme e strada – Percorrendo la via del fuoco con Vassago

Creato il 13 febbraio 2013 da Wsf

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La scoperta del fuoco avvenne molto tempo addietro e per quanto fosse stata una scoperta fatale nonché pericolosa, l’uomo ne capì subito il potenziale, e, mentre con lo sguardo si perdeva nelle ardenti lingue che salivano al cielo … capì con il tempo come riuscire ad unire quel cuore incandescente all’Arte del divenire Divino (la Mantica o più comunemente Divinazione), dando così vita alla piromanzia. Con questa forma magica di visione, attraverso una trance indotta era possibile vedere tra le ardenti  e giocose fiamme scaturite dai legni, immagini oltre il tempo e lo spazio.
Ma l’arte del fuoco non si fermò a questo. L’uomo doveva imparare a domare (o ad essere domato da) il fuoco, questo pericoloso amico. I giocolieri e i fuochisti si sono dilettati con quest’arte della strada che lascia stupiti tutt’oggi i bambini, e ancor di più gli adulti, che soventemente si domandano come certi giochi siano possibili.
Tra il suono apotropaico di una fiammata e quello di un legno scoppiettante, una salamandra racchiusa nel corpo di un uomo (Emiliano Fantechi), illumina le  nostre pagine con il nome di Vassago.

Nato nel 1979, verso i 18 anni ho avuto le prime esperienze con i giochi di fuoco e il contact juggling, dopo qualche anno senza più praticarli nel 2010 ho iniziato a fare spettacoli di strada e ad organizzare eventi a tema con la Dreamachine , incontrando in seguito il nome di Vassago con cui porto avanti la parte performativa del mio lavoro e iniziando nel 2012 ad arricchire questo percorso con esperienze anche in teatro e eventi di diverso tipo.

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Cosa si prova ad essere in continuo contatto con il fuoco?

Tutti lo siamo. Ognuno di noi usa fornelli, accendini, prende la luce del Sole, accende stufe. E’ il tipo di consapevolezza e di intenzione con cui questo rapporto quotidiano viene vissuto (anche grazie al caso) a fare a volte la differenza. Prendo il tuo accenno alla piromanzia come sponda per cercare di rispondere da un punto di vista più strettamente “personale”:  pur non intendendo parlare di trance vera e propria, certamente il livello  di attenzione e lo stato di coscienza che il rapporto con il fuoco nel momento performativo mi permette di vivere sono diversi da quelli con cui si vivono i  momenti  “ordinari” della vita   (anche a livello della mera fisiologia, come il cambiamento del ritmo respiratorio, che si fa più profondo e regolare, il movimento del corpo che si armonizza con quello dello strumento). Mi è capitato di ricevere complimenti per come “ballavo” durante lo spettacolo, che in effetti è coreografato su basi musicali, e realizzare in quel momento esatto che in effetti era una frase che poteva avere senso se riferita al momento della performance, ma  io non so assolutamente ballare… tra l’altro l’idea di farlo mi imbarazza terribilmente. Il rapporto di prossimità fisica con il fuoco durante lo spettacolo  muove come una forma di stupore che si rinnova ad ogni accensione delle fiamme pilota. La similitudine più immediata per descrivere quello che è il senso delle immagini che evoca in me il  momento dello spettacolo  è forse quella del respiro, che affiora nel suono ritmato della fiamma mentre gira intorno vorticosamente con il bastone o con i ventagli, o quando soffio il fuoco dalla bocca, spingendolo mentre il ritorno di fiamma lo tiene così vicino alle labbra da trasformare quello che sembra un moto esclusivamente estroverso in un gioco di tensioni  (e pressioni) che richiama per me molto più l’idea di un bacio che di uno sputo…più che uno sputafuoco sono un baciafuoco quindi … questo mi riporta a  una osservazione che molti fanno riguardo al rapporto che presumono io abbia con questo elemento: quello di dominazione. Niente di più lontano da quello che sento. In quel momento io del fuoco mi vivo casomai come custode, non potrei avere  mai né l’intenzione né la pretesa di dominare il fuoco,  e credo che una simile pretesa mi farebbe perdere  la parte migliore, quella in cui ti puoi abbandonare alla potenza dell’elemento che tu stesso stai alimentando. Credo che comunque le sensazioni e le riflessioni  per me più significative in questo percorso siano legate all’uso della sfera accesa: praticando contact juggling con una sfera infuocata mi trovo in una condizione abbastanza singolare per un “fuokoliere”, nel senso che generalmente si usano attrezzi che vengono utilizzati tenendo la pelle a contatto con una parte non incendiata degli stessi. Con la sfera la fiamma aderisce alla pelle per l’intera durata del numero, ed è “lei” a decidere in un certo senso quanto e  come devo muovermi per riuscire a non ustionarmi, questo mi ha fatto a lungo riflettere sul rapporto tra potere   e potenza.  Il fuoco è potenza che muove e trasforma, non  qualcosa su cui esercitare un potere, una dominazione. C’è un legame tra il mio vissuto personale con il fuoco e l’idea di potenza che si lega all’immagine della Sakti, questo mi ha fornito una chiave di lettura e di espressione che sto cercando di mettere in pratica a livello performativo, sto preparando infatti uno spettacolo che attraverso l’uso delle sfere trasparenti  da contact e del fuoco si rifaccia al rapporto di complementarità e compenetrazione tra Shiva e Sakti, la trasparenza immobile e la dinamica densità della potenza del fuoco si susseguono fino a una sintesi in cui la sfera unifica nella forma ciò che si dà come opposto nella sostanza, per permettere di scorgere così, tra la trama e l’ordito della rappresentazione,  una comune essenza.

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Come definiresti il fuoco?

Qualcosa che puoi  tenere vicino e accarezzare ma non stringere, di cui amare e rispettare la potenza, così da poterne vivere la tremenda meraviglia. E’ l’unico elemento da cui il nostro istinto animale ci tiene lontani, e l’unico che non può esistere solo per sé stesso. La sua “identità”  è quindi posteriore e conseguenziale alla sua relazione con ciò che è  “altro da sé”, e credo che questo ne delinei  la sostanziale continua mutevolezza, che pure non ne intacca, paradossalmente,  l’identità essenziale.

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Com’è nato quest’amore?

All’inizio nei rave party.  Verso i 18 anni (ormai lontani…) frequentavo le feste che si tenevano in ex fabbriche o luoghi all’aperto, e lì, con l’odore del gasolio dei gruppi elettrogeni  che  permeava l’aria insieme a quello della pelle e del sudore, iniziai a utilizzare le catene insieme a un amico. L’associazione tra quell’odore e quello del petrolio delle catene dava a tutta la situazione una sorta di organicità in cui il filo rosso che la attraversava era l’odore del combustibile mentre mi muovevo nella musica illuminata d’arancio e fumo.
Poi per qualche anno non sono più stato nell’ambiente delle feste e le occasioni di “giocare col fuoco”   si erano molto diradate, e comunque non erano legate a una particolare disciplina nell’allenamento, che ha iniziato a darsi lentamente in seguito, quando insieme a un gruppo di altre persone ho iniziato a fare spettacoli in strada. Essendo un gruppo di cinque- sei persone, ci eravamo divisi in un certo senso gli strumenti, e io al tempo praticavo solo body rolling con una singola sfera, ed ero l’unico  a non utilizzare  un attrezzo infuocato, così decisi di provare a incendiare una sfera di legno (che proprio sferica non era, tra l’altro)… ricordo che i miei compagni erano un po’ preoccupati, sia per gli esiti che avrebbe potuto avere la prova, sia dello stato di salute  mentale che poteva sottendere una sì malsana idea. L’accesi: l’accesi e scoppiò l’amore. Non feci nemmeno delle prove, fu durante uno spettacolo, io stesso non avevo idea di come sarebbe potuta andare, oltre che le mani rischiai veramente la faccia…credo sia stato quello il momento in cui ho deciso di impegnarmi in questo percorso in maniera diversa. Da allora ho studiato  le sfere da contact e la tecnica per soffiare il fuoco, e in seguito ho iniziato a esplorare altri attrezzi  come il contact staff (bastone) e  i ventagli, con allenamenti quasi quotidiani, cercando di trasformare una passione in un “mestiere”.

10 - Andrea Exostyle

È un percorso che dà soddisfazione in Italia?

Nel piccolo microcosmo del cerchio, tantissimo. Anche nel far “cappello” in strada senza che ci siano eventi in corso per cui sia stato ingaggiato.  La reazione delle persone di fronte a uno spettacolo di fuoco è talvolta sorprendente, come se per alcuni fosse un momento personale raro, in cui lasciarsi andare alla fascinazione e all’entusiasmo che di solito vengono relegati negli anni dell’infanzia. E’ un punto di vista sul mondo circostante, quello del performer di strada, eccezionale, che mi sta dando veramente molto, aprendomi nuovi spunti di riflessione e modalità di rapporto con le persone presenti assolutamente inedite, soprattutto per una persona come me, che al di fuori del mio cerchio creato dalle fiamme pilota sono abbastanza timido e quindi in un certo senso poco incline a fare nuove conoscenze.
Anche nei locali o in situazioni comunque  diverse dalla strada ho finora avuto molte belle esperienze, c’è molta curiosità nei confronti delle discipline che comprendono il fuoco al loro interno, poi il fatto di unire al fuoco il contact è abbastanza inusuale per quello che ho visto finora; tra l’altro, molti non sanno nemmeno dell’esistenza della disciplina del contact e questo in un certo senso talvolta aiuta l’effetto dello spettacolo . Ho avuto modo anche di collaborare con artisti di diverso tipo, dalle performances realizzate con musica improvvisata dal vivo, a collaborazioni con due spettacoli teatrali, all’esperienza di fare da perfomer-tela vivente in un contest di body painting. Sul piano dell’arricchimento personale a livello di esperienze e conoscenze è stata una crescita continua.
A livello economico la questione è un tantino più spinosa, ma credo che questo dipenda anche dal fatto che in Italia non c’è una coscienza diffusa di quello che è il lavoro del performer (e poi tutti lo sanno….”c’è la crisi”….), magari qualcuno pensa che lo si faccia solo per divertimento o per arrotondare, anche perché molti non hanno la benché minima idea del lavoro che c’è dietro a uno spettacolo di 15-20 minuti,  per cui molti organizzatori di eventi spesso restano quasi interdetti nel momento in cui realizzano che per fare uno spettacolo magari a centinaia di chilometri, un performer  chieda di esser pagato quasi quanto un idraulico… C’è da dire che comunque ho spesso trovato organizzatori ben coscienti della natura di questo lavoro e talvolta anche competenti… poi in questi frangenti ogni esperienza e ogni storia personale fanno testo solo per sé…

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C’è stata un’esperienza più intensa rispetto ad altre?

Molte. Anche perché mi sono spesso trovato in situazioni tra loro profondamente diverse, credo che citarne due molto lontane tra loro possa dare la cifra della ricchezza di esperienze che finora questo lavoro mi ha permesso di fare…. Al “Triskell Celtic Festival” di Trieste  ho avuto la possibilità di esibirmi per dieci giorni consecutivi di fronte a un numero di persone decisamente più grande di quelle che di solito vanno a comporre il cerchio in strada, bella soddisfazione e attimi di squisito terrore prima di iniziare…  poi la stessa durata della festa ha permesso di creare un ambiente molto amichevole e collaborativo, soprattutto tra coloro che partecipavano all’intera manifestazione, e di stringere amicizie, conoscenze e sodalizi  basati su affinità e percorsi comuni che difficilmente si danno in contesti diversi da quello di un festival tematico.
Un’altra delle esperienze che ricordo con maggior piacere è stata quella del falò di Filattiera: un piccolo borgo della Lunigiana in cui gli abitanti del paese tengono viva una tradizione che essi stessi dichiarano orgogliosamente essere viva e presente “da sempre”.  Il mio spettacolo seguì di pochi minuti l’accensione del falò, che viene allestito sull’incrocio delle due strade che portano al paese, saranno state presenti non più di quaranta persone, tutti abitanti del paese che partecipavano attivamente alla realizzazione della festa,  per cui non è che si potesse parlare propriamente di “spettatori”,  ma lo spirito unico e la partecipazione che ho trovato in quella situazione quasi familiare, uniti all’accoglienza eccezionale e alla bellezza  e alla vitalità del falò che ardeva alle mie spalle, in un rito che andava  ripetendosi da chissà quante generazioni, hanno reso quella serata semplicemente indimenticabile…

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Come mai hai iniziato ad utilizzare il nome Vassago? E cosa ha significato questo nome per te?

Un nome è una parola. Le parole vengono da “fuori” per come la penso, e diventano qualcosa da esplorare interiorizzandole e di cui costruire il senso man  mano che il loro stesso senso modifica il nostro essere. Il nome mi è stato in un certo senso “cucito addosso” da una cara amica, che trovandolo in un grimorio (ovvero “Le Legioni di Shaytân” di Ottavio Adriano Spinelli) come nome di una delle intelligenze in esso contenute,  mi descrisse brevemente la sua natura.  La definizione di “Salamandra veggente” in esso contenuta fu per me una specie di folgorazione, poiché, se da una parte calzava perfettamente con la sua natura di spirito elementale del fuoco, il suo essere deputato all’apertura del terzo occhio e della seconda vista conteneva ed esprimeva la densità del senso che la sfera trasparente risveglia nell’immaginario, mio personale in primis, e probabilmente anche in quello che possiamo chiamare “inconscio collettivo”. In seguito ebbi modo di leggere il libro e di lì è iniziata l’esplorazione delle sfumature e delle suggestioni che emergevano dalle pagine. Mi ha permesso di costruire una chiave di lettura anche di molti avvenimenti della mia vita:  il potere che conferisce come intelligenza e figura archetipica, può rendere ipocrite e false le persone che non siano in grado di utilizzare le possibilità che si aprono, per ognuno probabilmente in maniera più o meno cosciente,  a un certo contatto con alcune parti del Sé: leggendo queste parole è stato come se il senso di molte cose accadute intorno alla mia esperienza di vita si fosse rischiarato, per similitudini, coincidenze (coincidense) e sincronie con l’interpretazione che diamo agli eventi della vita in un certo momento. Ho appeso il suo sigillo nel mio camper e da allora ci accompagniamo.  La fortuna di aver conosciuto il suo autore è stata una molla ulteriore verso un certo tipo di  ricerca che pur non passando da quella che è la ritualistica formalizzata e codificata,  va sempre di più a dissolvere i confini tra quello che è un atto performativo e un atto “rituale” (ammesso che questi confini siano mai esistiti, per inciso),  portando sempre una chiara e nuova visione di “sé” e di “me”, in quello che è sia uno spettacolo per un pubblico, sia una discesa nell’esplorazione dei propri modi interiori, ogni volta nuova e sorprendente, carica di emozioni che in altro modo e senza questo percorso alle spalle non credo sarebbe stata esperibile.

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Cosa ha significato l’esperienza di contact per te?

“- come fai a tenerla in equilibrio sulla testa?
- Tenere cosa sulla testa?
- La sfera….
- Quale sfera????
-Come quale???HAI UNA SFERA SULLA TESTA!
- HO UNA SFERA SULLA TESTA???? Ma mi prendi in giro?”

Da lì si apre il gioco dialettico (e dialogico)…

Il mio percorso formativo da studente di antropologia mi ha fornito utili strumenti di riflessione: quando si rapportano con il “me-performer in strada”, a causa del particolare effetto che ho scoperto suscitare il contact juggling  nelle persone,  le persone, tramite il tipo di domande che fanno su ciò che vedono, svelano le proprie categorie mentali, in questo paese per la maggior parte  frutto dell’aristotelismo scolastico … con tutte le questioni che ne derivano a livello di definizione dell’identità, del concetto di vero/falso eccetera … mi riferisco soprattutto alla questione della sostanza come categoria “prima”, per cui la domanda più frequente è “Di cosa è fatta la sfera?” cui segue generalmente la risposta “Ammesso che te lo dica, rovinandoti quasi tutto il divertimento… quanto ne sapresti di più su cosa sta succedendo? Si può fare anche con un arancia”. Anche le ipotesi sui principi fisici che potrebbero stare alla base del movimento della sfera rivelano molto delle strutture mentali degli spettatori, anche se la domanda che amo di più è circa se la sfera sia “vera”… nessuno sa cosa stiano chiedendo, alla fine… e solo alla risposta “certo che no, è un cubo in incognito” di solito si realizza l’assurdità della domanda… in questo i bambini sono ovviamente più elastici e fantasiosi, oltre che disposti a portare avanti i loro sillogismi fino alla reductio ad absurdum: un classico è l’ipotesi “filo teso che tiene su la sfera” cui segue una meticolosa ricerca da parte mia dei possibili appigli dell’ipotetico filo, soprattutto in spazi aperti per cui inizio a parlare di capsule spaziali invisibili che calano un filo da pesca e mi seguono in giro per il paese… molto importante è anche negare l’evidenza per far entrare le persone nel regno della possibilità-paradosso…

All”inizio era una dinamica che adoperavo solo coi bambini, poi sono passato a farlo con gli ubriachi, infine ho scoperto che anche gli adulti sobri entrano ugualmente nel gioco con facilità…
Parallelo a quello dell’esperienza in strada, il lavoro sulla tecnica è quello di un percorso da autodidatta, con tutti i problemi tipici che si porta dietro, non ultima la lentezza di alcuni progressi, ma anche con le aperture al possibile e la libertà di esplorazione cui tale condizione ti  “ costringe”. Il contact è una disciplina molto particolare,  nel tipo di concentrazione e di tecnica manuale che richiede e  nelle possibilità espressive che offre. Tempo sospeso tra  baricentri  variabili  e tiepida tensione lungo la schiena, tra la sfera in headstall e il centro dell’equilibrio ,  accorda movimento e respiro in una corrente di silenziosa risacca tra spirali di luce rifratta e l’immobilità circolare dei passaggi di palmrolling (cioé intende il momento in cui la sfera resta come immobile nell’aria con il palmo della mano che le  rotea sotto e le sue variabili ottenute modificando il baricentro della  rotazione della sfera e della mano).   

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Da dove ha origine il simbolo della doppia spirale ascendente?

È nato per la prima volta “per caso” a giugno dopo aver sbagliato a copiarne a memoria un altro, che aveva solo due delle tre “mandorle”…dopo la prima volta che ho usato il simbolo “sbagliato” l’immagine mi è rimasta impressa profondamente, inserendosi nel concept dello spettacolo, nei suoi richiami al movimento spiraliforme delle sfere…lo trovo di una forma estremamente vitale nella sua semplicità, richiama la kundalini e i suoi legami con Shiva-Shakti, che mi riportano al fuoco, poi ho trovato il suo apparire nel gioco delle coincidenze estremamente significativo, anche per lo sviluppo dello spettacolo su cui sto lavorando adesso.

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Cos’è una Dreamachine e in che modo ne fai uso?

E’ un oggetto inventato da Brion Gysin in collaborazione con il  matematico Ian Sommerville negli anni 50. Si tratta di un cilindro posto su un giradischi con una luce al centro. Il giradischi è forato in modo che i lampi di luce colpiscano le palpebre chiuse di chi ci si mette seduto davanti, con una frequenza particolare, stimolando la corteccia cerebrale attraverso il nervo ottico,  producendo una sorta di “visione interna”. È un’esperienza psichedelica nel senso stretto del termine, quindi…  Diventa un’esperienza di esplorazione del proprio sé attraverso vie inedite per la maggior parte delle persone, che si trovano coinvolte nella possibilità di poter  giocare con la dissoluzione o almeno ridiscussione di molte questioni che vengono spesso date per scontate, come i confini esistenti  tra vedere, ricordare, immaginare, sognare.  Io ne ho ricostruita una (è molto semplice da realizzare, chiunque sia curioso la costruisca!) coi progetti che si trovano liberamente sul web e sto cercando di far conoscere sia lei che  il suo creatore, in un evento con musica, immagini, informazioni che si definisce un plagiomaggio a lui, a Burroughs e a Genesis-P- Orridge, che erano a vario titolo coinvolti nella storia.

Il principio è semplice ed era noto già in antichità, utilizzato per esperire stati di coscienza diversi da quello ordinario, usando il sole come fonte luminosa e lo sfarfallio della luce che passava attraverso le dita delle mani agitate davanti agli occhi.

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Come descriveresti l’esperienza della Dreamachine?

Un sogno sorriso, un sogno libero dal desiderio.

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Spunti di lettura sulla dreamachine:
1. Korzybski: Science and sanity (reperibile sul web alla pagina della “General Semantic”) per I presupposti epistemologici del lavoro di Gysin e Burroughs
2. Gysin e W. Burroughs: The Third mind

Link al progetto in scala per la costruzione della Dreamachine:
http://www.noah.org/science/dreamachine/

Video di un’esperienza con la Dreamachine

Per contatti
Mail: [email protected]
Tel. 3467494339
Pagina FB: http://www.facebook.com/23vassago23
Blog: http://vassago.webnode.it/

Indice Fotografico: [01] Foto di Roberto Fasoli con elaborazione di Cesare Minucci [2] Nikolaj Kovačič [3] ericafortunato [4] Luca Valente [5] ExoStyle [6] Luca Valente [7] Danilo Albani [8] Foto di Danilo Albani elaborazione grafica di Ornella Stabile [9] Luca Valente [10] Luca Valente [11] Exostyle [12] non pervenuto [13] Danilo Albani


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