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Filosofia. O del come prepararsi all’esperienza…. filosofica.

Creato il 10 giugno 2012 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Filosofia. O del come prepararsi all’esperienza…. filosofica.di Massimo Pittau

 

INDICE 

1. Preparazione ed esperienza filosofica.

2. “Copia della copia della copia”.

3. “Filosofi” e “professori di filosofia”.

4. La filosofia e le altre scienze o discipline.

5. Parole, parole, soltanto parole.

6. Lo psittacismo

7. La terminologia filosofica.

8. Il linguaggio come intendere e fraintendere.

9. Il filosofare come etimologizzare.

10. Gli «Analisti del linguaggio».

11. La “filosofia tedesca”.

12. Emanuele Kant.

13. La filosofia nei Licei.

14. Il positivismo vecchio e nuovo e la filosofia.

15. “Discipline scientifiche” e “discipline umanistiche”.

16. La problematica filosofica.

17. La definizione della filosofia.

18. La filosofia e le religioni.

19. La filosofia e le filosofie.

20. La filosofia e le varie scienze o discipline.

21. La filosofia e la “fine ultima”.

 

Preparazione ed esperienza filosofica

1. Sono pienamente consapevole del fatto che a me, autore del presente saggio, si impone innanzi tutto l’obbligo di indicare e spiegare ai lettori quale sia la mia effettiva esperienza specifica e inoltre la mia autorevolezza nell’affrontare argomenti filosofici abbastanza difficili e impegnativi. Ed allora, per soddisfare questo mio obbligo, mi sembra opportuno esporre quale sia stato il mio approccio effettivo, sin dalla mia adolescenza, sia alla linguistica sia alla filosofia.

Io ho fatto gli studi medi frequentando quello che allora si chiamava “Ginnasio-Liceo Classico”, il quale era costituito da 5 anni del Ginnasio e da 3 del Liceo. Nelle classi IIIª, IVª e Vª del Ginnasio ebbi modo di manifestare vivo interesse e notevole capacità nello studio delle lingue, che allora erano per me l’italiano, il francese, il latino e il greco. In più avevo come idioma nativo la lingua sarda, nella sua forma più arcaica e genuina, quella cosiddetta “nuorese” o “centrale”. Nonostante questa mia propensione naturale per le lingue, dato che avevo manifestato pure un notevole interesse nativo per la meccanica e per la tecnica, avevo già pensato e deciso di proseguire gli studi universitari per conseguire la laurea in Ingegneria.

Il mio primo incontro con la filosofia, con la «Storia della filosofia», avvenne in Iª Liceo e ne rimasi subito colpito e perfino affascinato, tanto che quasi subito abbandonai il mio primo progetto di conseguire la laurea in Ingegneria e maturai quello di conseguire la laurea in Filosofia.

Dato che anche nei tre anni del Liceo, accanto alla mia nuova passione per la filosofia, continuava il mio interesse per le lingue (allora appunto cominciai a studiare e imparare da me pure lo spagnolo e il tedesco), maturai il progetto di conseguire sia la laurea in Lettere classiche (latino e greco), sia la laurea in Filosofia.

Per la preferenza che sentivo per la filosofia avrei dovuto conseguire prima questa relativa laurea e dopo quella in lettere, invece invertii l’ordine, dato che, del tutto sprovvisto come ero di mezzi economici di famiglia, sapevo che avrei avuto più numerose opportunità di fare l’insegnante, pubblico o privato, di lettere che non quello di filosofia. E infatti mi iscrissi all’Università di Torino per la laurea in Lettere classiche, che conseguii – durante l’ultima guerra – dopo i regolari quattro anni, e dopo mi iscrissi all’Università di Cagliari per la laurea in Filosofia, che conseguii – con una abbreviazione di corso – dopo altri due anni.

Conseguite le due lauree, ebbi modo di insegnare per 25 anni nelle scuole secondarie, prima come professore supplente e dopo come professore di ruolo, prima come insegnante di materie letterarie e dopo come insegnante di «Filosofia e Pedagogia» nell’Istituto Magistrale oppure di «Storia e Filosofia» nei Licei, classico o scientifico.

Io appunto sono stato per una quindicina d’anni professore di filosofia nei Licei statali e ho svolto questa mansione con grande impegno e perfino con passione. Ed ho ottenuto numerose soddisfazioni per il grande seguito e pure per la notevole stima che godevo da parte di miei alunni. Con me studiavano tutti gli allievi e parecchio ed erano pochissimi quelli che rimandavo a settembre per riparare in qualcuna delle discipline da me insegnate.

 

“Copia della copia della copia”

2. Durante il mio insegnamento liceale in poco tempo ebbi modo di constatare che in filosofia i miei alunni si basavano fondamentalmente sugli appunti che prendevano durante le mie lezioni (però io non li dettavo affatto). Nonostante che – per i motivi che dirò fra poco – io non avessi una particolare stima dei manuali scolastici di «Storia della filosofia» che allora circolavano nei Licei italiani, e nonostante che dunque non avessi alcun particolare interesse per essi, a un certo punto decisi di metterne su uno mio, spinto appunto dalla citata esperienza dei miei alunni. La mia «Storia della filosofia» per i Licei, pubblicata da un editore di Pisa, uscì prima in un solo ampio volume, ma esaurita immediatamente la Iª edizione, uscì in IIª edizione in tre volumi, ciascuno dei quali andò esaurito in poco tempo e in numerose ristampe, in genere tutte rivedute e migliorate.

L’opera – pure pubblicata da un editore che non aveva alcun apparato di propaganda e di diffusione e che piuttosto che “editore” era un semplice “stampatore»”, sia pure molto bravo – fu adottata in molti Licei di tutta Italia, apprezzata molto per la sua chiarezza e la sua precisione. Proprio su questo punto mi piace precisare che io avevo tenuto presente una «Storia della filosofia» che allora andava per la maggiore ed era diffusissima nei Licei, quella di E. Paolo Lamanna – professore ordinario appunto di «Storia della filosofia» nella Facoltà di Lettere di Firenze –; l’avevo tenuta ben presente però per comporre la mia in maniera del tutto differente e addirittura opposta: il Lamanna aveva – a mio parere – il grave difetto di esporre in maniera difficile le idee più semplici dei vari filosofi, mentre io mi impegnai ad esporre nella maniera più semplice le idee più difficili dei filosofi stessi.

La chiarezza e la precisione che era da tutti riconosciuta in quella mia «Storia della filosofia», venivano da questi cinque differenti circostanze: 1) Avendo insegnato materie letterarie anche nella scuola media inferiore, mi ero abituato a parlare e a farmi comprendere anche da ragazzi di 11-13 anni. 2) Per i miei vivi interessi per lo studio delle lingue, antiche e moderne, avevo acquistato una buona padronanza sia del lessico che della grammatica della lingua italiana. 3) Avendo sempre scritto, fin dagli inizi dell’Università, in periodici e in giornali, avevo necessariamente acquisito la capacità di essere sintetico e chiaro. 4) Nella mia opera, o nel testo o nelle note, ho avuto modo di presentare la “spiegazione etimologica” di quasi tutta la terminologia filosofica citata e adoperata. 5) Lo stesso vivo interesse che avevo sempre avuto per le lingue, mi aveva pure costretto e aiutato ad avere in testa sempre idee chiare e precise.

A proposito di quest’ultimo fatto è bene ricordare e precisare che idee e parole, pensiero e lingua sono strettamente connessi fra loro in un esatto “circolo virtuoso”, in cui ciascun termine è insieme causa ed effetto: le parole aiutano a chiarire e a precisare le idee e le idee aiutano ad analizzare e a comprendere le parole.

Su questo argomento mi sembra di poter citare due esempi che sono molto illuminanti: la lingua greca antica era molto ricca di vocaboli e di forme grammaticali e dunque era grandemente analitica e questa fu la causa prima per la quale i pensatori greci sono riusciti a produrre un pensiero filosofico insieme vasto e profondo, come effetto; inversamente, il grande pensiero filosofico greco fu anche la causa che ha prodotto come suo effetto un suo strumento molto duttile, perfettamente adatto per tutte le sue esigenze, la ricchissima lingua greca appunto. Un fatto del tutto differente e perfino opposto si constata invece per la lingua dei Romani: la loro lingua latina, molto sintetica e poco duttile, non li aiutò affatto a creare una “filosofia romana” di valenza almeno discreta e, viceversa, la assai debole “filosofia romana” non rese mai molto ricca né duttile la lingua latina.

Debbo anche precisare che la “chiarezza” della mia «Storia della filosofia» come attraeva gli alunni dei Licei – anche a distanza di numerosi decenni incontro ancora intellettuali e professionisti che ricordano con piacere quel mio testo – così spaventava molti professori liceali, dato che praticamente li “disarmava” o li “spiazzava” rispetto ai loro alunni. Spesso infatti gli insegnanti di filosofia dei Licei difendono la loro scarsa preparazione professionale nascondendola dietro un linguaggio intricato, contorto ed ermetico.

Mi è stato pure riferito questo episodio molto curioso: una professoressa di filosofia di un Liceo scientifico criticava il mio testo come “troppo semplice e superficiale” ed invitava i suoi alunni a diffidarne; ma poi questi si accorsero che essa per fare le sue lezioni seguiva proprio il mio testo, punto per punto. Ed ovviamente gli alunni abboccarono: facevano finta di pendere dalle labbra della professoressa, mentre in realtà studiavano direttamente ed esclusivamente dal mio testo.

La mia «Storia della filosofia» per i Licei ebbe due edizioni e numerose ristampe, fino a che, deceduto il mio stampatore-editore, la ditta entrò in crisi e la mia opera non fu più ristampata. E per numerosi anni, fino alla mia ormai avanzata età, ho ricevuto e ricevo tuttora lettere in cui mi si chiede se esista ancora in commercio il mio testo e dove si possa acquistare….

A distanza di quasi mezzo secolo dalla data della prima comparsa della mia opera (anno 1964), con l’esperienza culturale ed umana che mi sono fatto in questo lungo lasso di tempo, che cosa effettivamente io penso di quella mia «Storia della filosofia»? Essa di certo ha un notevole valore sul piano didattico, mentre riconosco senz’altro che ha un piuttosto scarso valore sul piano scientifico.

Ho già accennato al fatto di avere sempre avuto notevole diffidenza rispetto a tutti i manuali di «Storia di filosofia» circolanti nei Licei italiani e adesso ne spiego il motivo: perché ho da subito constatato e compreso che essi sono tutti, dico tutti, “copie delle copie delle copie” delle vere e proprie e scientifiche – ma in verità scarse – opere di storia della filosofia. Ho compreso subito che gli autori dei manuali di «Storia della filosofia» per i Licei non hanno affatto letto direttamente i filosofi che espongono e spiegano, ma hanno letto e espongono solamente ciò che altri studiosi hanno letto e scritto di quei filosofi….

E questo capita anche nei manuali composti da professori ordinari di «Storia della filosofia» delle nostre Università; anzi capita soprattutto in questi manuali, dato che ho pure constatato di persona che molti di questi docenti universitari, arrivati in cattedra come specialisti di un solo filosofo oppure di un solo periodo storico, conoscono l’altra restante storia della filosofia molto meno di bravissimi colleghi dei Licei che ho avuto modo di conoscere e di frequentare. Sì, è proprio vero: ho constatato che molti bravi insegnanti dei Licei conoscono la «storia della filosofia» molto meglio della gran parte dei corrispondenti professori delle Università; anche perché la insegnano tutta, anno per anno, mentre i professori universitari si limitano a fare anno per anno i loro “corsi monografici”, con rari e lievi riferimenti alla restante storia della filosofia.

Constatato questo sconcio dei manuali liceali di «Storia della filosofia» consistenti in “copie delle copie delle copie” delle esatte dottrine dei vari filosofi (con quale fedeltà storiografica è facile immaginare!), ai fini della composizione del mio manuale mi ero impegnato a leggere direttamente almeno vasti brani delle opere dei filosofi studiati ed esposti. In maniera particolare ritengo di avere studiato abbastanza bene Platone ed Aristotele e dopo Seneca, Sant’Agostino, Tommaso d’Aquino e poi Giambattista Vico, Pasquale Galluppi, Benedetto Croce, il movimento del «Neo-positivismo» e quello degli «Analisti del linguaggio». E ciò ho fatto in vista e in conseguenza sia di miei particolari interessi di studio, sia di alcuni corrispondenti testi di lettura per i Licei, che mi furono richiesti da alcuni editori e che circolarono ampiamente nei Licei italiani. Senonché in questo mio lavoro di studio e di approfondimento, la quantità del mio controllo e della mia verifica alla fine non è risultata completa e la conseguenza è che adesso io considero e giudico il mio manuale anch’esso in molte sue parti come una “copia della copia della copia”, e dunque anch’esso di scarsa rilevanza scientifica.

Ed è per questo esatto motivo che, nonostante che io abbia ricevuto numerose sollecitazioni a far ripubblicare il mio manuale, io ho sempre risposto negativamente: perché ero consapevole che l’avrei dovuto revisionare, correggere e completare in molte sue parti.

 

“Filosofi” e “professori di filosofia”

3. Per i miei successivi studi nell’Università io ho avuto modo di conoscere, per averle frequentate, due differenti Facoltà di Lettere e Filosofia, quella di Torino e quella di Cagliari. In seguito, dietro il mio sogno di una cattedra universitaria e costretto a spostarmi anche per effetto delle cattedre di insegnamento nelle scuole secondarie da me conseguite in tempi successivi, prima di lettere e dopo di filosofia, ho avuto modo di conoscere, per averle frequentate a titolo privato, pure le Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze, dell’Università Statale e dell’Università Cattolica di Milano e infine quella dell’Università di Pisa. In quest’ultima ebbi modo di conseguire la libera docenza in Linguistica Sarda e – come si diceva allora – di “professarla” per 10 anni.

Finalmente vinsi proprio la cattedra di Linguistica Sarda nella nuova Facoltà di Magistero e poi di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari, dove insegnai per 25 anni non soltanto la Linguistica Sarda ma anche la Filologia Romanza oppure la Glottologia o infine la Linguistica Generale e dove fui anche preside di Facoltà.

Avendo conosciuto e frequentato un così alto numero di Facoltà di Lettere e Filosofia italiane, ritengo di essere in grado di formulare un giudizio oggettivo e circostanziato anche dei docenti che ho conosciuto e seguito, sia come allievo effettivo, per il conseguimento delle due mie lauree, sia come discente privato per i miei interessi di studio seguiti a titolo personale e che infine ho avuto come colleghi di Facoltà.

In generale dico che questa mia larga e lunga esperienza è stata sostanzialmente positiva rispetto ai professori di lingue e letterature, antiche e moderne, di filologia, di glottologia e di storia, mentre è stata sostanzialmente negativa rispetto ai professori di filosofia. Io non ho avuto l’occasione né la fortuna di aver conosciuto un solo professore di filosofia al quale mi sentirei di attribuire il titolo di “filosofo”, cioè di pensatore che approfondisce e amplifica il sapere filosofico che hanno già conseguito i filosofi a lui precedenti, di pensatore che lascia qualche sua traccia, anche piccola, nella storia della filosofia. Nella totalità dei casi i docenti di filosofia che ho conosciuto si limitavano a ripetere continuamente ed esclusivamente le dottrine e le tesi dei veri “filosofi” o “pensatori” precedenti. Erano dunque solamente ed esclusivamente “professori di filosofia”, ma nient’affatto “filosofi”.

A me sembra di capire che questa situazione molto negativa che ho constatato fra i professori universitari di filosofia dipenda principalmente dalla “elevatezza e difficoltà della filosofia” stessa come disciplina di studio, dal suo costituire l’apice effettivo del sapere umano. Ed è ovvio che chi è più in alto, più difficoltà trova a muoversi e più facilmente si trova nel rischio di sbagliare e di sbagliare più clamorosamente. Almeno nella coscienza del grande pubblico, il fare “stecche” di un cantante lirico è molto più grave del fare “stecche” di un cantante di musica leggera.

 

La filosofia e le altre scienze o discipline

4. Se in linea di fatto io non ho un buon ricordo di tutti i professori di filosofia che ho avuto oppure conosciuto nel mondo universitario, invece ho un buon ricordo di numerosi miei professori di discipline propriamente filologiche e linguistiche e anche di professori di storia antica, medioevale, moderna e contemporanea.

A me sembra certa e chiara la ragione di fondo per la quale è abbastanza frequente il caso di essere bravi linguisti, filologi e storici: per il motivo che questi fondano le loro analisi e le loro argomentazioni sui “fatti”, sui fatti reali e concreti, o constatati direttamente oppure accertati con documenti scritti; invece i professori di filosofia fondano le loro analisi e le loro argomentazioni quasi esclusivamente sulle “parole”. Ecco, i linguisti, i filologi e gli storici sono propriamente “docenti di fatti”, mentre i professori di filosofia sono molto spesso semplici “docenti di parole”.

A questo punto mi sembra necessario fare una importante precisazione di carattere storico-linguistico, la quale è carica di notevoli implicazioni concettuali. È abbastanza noto che, secondo la sua origine greca, cioè secondo la sua “etimologia”, il vocabolo «filosofia» (philosophía) significava «amore di sapienza o del sapere» e come tale essa per tutta l’antichità classica e anche per quella medioevale significava e significò “ogni e qualsiasi studio e approfondimento del sapere”. “Filosofo” in realtà significava “sapiente” e tale veniva considerato il matematico, l’astronomo, il geografo, il fisico, il biologo, il botanico, ecc. La filosofia pertanto veniva concepita come un grande albero, i cui singoli rami erano costituiti dalle singole scienze o discipline. 

È ancora bene precisare che nella filosofia così concepita e trattata dagli antichi autori greco-latini e dopo da quelli medioevali, non è sempre facile distinguere e separare il “sapere filosofico” da una parte e il “sapere scientifico” dall’altra. E questo rende spesso molto impreciso e molto ambiguo il riferimento che noi moderni facciamo alla “filosofia greco-romana” e pure alla “filosofia medioevale”.

Tutto questo perdurò in Europa fino all’inizio dell’epoca moderna, suppergiù fino al XVII e XVIII secolo dopo Cristo, cioè fino alle soglie dell’Illuminismo, quando le singole scienze, la matematica, l’astronomia, la geografia, la fisica, la biologia, la botanica, ecc., si svilupparono tanto che nessun “filosofo” fu più in grado di coltivarle tutte insieme e contemporaneamente e pertanto esse finirono per separarsi tutte dal loro unico albero principale ed iniziale.

Questa distinzione e separazione delle varie “scienze” da un lato e della “filosofia” dall’altro come costituì la fortuna delle varie scienze, così – a mio giudizio – pregiudicò gravemente la sorte della “filosofia”.

In ogni modo io ho l’obbligo e pure l’interesse a precisare che in questo mio saggio io tratto e intendo trattare solamente della “filosofia” intesa alla maniera “moderna”, cioè come si è configurata in Europa dall’Illuminismo in poi e come viene insegnata nelle Università e in alcune scuole superiori del mondo occidentale.

 

Parole, parole, soltanto parole

5. Fatta questa precisazione e riprendendo il mio discorso sui “professori di filosofia” che ho avuto modo di conoscere nella mia molto lunga carriera di docente dei Licei e dell’Università, dico di essere del tutto convinto che il “cancro mortale” dei professori di filosofia consista nel loro prevalente limitarsi alla sola analisi e argomentazione intorno alle “parole”, nel caratterizzarsi del loro parlare e ragionare in maniera prevalente se non esclusiva come “verbalismoe nient’altro.

Questo fatto in verità è stato indicato e denunziato parecchie volte in differenti periodi storici da parte di pensatori o filosofi autentici ed accorti.

La prima denunzia e condanna del “verbalismo” dei filosofi si è avuta già in Grecia, nel periodo dell’esplodere del pensiero greco. La dura e continua polemica condotta da Socrate e da Platone contro i Sofisti aveva in effetti questo esatto significato: Socrate e Platone combattevano i Sofisti in quanto li constatavano nient’altro che “parolai”, nient’altro che spacciatori di parole vuote, e dunque come “venditori di fumo”.

In seguito questa denunzia e condanna si è avuta con notevole consapevolezza critica nell’Università medioevale, quando si discusse ampiamente e a lungo il cosiddetto “problema degli universali”. Che consisteva in questo: i cosiddetti “universali” (universalia), quali «uomo», «animale», «cane», «albero», «casa», ecc., sono res, cioè autentiche “realtà” oppure sono soltanto ed esclusivamente nomina, cioè “nomi” o “parole”?

È cosa nota che una parte dei filosofi medioevali sostenne per l’appunto la tesi che gli universalia non sono altro che nomina, non sono altro che parole, semplici flatus vocis o «soffi di voce”, ai quali nulla corrisponde nella realtà effettiva. Nella realtà effettiva non esiste l’«uomo», ma esistono solamente i singoli individui umani chiamati Pietro, Giacomo, Giovanni, ecc.; non esiste il «cane», ma esistono solamente i singoli cani, chiamati Argo, Diana, Fido, ecc.; non esiste l’«animale», ma esistono solamente i singoli cavalli o buoi o uccelli o pesci. ecc.

Ecco, il dramma di moltissimi “professori di filosofia” consiste nel fatto che essi si illudono di discutere e argomentare su fatti reali, mentre in effetti trattano e discettano quasi esclusivamente sui nomina, sulle parole. Ed a questi nomina o parole da loro adoperate quasi sempre non corrisponde nulla nella realtà, né in quella concreta né in quella mentale. 

A questi nomina o parole di tanti professori di filosofia molto spesso non corrispondono altrettanti fatti, ma molto spesso non corrispondono neppure altrettante idee. Certamente le parole in genere sono cariche di altrettante idee, ma molto spesso sono anche del tutto vuote di idee. Si tratta di parole del tutto prive di senso o di significato, riducendosi a essere appunto parole e soltanto parole, soltanto flatus vocis.

Lo ripeto e insisto: il dramma del parlare e dell’argomentare di tanti professori di filosofia consiste nel fatto che la filosofia finisce nelle loro mani con l’essere nient’altro che “lo sfoggio di parole vuote”, “il trionfo di parole buttate al vento”, il “dominio di vocaboli privi di senso o di significato”.

Perfino il senso comune degli uomini normali ha colto e bollato questo modo di essere e di operare di molti professori di filosofia, quando ha creato e messo in circolazione il vocabolo carico di una connotazione negativa e anche ironica di “filosofastro”.

D’altronde si può anche facilmente constatare che in genere i professori di filosofia non sono granché stimati neppure dai loro colleghi docenti di altre discipline, fra i quali è corrente la definizione dei “filosofi”, come di «Quelli che se la pensano addosso». Pure nelle ormai numerose trasmissioni di dibattiti che dominano nelle varie televisioni, fanno i protagonisti i politici, i giuristi e gli economisti, mentre quasi mai sono presenti anche i professori di filosofia; e questo avviene perché, nelle rarissime volte in cui essi sono presenti, molto spesso fanno sfoggio solamente di un linguaggio intricato, farraginoso e soprattutto ermetico.

A proposito di questo ermetismo linguistico di tanti “professori di filosofia”, mi sono da tempo convinto che esso è molto spesso nient’altro che una “cortina fumogena” che mira e serve a nascondere nient’altro che sostanziale vuotaggine di pensiero. (Ed ho pure sempre constatato che, quando qualche professore chiedeva a noi allievi «Forse non sono stato chiaro?», immancabilmente la maggioranza di questi invece rispondeva “Ma sì!”).

 

Lo psittacismo

6. D’altra parte si deve anche concedere e riconoscere che talvolta pure rari “professori di filosofia” argomentano bene, cioè ragionano in maniera “logicamente corretta” intorno ai loro oggetti di analisi e di studio. Ma altre sono le “argomentazioni logiche e corrette” di rari professori di filosofia, altri sono gli oggetti del loro argomentare, che molto spesso sono del tutto fasulli e del tutto privi di consistenza reale. Si può condurre un discorso del tutto corretto dal punto di vista logico perfino parlando del “nulla”, ma il “nulla” non esiste affatto (non lo si identifichi con lo “spazio vuoto”, che è pur sempre qualcosa di reale!).

E il fatto che si possa “parlare correttamente” anche dell’essere e del non-essere, del dover essere, dell’infinito, dell’eternità e perfino del “nulla”, ci dice e ci spiega la estrema pericolosità che spesso il “linguaggio” assume tra le mani dell’uomo. Il “linguaggio” è uno strumento importantissimo che serve all’uomo per fissare, chiarire, approfondire le sue idee e poi per trasmetterle agli altri, ma è anche uno strumento pericolosissimo che gli scombussola le “idee” e spesso gli rovina perfino la vita.

Il pensatore inglese Francesco Bacone, trattando degli idola fori – quelli cioè che indicano i “pregiudizi del linguaggio” – si era espresso nel seguente modo: «Credono gli uomini che la loro ragione comandi sulle parole; ma avviene anche che le parole ritorcano ed esercitino la loro forza sull’intelletto; la qual cosa ha reso la filosofia e le scienze sofistiche e inattive (….) Avviene quindi che spesso le grandi e solenni dispute dei dotti finiscano in controversie sui nomi e sulle parole (….)». «Anche la natura vaga e male determinata delle parole inganna l’intelletto degli uomini e quasi gli fa violenza» (Novum Organum, I, LIX-LX; Cogitata et visa, X).

 E l’altro pensatore inglese Giovanni Locke da parte sua: «Esaminiamo i libri di tutte le specie: qui vedremo che l’effetto dei termini oscuri, incostanti od equivoci viene ad essere nient’altro che rumore e litigio attorno ai suoni, senza convincere o migliorare l’intelletto di chicchessia» (Saggio sull’intelligenza umana, III, XI 6. Anche tutto il capitolo X del libro III).

E il terzo pensatore inglese Giorgio Berkley: «La maggior parte della nostra conoscenza è stata così stranamente intralciata e oscurata dall’abuso delle parole e dei modi generali del discorso che sono serviti a trasmetterla, che è quasi permesso chiedersi se il linguaggio abbia più contribuito al progresso delle scienze oppure al loro inceppamento» (Principi della conoscenza umana, I ediz. “Introduzione”, num. 21). (Si veda pure Aristotele, De Interpretazione, cap. I).

E ancora il pensatore e matematico tedesco Goffredo Guglielmo Leibnitz ha chiamato polemicamente psittacismo il grave difetto di usare parole prive di significato, per effetto di cui il parlare di molti cultori di filosofia corrisponde esattamente alla ripetizione meccanica delle parole dell’uomo fatta dal pappagallo (greco psittakós), ma senza comprenderle per nulla.

E infine il nostro pensatore Antonio Gramsci (I-164), parlando dei filosofi «attualisti» italiani, ha scritto che «La loro concezione era caduta così in basso nel puro psittacismo che l’unica critica possibile era la caricatura umoristica».

Dunque in questo mio segnalare come “cancro dei professori di filosofia” l’uso e l’abuso di “parole prive di senso o significato” sono stato preceduto da numerosi ed autentici pensatori.

 

La terminologia filosofica

7. Nel citato brano del Locke è fatto cenno ai “termini oscuri, incostanti od equivoci”, e ciò apre il discorso sul “linguaggio filosofico” in generale, ossia sulla terminologia adoperata dai filosofi. È indubitabile: essa varia di epoca in epoca, da filosofo a filosofo e perfino da opera ad opera del medesimo filosofo.

Dando per scontato che il termine “idealismo” sia stato legittimamente creato e adoperato dagli storici della filosofia per indicare la fondamentale “teoria delle idee” di Platone, che senso ha e a quale titolo quando il vocabolo viene adoperato anche per indicare l’«idealismo tedesco” del periodo romantico e dopo quel misero bagaglio filosofico che fu l’idealismo italiano di epoca fascista? Si pensi a quanti e quali differenti significati hanno assunto nell’uso dei vari filosofi i vocaboli idea, idealismo, concetto, concezione, coscienza, autocoscienza, critica, criticismo, empirico-a, fantasia, intuizione, razionalismo, realismo, sensazione, soggetto, oggetto, teoria, immanente, trascendente, ecc. ecc.

È tale e tanta la diversità di significato che molti termini della filosofia occidentale hanno avuto nella bocca dei differenti filosofi, che è del tutto legittimo chiedersi se essi parlassero la medesima lingua oppure ne parlassero altrettante del tutte differenti. Il linguaggio in uso tra i filosofi occidentali è ormai una autentica Babele, in cui è molto difficile e molto raro che uno intenda effettivamente ciò che dice l’altro. Ma spesso essi sono convinti di intendersi tra loro, ciascuno pensando di aver capito l’altro e invece non intendendolo affatto, bensì “fraintendendolo”. Forse che è illegittimo pensare e dire che il parlare di molti filosofi o, peggio, di molti “professori di filosofia” è come un “parlare fra sordi”? Alla maniera delle farse teatrali, nelle quali due sordi non si capiscono affatto fra loro, eppure il loro discorso va avanti ugualmente, dato che sono del tutto convinti di capirsi perfettamente fra loro.

Con questa situazione della “singolarità” ed “unicità” del linguaggio di ciascun filosofo, uno storico della filosofia serio e consapevole, dovrebbe far di tutto per limitarsi a studiare e ad esporre un solo filosofo, evitando di stabilire precisi raffronti con altri filosofi.

Tutto questo avviene rispetto a filosofi che adoperano la medesima lingua ufficiale, ma avviene soprattutto tra filosofi che adoperano differenti lingue ufficiali. Le traduzioni? Ma non è arcinoto che “traduttore” significa molto spesso “traditore”? Tra i professori di filosofia delle Università e dei Licei sollevino la mano quelli che hanno affrontato nella lingua originaria il testo di un filosofo straniero? soprattutto le opere dei troppo citati e ammirati filosofi tedeschi?

Questa Babele linguistica non esisteva nel troppo bistrattato Medioevo oppure esisteva in maniera assai più ridotta: nelle Università di Napoli e di Bologna, di Parigi e di Oxford, di Padova e di Cracovia vigeva un solo linguaggio filosofico, il latino medioevale, quello purtroppo odiato e respinto e messo al bando dai nostri umanisti, infatuati del latino di Cicerone. Con questo latino medioevale, grandemente unitario, duttile e perfino agile, professori e studenti di tutte le Università d’Europa si intendevano facilmente tra loro, formando una sola comunità linguistica e pure una sola comunità culturale.

E la medesima cosa avveniva durante l’epoca classica, quando la lingua della filosofia fu per lunghi secoli esclusivamente la lingua greca (anche nella Roma imperiale; si pensi all’imperatore filosofo Marco Aurelio che scrisse i suoi “Ricordi” in lingua greca).

Non lo si può affatto negare: la formazione dei singoli stati nazionali europei e l’uso obbligatorio ed esclusivo delle rispettive lingue nazionali, hanno dato una mazzata alla cosiddetta “filosofia occidentale”, la quale ha subito una forte involuzione rispetto alla filosofia greca e perfino rispetto a quella medioevale e ciò per effetto appunto della babelica frantumazione delle lingue.

Se ben si considera, in generale si deve riconoscere che la frantumazione linguistica che si è determinata dalla fine della civiltà medioevale sino all’epoca presente impedisce che si possa parlare con verità di una “filosofia occidentale”. Questa se è esistita nel passato classico e medioevale, di certo non esiste per nulla nell’epoca moderna e in quella presente.

In conseguenza della ampia frammentazione e grande diversità delle lingue, tanto meno ritengo che si possa parlare con verità di una “filosofia orientale”.

 

Il linguaggio come “intendere” e “fraintendere”

8. Il «linguaggio» degli uomini non è qualcosa di perfettamente unico ed unitario, bensì implica una dualità che gli è connaturale od essenziale. Il linguaggio infatti è la sintesi del «parlare» e dell’«ascoltare», come indica questo schema:

LINGUAGGIO

parlare ↔ ascoltare

In questo la duplice freccia intende indicare che il «parlare» è sempre in funzione di un «ascoltare» e l’«ascoltare» è sempre in dipendenza da un «parlare». Il parlare di un individuo – purché sia sano di mente – è sempre fatto per essere ascoltato almeno da un altro individuo; e nessun ascoltatore è veramente tale se e quando non ascolta un altro individuo che parli.

Però nel linguaggio il «parlare» e l’«ascoltare» non coincidono mai perfettamente; fra i due termini si inserisce sempre un margine, più o meno ampio, di divergenza e quindi di mancata reciproca “intesa o comprensione” da parte dei due interlocutori; come indica quest’altro schema:

   LINGUAGGIO

   parlare

   ascoltare

Schema nel quale la parte iniziale libera del «parlare» indica ciò che il parlatore intendeva dire, ma in realtà non ha detto per imprecisione; e la parte finale libera dell’«ascoltare» indica ciò che l’ascoltatore ha capito al di là di quanto il parlatore intendeva effettivamente dire e ha detto.

Tutto ciò implica che nel linguaggio c’è di certo l’«intendere» tra i parlatore e l’ascoltatore, ma c’è anche il «fraintendere», secondo quanto indica quest’altro schema:

   LINGUAGGIO

   intendere

   fraintendere

Ovviamente il margine di mancata corrispondenza fra il «parlare» e l’«ascoltare» varia moltissimo tra i vari fruitori del linguaggio. Io ritengo che la convergenza massima fra il «parlare» e l’«ascoltare» si verifichi nel linguaggio degli scienziati o degli studiosi di una medesima scienza o disciplina; invece ritengo che la divergenza massima si verifichi nel linguaggio dei “filosofi” o dei “professori di filosofia”. La cui frequente situazione linguistica a me sembra che possa essere indicata da quest’ultimo schema:

LINGUAGGIO

     parlare

     ascoltare

Avviene cioè spesse volte che nel linguaggio tra i “filosofi” o tra i “professori di filosofia”, il parlatore adoperi parole, alle quali dà particolari significati, ma l’ascoltatore alle medesime parole dà significati più o meno differenti. E ne deriva necessariamente una totale o quasi totale impossibilità di reciproca comprensione ed intesa; ne deriva ancora, dunque, che molto spesso il parlare tra i “filosofi” o i “professori di filosofia” è come il “parlare tra sordi”: sono convinti di “intendersi” tra loro, mentre in realtà non fanno altro che “fraintendersi”. Però il parlare continua ugualmente….

Io ho presenziato ad alcuni “congressi di filosofia”, come pure a numerosi “congressi di glottologia o linguistica”: ma quanto grande differenza ho constatato fra gli uni e gli altri! Nei congressi di glottologia ho assistito anche a vivaci scontri tra linguisti, dato che per loro esisteva ed esiste un comune “linguaggio” di comprensione e quindi anche una comune “materia del contendere”, mentre nei congressi di filosofia ho quasi sempre assistito a una semplice “ritualità” di relazioni e di interventi: i relatori presentavano la loro bella relazione, la quale ovviamente era alla fine applaudita, ma poi non avveniva quasi nulla di più. Al massimo intervenivano per esprimere parole di plauso gli allievi del relatore e inoltre giovani ricercatori in itinere nella difficile ascesa della carriera universitaria. Nei congressi di filosofia non ho mai assistito a “scontri” fra i differenti relatori e fra allievi di differenti relatori, per la ragione che troppo spesso tra i “filosofi” o i “professori di filosofia” non esiste un “linguaggio” comune e quindi non esiste alcuna “materia del contendere”; ciascuno ha la sua teoria tutta individuale, ha il suo linguaggio tutto particolare, anzi la sua lingua individuale e dunque ciascuno non comprende e perciò non discute le tesi che espone un altro suo collega.

 

Il filosofare come etimologizzare

9. In virtù della strettissima connessione che esiste fra il «linguaggio» e il «pensiero», tra le «parole» e le «idee», è sempre avvenuto che i filosofi abbiano analizzato le parole, con l’intento di analizzare e precisare le corrispondenti idee. E per questo sono stati costretti o incoraggiati ad analizzare con attenzione la struttura delle «parole» e anche la loro “origine” o la loro “storia”, che vuol dire esattamente “fare l’etimologia di una parola”. Infatti nel parlare dei filosofi o dei “professori di filosofia” ricorre molto spesso la frase “nel significato etimologico della parola”.

Ma avviene che molto spesso, anzi quasi sempre le “etimologie delle parole” da loro prospettate siano radicalmente errate. L’«etimologia» è una branca della glottologia o linguistica storica, una branca molto specifica e pure molto difficile, nella quale prendono grandi abbagli perfino linguisti preparati, esperti e prudenti. E il risultato è che l’etimologia sbagliata di una «parola» porta il filosofo o il “professore di filosofia” a formulare un giudizio errato della relativa «idea».

Il trionfo di questo etimologizzare dei filosofi, di questo illudersi di trovare nella struttura e nell’origine delle «parole» la vera ed esatta definizione delle corrispondenti «idee», si è avuto alla metà dello scorso secolo XX con la corrente filosofica che si definiva “esistenzialismo”. Da parte dei filosofi esistenzialisti soprattutto si è proceduto a tentare di analizzare la “struttura delle parole e la loro origine od etimologia”, ma con risultati che per il linguista o glottologo erano assolutamente fallimentari ed errati.

Le parole, molte parole chiave sono state dagli esistenzialisti tagliate a pezzi, “affettate come salamini”, con risultati che al linguista provocano solamente il sorriso.

Ma è avvenuto di peggio nelle traduzioni italiane dei testi francesi e tedeschi degli esistenzialisti: dato ma non concesso che fossero esatte le “affettature” subite dalle parole francesi o tedesche da parte degli esistenzialisti, chi poteva assicurare che queste affettature fossero valide anche con le corrispondenti parole italiane, spesso del tutto differenti da quelle francesi e soprattutto da quelle tedesche?

Su questo stesso argomento è molto importante e perfino molto istruttivo il caso del nostro Giambattista Vico, per la sua operetta giovanile De antiquissima Italorum sapientia ex originibus linguae latinae eruenda (anno 1710), il cui titolo indica chiaramente il tentativo dell’autore di dimostrare una presunta antichissima sapienza dei popoli italici, i cui resti sarebbero da rintracciare nella lingua latina. Ma si tratta di un tentativo completamente fallito, come si accorse il Vico stesso, il quale in seguito sconfessò decisamente – anche senza mai dirlo in maniera esplicita – quel suo lavoro giovanile, almeno nella sua impostazione generale. Nella Scienza Nuova infatti, pubblicata 15 anni dopo, da una parte il Vico non riprende più e soltanto accenna al suo erroneo tentativo fatto col primo suo lavoro (Scienza Nuova Prima § 304), dall’altra egli bolla di continuo la “boria” o presunzione dei dotti che sono soliti ritenere le loro teorie tanto antiche quanto lo è l’umanità («i quali, ciò ch’essi sanno, vogliono che sia antico quanto che ‘l mondo») e presumono di trovare le tracce della «sapienza inarrivabile degli antichi» nei loro miti, nelle loro istituzioni e nelle loro lingue. E il Vico sicuramente coinvolge in questa sua condanna della «boria dei dotti», anche senza dirlo esplicitamente, i tentativi effettuati da due suoi “autori”: Platone col suo dialogo Cratilo, e Francesco Bacone col suo De sapientia veterum.

Tutto al contrario in realtà avviene che la glottologia o linguistica storica nell’analisi della struttura delle parole di tutte le lingue conosciute e nella loro storia od etimologia non scopra mai valori semantici o concettuali molto elevati, ma ne scopra sempre molto semplici e perfino rudimentali, mai astratti o intellettivi, ma sempre concreti e sensitivi, anche nei vocaboli che storicamente sono stati sottoposti alla più sottile e profonda analisi concettuale. Ad esempio: il vocabolo anima è corradicale col greco ánemos «vento», il vocabolo spirito è corradicale con spirare «soffiare» e con respirare; comprendere in origine significava «prendere assieme», intendere significava «tendere a… », intelligere significava non “leggere dentro” (come è stato detto da qualcuno), ma «legare con …, collegare», idea significava «cosa veduta, visione», concetto significava «preso assieme», afferrare prima che «afferrare con la mente», significava «afferrare con le mani», ecc. ecc.

Anche rispetto alla storia delle parole di tutte le lingue si adatta alla perfezione l’antico detto della scolastica medioevale: Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu.

Ancora il «linguaggio» è entrato ad intorbidare le argomentazioni dei “filosofi” o dei “professori di filosofia”, quando ha cominciato ad intervenire nel nascere e nel proliferare degli –ismi, degli innumerevoli –ismi. I “filosofi” ovviamente tengono a proporre ed imporre la loro rispettiva “filosofia” ai loro allievi e ai colleghi e pure al grosso pubblico; tengono ad entrare nella «storia della filosofia», lasciandovi una traccia più o meno profonda o almeno un ricordo della loro figura e del loro personale pensiero. E al fine di ottenere questo risultato essi creano altrettanti vocaboli nuovi terminanti in –ismo, spesso anche senza un effettivo aggancio con la teoria che questi vocaboli nuovi dovrebbero propagandare. E questi –ismi si fregiano spesso anche del prefisso neo-, che in greco significa «nuovo»: neo-kantismo, neo-criticismo, neo-realismo, neo-idealismo, neo-empirismo, neo-positivismo, ecc. ecc.

Pure nel mondo delle arti figurative, cioè dei pittori e degli scultori, esiste un frequentissimo proliferare di –ismi, sovente preceduti pur’essi da altrettanti nei-; ma tutto questo si po’ spiegare bene e perfino giustificare nel campo del commercio delle opere di pittura e di scultura, dato che, siccome dagli artisti si richiede come caratteristica essenziale della loro arte quello della totale “unicità” e della assoluta “originalità”, essi hanno grande e vitale interesse a trovare un nome nuovo ed originale per la loro arte personale. Altrimenti nel mercato dei quadri e delle sculture, le loro opere incontrerebbero grande difficoltà a trovare acquirenti.

Tutto questo invece non trova alcuna giustificazione nella produzione delle opere dei “filosofi” o dei “professori di filosofia”. Dei numerosissimi libri compilati e pubblicati dai numerosi “filosofi” o “professori di filosofia” infatti non esiste alcun commercio; li acquistano solamente gli studenti universitari per poter sostenere i relativi esami oppure i partecipanti ai concorsi per vincere la cattedra di storia della filosofia nei Licei oppure le varie cattedre universitarie di discipline filosofiche. Numerosissime opere di “filosofia” non avrebbero alcuna possibilità di essere pubblicate se non ci fossero i fondi annuali degli Istituti universitari a sostenerle, oppure se non venissero pagate direttamente dai loro autori in vista della loro partecipazione ai vari concorsi universitari. E tutto questo è anche uno degli esempi del fatto che le Università sono istituti che diffondono con la “cultura” pure la “incultura”.

Io ho conosciuto “professori di filosofia” i quali, per trovare un qualche pubblico di lettori, si sono dati alla “saggistica” oppure al “romanzo”; e taluno anche con grande successo editoriale…, dimostrandosi con ciò ottimi scrittori, anche se pessimi pensatori.

Io sono stato sempre grande frequentatore di conferenze, di ogni genere (e molte di linguistica le ho fatte pure io): quando ero a Firenze era rarissima la giornata in cui non andassi ad ascoltare una conferenza. Ebbene io non ricordo di avere mai assistito a una conferenza di un “filosofo” o di un “professore di filosofia”, che fosse incentrata sui temi e sulle teorie che egli esponeva e sosteneva durante le sue lezioni universitarie….

 

Gli «Analisti del linguaggio»

10. Il fenomeno, anzi il dramma degli equivoci provocato dall’abuso del linguaggio da parte dei filosofi è stato notato e anche vigorosamente combattuto da quel movimento scientifico-filosofico che, nel periodo fra le due guerre mondiali e subito dopo la seconda, si caratterizzò e si chiamò degli «Analisti del linguaggio». Questi, quasi tutti cultori delle cosiddette «scienze esatte o positive» oppure delle «scienze della natura o sperimentali», si acquistarono, a mio avviso, parecchi meriti nel mostrare e nel mettere in risalto il fatto che molti “problemi filosofici” non sono altro che altrettanti “pseudoproblemi”, dato che sono basati su grossolani equivoci di lingua, su parole oscure o ambigue o addirittura prive di significato. In questa prospettiva di studio gli analisti del linguaggio furono preceduti da uno scritto del nostro Giovanni Vailati, Il linguaggio come ostacolo alla eliminazione di contrasti illusori (1905)), scritto che purtroppo non ebbe alcun seguito né in Italia né all’estero.

A mio giudizio, se questi «Analisti del linguaggio» conseguirono notevoli meriti nella pars destruens delle loro analisi e considerazioni, molto meno felici furono nella loro pars construens, quando cioè si misero a prospettare soluzioni per porre fine ai disastri tipici del “linguaggio filosofico”. In particolare ritengo che sia abortito il loro progetto di creare un nuovo linguaggio filosofico del tutto artificiale, un «linguaggio ideale o perfetto», fondato su regole decise e dichiarate all’inizio, analoghe a quelle del “linguaggio matematico” oppure della logica simbolica o “logistica”. In questa loro prospettiva gli analisti del linguaggio furono fecondi di chiarezza di idee e di validità di progetti, ma i loro risultati effettivi furono molto scarsi, se non addirittura nulli.

Inoltre in questi analisti del linguaggio a mio giudizio costituì un grosso impedimento il fatto che tutti si dimostrassero in possesso soltanto di nozioni rudimentali intorno alle lingue che essi si mettevano ad analizzare: scarsissima capacità di analizzare la struttura lessicale delle parole sottoposte ad esame e scarsissima conoscenza dei significati e della storia delle parole analizzate.

È appunto in quel periodo di particolare attenzione per il linguaggio che mi venne in mente di buttarmi proprio nella direzione della analisi o della «filosofia del linguaggio». Ritenevo di trovarmi in una posizione del tutto privilegiata, dato che ero in possesso sia della laurea in lettere sia di quella in filosofia; inoltre avevo già manifestato particolare interesse per gli studi linguistici o glottologici propriamente detti.

Ne vennero fuori, a distanza di qualche anno, oltre che articoli pubblicati in riviste specializzate, tre miei libri intitolati rispettivamente Il linguaggio – i fondamenti filosofici (Brescia 1957), Filosofia e linguaggio (Pisa 1962), Problemi di filosofia del linguaggio (Cagliari 1967). Qualche anno dopo, sempre nel quadro di questo mio interesse, affrontai anche un altro grosso impegno di studio con l’opera di Aristotele, La Poetica, introduzione, testo critico greco, traduzione e commento (Palermo 1972, edit. Palumbo). A quest’opera, assieme col dialogo Cratilo di Platone, mi ero avvicinato con particolare impegno per le notazioni prospettate dai due pensatori greci intorno al linguaggio. In epoca molto più recente ho ritenuto di ritornare a questi miei giovanili interessi per la filosofia del linguaggio, scrivendo e pubblicando un libro intitolato «Poesia e letteratura – Breviario di poetica» (Brescia 1993), il quale ha ottenuto nel 1995 il premio del Gruppo Internazionale di Pisa per la sezione “Letterati del nostro tempo”.

Dico subito che, nonostante che i miei due primi libri avessero ottenuto la segnalazione in due differenti premi nazionali (“Premio di Gallarate” per opere di filosofia), essi in generale non attirarono una particolare attenzione né da parte dei linguisti né da parte dei filosofi; e ciò di certo avvenne per il motivo che i primi li consideravano troppo “filosofici” e i secondi li consideravano troppo “linguistici”. Nel mondo dell’Università italiana il vocabolo e il concetto di “interdisciplinarità” viene richiamato spesso dai docenti e dalle disposizioni accademiche, ma quasi mai viene messo in pratica. Nell’Università italiana, almeno nelle Facoltà che ho conosciuto, ogni cattedra è un hortus clausus, un “compartimento stagno”, in ciascuno dei quali ogni docente non sa nulla di quanto sta facendo il collega titolare di una disciplina anche affine.

E infatti io ho tentato due volte di conseguire la “libera docenza” in filosofia teoretica presentando anche quei miei libri di “filosofia del linguaggio”, ma non vi riuscii (d’altronde non avevo dietro nessun “portatore”!). Tanto che finii col buttarmi completamente sulla linguistica storica o glottologia, riuscendo ad ottenere prima la libera docenza in «Linguistica Sarda» e dopo la relativa cattedra nella Università di Sassari, nella quale ho insegnato spesso anche Glottologia, Filologia romanza e Linguistica generale.

Eppure io mi sento tuttora affezionato a quei miei libri di «filosofia del linguaggio», dato che, per la mia preparazione sia in linguistica sia in filosofia, ho dimostrato di affrontare quell’argomento con accertata competenza e capacità. Quei libri, pur a distanza di 50/40 anni, li ritengo ancora del tutto validi. Se li dovessi riprendere in mano per eventuali riedizioni – ma è da escludersi del tutto questa eventualità, data la mia età ormai troppo avanzata – mi limiterei a mutare una certa parte della terminologia da me allora adoperata.

All’inizio e a lungo mi ero sentito parecchio mortificato per il mio mancato conseguimento della libera docenza in filosofia teoretica e di una relativa cattedra universitaria, ma alla lunga quel mio rammarico è venuto del tutto meno e ho finito col rendermi conto che, in effetti, la mia carriera di docente universitario è andata abbastanza bene. Mi sono convinto dunque di essere stato fortunato a conseguire la cattedra universitaria in un ramo della Glottologia o Linguistica storica per la ragione sostanziale che ho constatato che in una “disciplina scientifica” i risultati che si ottengono sono molto più numerosi e assai più consistenti e sicuri di quelli che si possono conseguire in una “disciplina filosofica”. E oltre e più di ciò, mi sono convinto che per un cultore di filosofia costituisce una forte garanzia, circa la fondatezza dei suoi discorsi filosofici, la circostanza che egli abbia anche una specializzazione propriamente “scientifica”. In altre parole e in via specifica, la mia convinzione di scrivere in questo mio saggio cose sensate intorno alla filosofia mi viene anche dalla mia convinzione di avere già scritto cose sensate intorno alla “Glottologia” o “Linguistica storica”.

 

La “filosofia tedesca”

11. Per circa 80 anni, dagli ultimi decenni dell’Ottocento fino agli anni dell’immediato dopoguerra della II Guerra Mondiale, la cattedre di filosofia dell’Università italiane furono dominate, anzi sopraffatte dalla filosofia tedesca, quella di Emanuele Kant, Giovanni Amedeo Fichte, Federico Guglielmo Schelling, Giorgio Guglielmo Federico Hegel, Carlo Marx, Giovanni Federico Herbart, Arturo Schopenhauer, Federico Guglielmo Nietzsche e infine Martino Heidegger.

Una prima considerazione di carattere generale: sono dell’avviso che in effetti questi pensatori tedeschi siano stati gli antesignani ed avanguardisti della ben conosciuta «potenza e prepotenza dei Tedeschi», avendo esercitato in Italia il ruolo di altrettante “Panzerdivisionen” culturali, le quali hanno invaso e travolto tutto e dominato in lungo e in largo. Questa avanzata travolgente dei pensatori tedeschi in Italia – ma mi sembra anche in altre nazioni europee – fu determinata e favorita da alcuni eventi di vasta portata politica e storica: I) L’espansionismo economico della Germania, per il quale i prodotti commerciali tedeschi – firmati quasi a sfida e a dispetto in inglese “Made in Germany” – giravano ormai in tutto il mondo, era il segno concreto del grande potenziale economico e quindi anche politico e culturale della Germania. II) L’essersi l’Italia legata per trent’anni alla Triplice Alleanza, costituita dalla Germania, dall’Austria e dall’Italia, nella quale la potenza dominante era la Germania, mentre l’Italia era la potenza dominata e trainata. III) Appena uscita dalla sua fortunosa unificazione, ma travagliata dalle numerose ed enormi difficoltà della sua prima sistemazione a Stato unitario moderno, l’Italia non fu assolutamente in grado di opporsi al predominio della Germania, neppure nel campo della cultura. Si pensi quanto e quale sia stato il peso che in Italia ha esercitato la «filologia classica» dei Tedeschi, col Thesaurus Linguae Latinae, Lipsiae MDCCCC…., coi Corpus Inscriptionum Latinarum, Berolini 1862…., col Corpus Inscriptionum Etruscarum, 1893., con la enciclopedia Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, Stuttgart 1893 segg., e inoltre con le fortunatissime edizioni critiche dei classici latini e greci pubblicate a Lipsia, e infine con l’imponente figura di Teodoro Mommsen, il grande storico del diritto e della storia di Roma. IV) L’essersi ancora l’Italia, durante il fascismo, legata strettamente alla Germania Hitleriana, in una alleanza nella quale l’Italia fece ancora la parte della potenza trainata.

Durante il fascismo appunto il pensatore italiano Giovanni Gentile, fascista e perfino Ministro della Educazione Nazionale, autore di un’ampia riforma della scuola italiana, fanatico della “filosofia tedesca”, praticamente impose con la politica della distribuzione delle cattedre universitarie, per l’appunto la “filosofia tedesca”, della quale egli era infatuato. E fu una ulteriore disgrazia per la cultura italiana il fatto che fosse infatuato della filosofia tedesca pure l’avversario antifascista di Gentile, il neo-idealista e storicista Benedetto Croce.

Una seconda considerazione: io nutro numerosi e forti dubbi sul fatto che i pensatori tedeschi a lungo imperanti nelle cattedre universitarie italiane siano stati compresi in maniera adeguata dagli studiosi italiani. Tra la lingua italiana e la lingua tedesca esistono numerose e profonde differenze di struttura e di lessico, le quali rendono piuttosto difficile la reciproca comprensione tra gli studiosi delle due parti. Anche perché i Tedeschi non hanno affatto la famosa chiarezza di idee dei Francesi, quelli che, pur senza accorgersene, sono gli eredi e i seguaci del criterio delle «idee chiare e distinte» formulato dallo scienziato e filosofo francese Renato Cartesio.

Io confesso che, pur essendomi fatta una discreta preparazione alla “lettura” della lingua tedesca, non sono mai riuscito ad affrontare direttamente un’opera filosofica scritta in tedesco. E quando constato la grande difficoltà di approccio e di comprensione dei pensatori tedeschi tradotti in italiano, mi sorge il dubbio: la grande difficoltà di comprensione dipende dal solito stile intricato e involuto dei Tedeschi oppure dipende da una errata loro traduzione in lingua italiana? Probabilmente intervengono sia l’uno che l’altro fattore negativo insieme.

Comunque è un fatto certo che noi Italiani per 80 anni abbiamo affrontato e conosciuto in codesto modo la “filosofia tedesca” di un secolo e mezzo interi, da Emanuele Kant a Martino Heidegger.

 

Emanuele Kant

12. Al tempo della mia frequenza come studente e del mio successivo insegnamento come professore, nei Licei italiani dominava incontrata la figura e la filosofia del tedesco Emanuele Kant. Era tale l’interesse che i professori dei Licei avevano per il pensiero di E. Kant e il tempo che vi dedicavano per insegnarlo, che molto spesso avveniva – come ho avuto modo di constatare nella mia assai frequente partecipazione a commissioni di maturità, prima come membro e dopo come presidente – che i programmi delle varie classi si fermassero solamente a Kant appunto, senza alcun effettivo studio dei pensatori successivi.

E appunto per questo motivo è avvenuto che nella mia citata «Storia della filosofia» per i Licei io abbia dedicato molto impegno e anche molto spazio per spiegare il pensiero di questo pensatore, conseguendo perfino l’effetto di scrivere una delle parti più valide, sia dal punto di vista scientifico sia da quello didattico, di quel mio manuale.

In seguito, col passare degli anni e dei decenni, mi sono del tutto convinto che il pensatore tedesco di Koenisberg non merita affatto tutta la gloria che gli si tributava e almeno in parte si continua a tributargli. Le ragioni del forte ridimensionamento che ho fatto in me stesso di quel filosofo, si trovano nei seguenti punti:

I. Emanuele Kant aveva una conoscenza molto scarsa e anche superficiale della storia della filosofia precedente, soprattutto di quella greca, come dimostra anche il fatto che nell’uso di alcuni vocaboli greci antichi e nella creazione di alcuni neologismi (categoria, critica, estetica, fenomeno, noumeno, ecc.), egli ha commesso errori grossolani di lingua.

II. Egli aveva una conoscenza molto scarsa della «logica», cioè della dottrina del combinarsi fra loro delle idee, dei giudizi e dei ragionamenti; campo nel quale egli prese abbagli enormi. Ad es., i “giudizi sintetici a priori” di Kant non esistono affatto, come aveva già indicato il nostro Pasquale Galluppi.

III. Egli aveva una conoscenza  piuttosto scarsa e pure superficiale delle “scienze positive” e delle “scienze della natura”, che pure egli citava e che ai suoi tempi erano esplose, ottenendo grandi risultati scientifici, rispettivamente con Cartesio, Newton e Leibnitz e con Copernico, Galilei, Newton e Keplero.

IV. Solamente per effetto del quasi totale isolamento in cui visse nella sua Koenigsberg, si spiega il motivo per cui Kant sostenne con tutta convinzione che lo “spazio” ed il “tempo” non esistono in sé e per sé, ma sono semplicemente nostri paradigmi mentali, cioè nostri “modi soggettivi di vedere o di pensare” le cose; che il “principio di causalità” non opera affatto nella realtà in sé e per sé, ma è anch’esso un “nostro modo soggettivo di pensare” la realtà. Se codeste sue tesi Kant avesse avuto modo di discuterle con Galilei, Newton e Keplero, il filosofo tedesco avrebbe continuato a sostenerle? Tuttora nel nostro pianeta troviamo chiari segni e numerose prove di fenomeni di stratificazione, fusione, sconvolgimento di minerali, terreni e rocce, di esseri viventi in trasformazione e in evoluzione, tutti fenomeni che sono avvenuti in epoche antichissime nello spazio e nel tempo e come effetto di altrettante “cause”, quando l’uomo non esisteva ancora a “spazializzarli”, a “temporalizzarli” e a “causalizzarli, secondo che dice Kant.

V. Kant si contraddice radicalmente con le sue tesi fondamentali: secondo lui noi uomini non conosciamo affatto la realtà come è in sé per sé, mentre conosciamo solamente la realtà come noi la vediamo e pensiamo e inoltre come la ”deformiamo” secondo paradigmi o schemi mentali che sono per noi come “occhiali colorati”, che impregnano la realtà del loro colore. Noi uomini conosciamo non la realtà come è effettivamente in sé (cioè il noumeno), ma conosciamo soltanto la realtà come appare a noi, a tutti noi uomini (soggettivismo universale), cioè la realtà apparente, il fenomeno. Senonché, se fosse vero che noi “deformiamo” la realtà esterna a noi quando la pensiamo, perché mai, nell’atto della introspezione, ossia quando ci voltiamo ad analizzare la nostra “struttura mentale”, costituita da paradigmi o schemi mentali esclusivamente umani, chi ci assicura che questa non sia apparente anch’essa e quindi fenomenica e quindi non reale? Se occhiali colorati di giallo ci fanno apparire “gialla” tutta la realtà esterna da noi esaminata, anche esaminando la nostra struttura mentale noi la coloriamo di giallo e quindi la deformiamo e falsifichiamo. Un individuo che abbia fin dalla nascita occhiali gialli, vedrà gialle tutte le cose esterne a lui, ma vedrà giallo anche se stesso nel caso che si metta di fronte ad uno specchio. Ed allora, come possiamo ritenere che noi effettivamente “pensiamo” secondo le modalità che dice – ma non dimostra – Emanuele Kant? Come possiamo accertare che la nostra effettiva “struttura mentale” sia quella che egli descrive?

Più tardi Giorgio Guglielmo Federico Hegel aveva criticato questo punto essenziale della filosofia di Kant, sostenendo che non si può chiamare la ragione a giudicare se stessa, quando sulle capacità conoscitive della ragione stessa si nutrono dubbi. Con la sua assurda pretesa di giudicare o valutare la ragione prima di usarla, Kant si è comportato – ha detto lo Hegel – come quel tale che «voleva imparare a nuotare prima di arrischiarsi nell’acqua».

Dunque la tesi fondamentale di Kant, secondo cui la nostra “struttura mentale” sarebbe costituita dalle forme a priori dello «spazio» e del «tempo» e inoltre dalle 10 categorie, non è altro che una sua semplice tesi, da lui solamente affermata ma mai effettivamente dimostrata.

E anche la troppo magnificata dottrina della “moralità” sostenuta da Kant, quella fondata sul principio de «il dovere per il dovere» e non il dovere per altri fini, ad esempio, per inclinazione naturale, lascia molto a desiderare. Ironicamente aveva in seguito commentato Guglielmo Carlo Federico Schiller: «Io faccio del bene agli amici, ma purtroppo lo faccio per inclinazione; perciò spesso mi sgomento di non essere virtuoso. Non c’è altra soluzione: dovrò aborrire gli amici e dopo fare con ripugnanza ciò che il dovere comanda». E da parte sua Arturo Schopenhauer aveva obiettato che nel principio «il dovere per il dovere» Kant aveva fatto entrare surrettiziamente anche il concetto di «felicità» ed allora aveva commentato: «Kant rifiuta il salario, ma accetta una lauta mancia».

Però non c’è manuale di «Storia della filosofia» per i Licei che non contenga una nota frase del pensatore di Koenigsberg: «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me». Frase famosissima, ma – a mio giudizio – anche del tutto banale.

Per spiegare in maniera sufficiente la straordinaria ed eccessiva fortuna di Emanuele Kant si deve ritornare alla questione della invasione con Panzerdivisionen della cultura tedesca nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento in Italia e in Europa. Anche Emanuele Kant fece parte di quella grande invasione, anzi egli fu la punta avanzata di quella invasione.

Dopo seguì la Panzerdivision di Federico Fichte, assertore della superiorità della razza tedesca, poi quella di Hegel, che vide incarnato lo Spirito nello stato prussiano di Bismark, poi quella di Carlo Marx il profeta dei «Lavoratori di tutto il mondo unitevi!».

Immediatamente dopo, a queste Panzerdivisionen filosofiche e culturali fecero seguito le vere e proprie e paurose Panzerdivisionen dell’esercito tedesco, quelle di Guglielmo II di Germania che nella I Guerra Mondiale attaccarono proditoriamente il neutrale Belgio per aggirare alle spalle l’esercito francese, in seguito quelle di Adolf Hitler che fecero altrettanto e inoltre attaccarono, come tante orde di Vandali o di Unni, quasi tutta l’Europa portando rovina dappertutto e massacrando milioni di uomini.

Quale giudizio singolo ed effettivo io ritengo di poter dare del pensiero dei pensatori tedeschi dell’Ottocento? Io ritengo e giudico che anche il pensiero di Fichte, quello di Schelling e quello di Hegel siano stati il trionfo delle “parole”, dei “vocaboli” «Io» e «non-Io», «io empirico» e «Io Assoluto», soggetto e oggetto, spirito e materia, anima e natura, tesi-antitesi-sintesi. Parole, parole, soltanto parole! Questi tre filosofi tedeschi hanno perfino assunto un atteggiamento “satanico” di fondo: è avvenuto infatti che essi abbiano voluto impadronirsi della «cabina di comando» del Padreterno e da questa cabina di comando abbiano preteso di esporre e valutare tutta la realtà, tutto lo scibile e pure la storia degli uomini sub specie aeternitatis, presentarne cioè la visuale quale l’avrebbe Dio e non quale l’ha un comune mortale.

Io sono dell’avviso che esista un “peccato originale” che ha minato la filosofia tedesca, da Fichte a Schopenhauer e anche oltre, e questo consista nel suo essersi staccata del tutto dalle «scienze positive» e dalle «scienze della natura», quelle che negli immediati secoli precedenti (XVI-XVIII) avevano già celebrato autentici trionfi di risultati e di conquiste. Tutta la filosofia tedesca dell’epoca del Romanticismo non sembra affatto uscita dalla “ragione” di autentici pensatori, ma sembra uscita dalla “fantasia” di molto estrosi poeti.

E purtroppo la medesima cosa è avvenuta per lo striminzito pensiero filosofico venuto fuori in Italia dalla fine dell’Ottocento sino alla metà del Novecento, con l’affermarsi del sedicente “neo-idealismo” e in maniera particolare con l’”attualismo” di Giovanni Gentile e con lo “storicismo” di Benedetto Croce (nuove belle parole, ma anch’esse in massima parte prive di significato) e poi con tutte le piccole diramazioni satellitari, partorite dalla “fantasia” di altrettanti poeti (anche mediocri) e non dalla “ragione” di autentici filosofi.

 

La filosofia nei Licei

13. In base alla mia abbastanza lunga esperienza di professore di filosofia nei Licei – classico, scientifico e magistrale – e, per un anno, di preside (avevo ottenuto la relativa “abilitazione”), ritengo che i professori di filosofia di questi istituti italiani si possano dividere in quattro gruppi differenti.

I. Esistono professori i quali prendono lo spunto dai temi di filosofia previsti dai programmi per aprire ampie e libere discussioni con gli studenti. Sono di certo i professori migliori e io ricordo con particolare affetto un mio professore del Liceo di Nùoro, Gavino Pau, che seguiva questo metodo di insegnamento, che in seguito ho adottato pure io.

II. Altri professori invitano gli studenti a lasciare da parte il testo di «Storia della filosofia» adottato e procedono a dettare alla scolaresca i loro personali appunti, che poi richiedono che siano ripetuti dagli alunni nelle interrogazioni. Quegli appunti in genere fanno capo a vecchi testi scolastici ormai fuori uso.

III. Altri professori tentano – spesso disperatamente – di seguire il testo scolastico adottato, magari rendendolo, con la loro personale interpretazione, più difficile e più oscuro di quanto esso esattamente sia e a maggior ragione più difficile ed oscuro delle opere effettive dei filosofi studiati. In questo modo spesso questi professori tentano di nascondere, dietro il loro linguaggio ermetico, i vuoti della loro preparazione professionale. In generale questi professori non sono stimati dai loro alunni, i quali non riescono a capire nulla né dal testo né dal commento dei loro professori.

IV. La quarta categoria è quella dei professori che non fanno per nulla lezioni di filosofia né di storia della filosofia, mentre si limitano a chiacchierare con gli alunni de omnibus rebus, di politica e soprattutto di attualità. Ovviamente gli alunni, ormai adolescenti e smaliziati, abboccano e non protestano, dato che il sei e perfino il sette finale è assicurato nelle loro pagelle. Talvolta questi professori in una certa misura riescono a salvare la loro figura professionale di fronte ai loro alunni, dato che nei Licei classici e scientifici essi insegnano – e spesso anche bene – pure storia e nel Liceo magistrale insegnano pure pedagogia e psicologia.

Quali sono i risultati effettivi dell’insegnamento della filosofia fatto in codesto modo dai citati quattro differenti gruppi di professori? A me capita di sentire spesso anche da professionisti di valore che ai tempi della loro frequenza del Liceo «di filosofia non avevano mai capito nulla». Mi è capitato di sentire di recente uno dei più brillanti giornalisti conduttori di una trasmissione speciale della televisione italiana affermare che ricordava ancora con fastidio la “noia” delle lezioni di filosofia avute nel Liceo. Comunque tutti coloro che hanno fatto gli studi nei Licei affermano sempre di non ricordare nulla o quasi nulla dell’insegnamento liceale di questa disciplina.

È dunque indubitabile che l’insegnamento della filosofia nei Licei registra un fallimento quasi generale e quasi totale.

Ed allora la ragione e il buon senso spingono a ritenere che questo insegnamento andrebbe abolito completamente dai nostri Licei.

Esiste qualche possibilità di porre rimedio a questo disastro scolastico ed educativo? A mio fermo giudizio sì. Quello della filosofia dovrebbe essere sostituito da un altro insegnamento umanistico, da quello del «Diritto»: i nostri allievi liceali dovrebbero studiare la Costituzione italiana ed inoltre i termini essenziali del diritto positivo italiano. Nessuno potrà negare che si tratterebbe di un insegnamento umanistico altamente educativo e assai importante nella formazione culturale e pure professionale degli studenti.

Quando, laureato e diventato professore, venni per la prima volta a contatto col «Diritto», anche per effetto della mia esperienza prima di Preside di Liceo e dopo di Preside di una Facoltà Universitaria, confesso che provai viva ammirazione per il mondo delle leggi; perché nei giuristi constatavo grande acutezza di visuale e grande capacità di ragionamento, accompagnate però da una totale adesione o forte attaccamento alla realtà, alla realtà sociale e statuale dei cittadini. Mi è capitato di dire spesso ai miei allievi oppure ai miei amici o colleghi che nei giuristi trovavo la medesima capacità di analisi e di approfondimento razionale dei grandi filosofi, ma insieme un grande senso pratico, che invece molto raramente trovavo nei filosofi. Paragonavo e paragono il Diritto ad un aerostato che vola molto in alto, ma intanto è fortemente ancorato da un cavo di acciaio alla realtà concreta degli uomini e dei fatti; la filosofia invece, almeno nelle mani di certi suoi cultori o docenti è un aerostato che vola, sì, molto in alto, ma troppe volte si sgancia del tutto dalla vera realtà degli uomini e dei fatti.

Questa critica della filosofia che troppo spesso perde i contatti con la realtà effettiva è antica quanto lo è la filosofia stessa, come si vede, ad esempio, dalla commedia di Aristofane, Le Nuvole, la quale sottopone a satira feroce Socrate e la sua filosofia.

D’altronde era una storiella già molto comune in mezzo al popolo greco, quella di un filosofo che teneva lo sguardo fisso in alto a guardare gli astri e non si accorgeva di cadere dentro una fossa.

 

Il positivismo vecchio e nuovo e la filosofia

14. Del citato movimento degli «Analisti del linguaggio» e del connesso movimento scientifico-filosofico del «Neo-positivismo» ho ampiamente trattato nel terzo volume della mia «Storia della filosofia», con una trattazione della quale mi sento orgoglioso, anche perché non si trova in nessun altro manuale. Ad essa mi permetto di rimandare i lettori che avessero desiderio di conoscere quel movimento. Qui mi limito ad esporre quelli che, a mio giudizio, sono stati i loro meriti e i loro demeriti.

I. I neo-positivisti hanno avuto il merito di aver messo in atto e di aver insegnato agli altri un grande senso di concretezza nella scelta dei problemi e una notevole rigorosità nella loro discussione e soluzione; cose, queste, che in filosofia purtroppo si facevano desiderare da parecchio tempo.

II. I neo-positivisti hanno mostrato ai filosofi delle altre correnti i numerosi e notevoli vantaggi che derivano dal lavoro fatto in équipe o in comune, con la collaborazione di pensatori specialisti nel medesimo ramo del sapere ma anche in differenti rami. È evidente che i neo-positivisti hanno derivato il senso della concretezza unito a quello della rigorosità e insieme l’usanza del lavoro in comune da quella che era stata in precedenza e continuava ad essere la loro precisa esperienza di cultori di scienze positive e di scienze della natura.

III. Giustamente i neo-positivisti insistevano sull’obbligo e anche sull’interesse, che esiste per i cultori di filosofia, di precisare bene e di definire il significato dei vocaboli adoperati, perché è senz’altro vero che non pochi problemi filosofici sono altrettanti “pseudoproblemi”, per il motivo che sono impostati su errori o su equivoci del linguaggio.

IV. I neo-positivisti hanno contribuito notevolmente allo sviluppo e al progresso di quelle discipline che sono la «logistica» o “logica simbolica” da una parte e la «epistemologia» o “filosofia delle scienze positive” dall’altra.

Invece, a mio giudizio i demeriti dei neo-positivisti sono i seguenti:

I. I neo-positivisti, molti dei quali, prima ed oltre che essere filosofi, erano matematici, fisici, chimici, astronomi, biologi, hanno avuto il grave torto di prendere come termine di paragone e di misura le loro “scienze esatte e positive” e soprattutto la matematica e la fisica, col cui ristretto ed esclusivo metro essi hanno ritenuto di poter decidere ciò che deve essere accettato come “scientifico” e ciò che deve essere respinto come ”antiscientifico”. Senonché, questo è un vero e proprio dogmatismo scientista – sia pure presentato con un apparato “critico” -; questa è vera e propria “intolleranza” (altro che “principio di tolleranza” di Rudolf Carnap!), questo è un portare dei paraocchi e non accorgersi che, oltre ai matematici e ai fisici, esistono numerosi altri uomini di studio e di cultura, i quali tutti hanno pieno diritto di attribuire il carattere della “scientificità” ai loro studi e alle loro ricerche. Di fronte a questo nuovo e intollerante scientismo dei neo-positivisti, che cosa dovrebbero fare i giuristi, i filologi, i linguisti, gli storici, gli archeologi, i critici letterari e d’arte? Dovrebbero forse bruciare i loro libri solamente perché in essi non si applicano né si possono applicare i metodi e i criteri della fisica e della matematica?

II. A questo dogmatismo scientista i neo-positivisti sono arrivati anche a causa della mancanza in essi di esatte prospettive storiche: essi hanno dimostrato di conoscere assai poco la storia della filosofia e pure quella delle scienze. Ed allora non c’è da stupirsi molto se essi non hanno avuto il pudore o almeno il senso del ridicolo prima di scrivere frasi come questa di Maurizio Schlick: «Io sono fermamente convinto che noi siamo testimoni del sorgere di una nuova era della filosofia, il cui futuro sarà molto differente dal passato, così pieno di pietosi insuccessi, di vane lotte e di futili controversie».

III. Le accuse che i neo-positivisti muovono alla filosofia e soprattutto al suo ramo che è la metafisica – accuse di imprecisione, di inconcludenza, di insignificanza – sono quelle stesse che in generale sono solite farle i cultori delle scienze esatte e positive. E sono accuse alle quali si può tranquillamente rispondere dicendo che, se la matematica e la fisica sono scienze molto più rigorose e insieme più feconde della filosofia, ciò dipende dal fatto che i problemi che esse trattano sono molto meno difficili di quelli che tratta la filosofia; esse di certo sono molto più esatte e feconde della filosofia, ma intanto sono anche assai meno elevate di questa; non foss’altro perché – come dirò più avanti – la filosofia tratta anche i problemi essenziali ed esistenziali dell’uomo, cioè il suo essere e il suo operare nel mondo e il suo agire nei confronti dei suoi simili. E inoltre, proprio per questa ragione l’operare della filosofia viene gravemente turbato dal valore profondamente “umano” che essa assume, quando tratta i problemi essenziali ed esistenziali dell’uomo, come il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il piacere e il dolore, la vita e la morte, la vita oltremondana o il nulla assoluto. Molto raramente le “scienze esatte” e quelle “positive” incontrano come ostacolo questo turbamento di carattere “umano ed esistenziale”, detto in altre parole, questo “turbamento passionale”.

Che tutto questo sia vero lo dimostrava all’evidenza lo stesso procedere dei neo-positivisti: fin quando essi rimanevano nel campo della «scienza» propriamente detta e trattavano veri e propri problemi scientifici, allora essi erano quasi sempre tutti d’accordo fra loro, quando invece lasciavano il campo scientifico propriamente detto per entrare in quello più elevato e più difficile della «epistemologia» o “filosofia della scienza” (esatta e positiva), allora sorgevano le divergenze di vedute tra loro, le diversità di soluzioni, le discussioni interminabili, ecc. E infatti, proprio sul piano della epistemologia fra i neo-positivisti non c’era nessun accordo su questi che pure sono punti basilari delle stesse discipline di propria specializzazione: I) Come si passa dai “protocolli”, che sono per se stessi individuali, alla “legge” fisica che è o mira ad essere generale? In altri termini, come si giustifica razionalmente il valore della “induzione”? II) Chi e come ci assicura che l’esperienza iniziale finora avuta della “natura” debba essere confermata anche dalla esperienza futura? III) Come si giustifica razionalmente l’applicazione della logica e della matematica – che sono scienze tautologiche o analitiche e che trattano soltanto “verità di ragione o formali” – alla fisica, che è una scienza sintetica e sperimentale e che tratta “verità di fatto o fattuali”? IV) Quale base e giustificazione razionale e scientifica ha il concetto di «verificabilità» come l’hanno prospettato i neo-positivisti?

Ma c’è dell’altro e di più: la “eliminazione della metafisica attraverso l’analisi del linguaggio” che essa adopera, implica una grossa e grave contraddizione, della quale, per il vero, i più attenti degli stessi neopositivisti si sono accorti: tutto ciò che il neo-positivismo diceva della metafisica e della filosofia – per eliminare del tutto la prima e per limitare il campo della seconda alla sola “analisi del linguaggio” – non appartiene affatto al dominio della «scienza» o della «fisica». Tutti quegli enunciati che i neo-positivisti pronunziavano intorno alla filosofia e alla metafisica, non sono affatto enunciati logicimatematici fisici, bensì – si osservi il caso! – sono essi stessi enunciati filosofici e metafisici, enunciati che, per ciò stesso, non possono essere sottoposti al “metodo della verificabilità” fisica! Dunque, i neo-positivisti credono di ridurre notevolmente il campo della filosofia e di eliminare del tutto la metafisica con giudizi che sono essi stessi filosofici e metafisici…!

Magra figura, questa dei nuovi come dei vecchi positivisti, che essi si sarebbero risparmiati, solo che avessero conosciuto molto meglio la storia della filosofia, o almeno quanto, più di due millenni fa, aveva detto il grande Aristotele nel Protrettico a difesa della filosofia: «O si deve filosofare o non si deve; ma per decidere di non filosofare è pur sempre necessario filosofare. Dunque, in ogni caso è necessario filosofare».

 

“Discipline scientifiche” e “discipline umanistiche”.

15. Ritornando ai «Neo-positivisti», a me sembra che essi errassero e in malo modo a privilegiare esclusivamente le «scienze esatte o positive» e le «scienze della natura o sperimentali» ed invece a eliminare od espungere le «discipline umanistiche», per il motivo che in queste i risultati finali che si possono conseguire non sono di certo caratterizzati dalla rigorosità apodittica e dalla certezza razionale che invece si ottengono con le prime. Senonché noi cultori delle «discipline umanistiche» siamo del tutto convinti che siano pur sempre “risultati scientifici” quelli da noi raggiunti e ottenuti, di certo da non paragonare e non confondere con quelli dell’astrologia e della magia. Se noi non fossimo convinti della “scientificità” delle nostre discipline, indubbiamente smetteremmo di coltivarle e passeremmo senz’altro alle “scienze esatte” ed a quelle “positive o sperimentali”.

Non sono pertanto “scienziati” solamente i matematici e i cultori di logistica, gli astronomi, i fisici, i chimici ed i biologi, ma lo sono pure i linguisti, i filologi, i giuristi, i critici di letteratura e d’arte e infine gli storici. Ad esempio, io glottologo o linguista storico rivendico il mio diritto ad essere considerato uno “scienziato”, anche se riconosco che i risultati dei miei studi sono solamente “probabili” o “verosimili” e spesso anche aleatori e neppure lontanamente analoghi per rigore e per certezza a quelli ottenuti da un matematico o da un astronomo.

Il ritenere che “scienze” siano solamente quelle esatte e quelle della natura, cioè solamente le «scienze positive» e «quelle sperimentali», si chiama “scientismo” ed esso è un grosso errore che mira ad espungere od eliminare tanta parte dell’enciclopedia del sapere umano. D’altronde, pur riconoscendo alle scienze esatte e positive e a quelle della natura il pregio della maggiore certezza dei risultati conseguiti, alle discipline umanistiche si deve concedere il pregio di un più alto valore umano, il “carattere” di un superiore umanismo. Io ho avuto modo di visitare cavità carsiche lunghe anche centinaia di metri e ne ho ammirato le quasi incredibili concrezioni calcaree, comprese le stalattiti e le stalagmiti, che spesso fanno delle grotte come altrettante “cattedrali gotiche”. Ma ho visitato anche numerosi siti archeologici, nuragici fenici greci etruschi e romani, e dichiaro di averli visitati con molto maggiore interesse: per il fatto che vi sentivo il “profumo della umanità”, ossia la quasi attuale presenza degli uomini che hanno fabbricato quelle antiche costruzioni, vi hanno abitato, vi hanno gioito e sofferto, sono vissuti e sono morti, nella stessa identica maniera del nostro vivere, gioire e soffrire di noi uomini moderni e viventi.

E d’altra parte non è affatto priva di significato la circostanza che siamo molto più numerosi noi cultori di «discipline umanistiche» rispetto ai cultori delle «discipline scientifiche».

 

La problematica filosofica

16. È ormai il tempo di dare una definizione della «filosofia», dopo che rispetto ad essa finora mi sono limitato a proporre quasi esclusivamente una pars destruens, alla quale ovviamente ho l’obbligo di contrapporre una pars construens. È noto che le “definizioni” si fanno con affermazioni, non con negazioni, cioè dicendo ciò che una cosa è, non dicendo ciò che una cosa non è.

In vista di questo compito procedo innanzi tutto a presentare la “problematica” della filosofia, cioè la serie dei problemi o delle questioni o domande che essa si pone e alle quali cerca di dare una risposta. Presento pertanto la serie dei “problemi filosofici” inquadrandoli nelle rispettive sezioni della filosofia e indicando di queste, fra parentesi, la rispettiva denominazione oppure le rispettive risposte tradizionali.

Sono dell’avviso che il primo problema che l’uomo si pone con la filosofia è il problema della «realtà», di cui egli stesso fa parte. E rispetto alla realtà l’uomo-filosofo si pone queste domande fondamentali:

I. La realtà è sempre stata oppure ha avuto un inizio nel tempo e col tempo? (cosmologia).

II. La realtà ha avuto una Causa prima o un Creatore (Dio) oppure no?

III. Dato che – come constatiamo giorno per giorno – la realtà diviene o si trasforma continuamente, il suo “divenire” procede a caso oppure procede secondo un progetto o un fine tracciato da una Mente o un Intelletto ordinatore (Dio)?

IV. Questa eventuale Causa prima e Mente ordinatrice (Dio), è trascendente, cioè estrinseco alla realtà oppure è immanente, cioè intrinseco ad essa? (trascendenza od immanenza); è distinto dal mondo oppure si identifica col mondo? (Deus sive Natura).

Circa queste quattro domande o questioni filosofiche fondamentali si deve fare una prima importante precisazione: esse non appartengono affatto al dominio delle scienze della natura, rispetto alle quali “vanno oltre”, in quella importante sezione della filosofia che si chiama metafisica, da intendersi esattamente come “la sezione della filosofia che va al di là della fisica”, cioè appunto al di là delle scienze della natura.

Circa le quattro domande che la filosofia si pone riguardo alla «realtà», dato che l’unico essere vivente e pensante e cioè filosofante, che sinora risulta esistere, è l’uomo, si impongono questi altri problemi pertinenti proprio all’uomo ed attinenti anch’essi esclusivamente alla filosofia:

V. Quale è e quale deve essere l’atteggiamento dell’uomo rispetto alla «realtà»? Egli ne è il semplice “fruitore” oppure ne è il “padrone assoluto, tanto da poterne disporre in maniera del tutto arbitraria? In via specifica, deve l’uomo preoccuparsi oppure no delle ampie e devastanti trasformazioni che egli stesso sta facendo al mondo in cui vive?

VI. Ha l’uomo oppure non ha il diritto di vita e di morte sui suoi simili e su se stesso, con la condanna a morte o col suicidio?

VII. Ha l’uomo oppure no il diritto di ribellarsi a un tiranno e perfino di ucciderlo?

VIII. Quale è e quale deve essere l’atteggiamento del singolo uomo rispetto ai suoi simili? In particolare esistono oppure no diritti e doveri di ciascun uomo rispetto ai suoi simili? (etica o filosofia morale).

IX. Esistono oppure non esistono diritti e doveri dell’uomo-maschio rispetto alla donna e viceversa? Esistono oppure non esistono diritti e doveri dell’uomo e della donna nei confronti dei loro figli, nipoti e pronipoti?

X. Esistono oppure no doveri di ciascun popolo nei confronti degli altri popoli attualmente presenti nel mondo e inoltre di quelli futuri?

XI. È lecita oppure no la guerra di un popolo contro un altro popolo e a quali condizioni?

XII. Quale deve essere l’atteggiamento dell’uomo, animale vivente, rispetto agli altri esseri viventi e in particolare rispetto agli altri animali? Ha l’uomo oppure non ha il diritto di sottoporli al “dolore” e alla “morte”, posto che anche lui, come animale, è radicalmente contrario al “dolore” e alla “morte”?

XIII. È l’uomo veramente “libero” e con ciò totalmente responsabile delle sue azioni, oppure è “determinato”, in tutto o in parte, dalla attività neurotica del suo cervello e dalle predeterminazioni del suo DNA?

XIV. Riesce l’uomo a conoscere la realtà come effettivamente è in se stessa oppure la conosce solo come gli sembra ossia come semplice “apparenza”? (gnoseologia).

XV. Riesce l’uomo a conoscere se stesso come effettivamente è oppure egli si conosce solo come semplice “apparenza”?

XVI. È esatta oppure no la distinzione nell’uomo del suo corpo e di una sua anima? (psicologia razionale).

XVII. Siccome tutti gli esseri viventi, compreso l’uomo, muoiono, ossia cessano di esistere in quanto tali, esiste almeno per l’uomo il privilegio di un’altro differente modo di vivere dopo la morte oppure non esiste?

XVIII. Esistono oppure no per l’uomo, dopo la sua morte e in un’altra sua eventuale vita futura, particolari sanzioni per il mancato rispetto dei suoi doveri nei confronti di Dio, dei suoi simili e pure della realtà in generale?

È molto importante precisare che nella ormai lunga storia della ”civiltà occidentale” a ciascuna delle citate domande o questioni di filosofia in effetti la risposta è stata già data da numerosi filosofi o pensatori, anche se non in maniera univoca. Ed un accorto e corretto “storico della filosofia” dovrebbe presentare, in maniera semplice e non ermetica, ai suoi lettori la serie di quelle risposte, pure nella modalità del medioevale Sic et non, cioè nella forma dialettica della “tesi” e dell’”antitesi”.

Proprio per questo esatto motivo potrebbe sembrare che nella storia della filosofia “tutto è stato ormai detto” e dunque “nulla di nuovo si può ormai dire”. Ma non è affatto così: col progredire della civiltà e soprattutto con lo sviluppo vertiginoso delle “scienze” nuovi problemi e nuove questioni di esclusivo carattere filosofico si impongono all’uomo, problemi e questioni che i filosofi antichi non potevano neppure prevedere lontanamente. E questi problemi sono i seguenti:

XIX. Ha l’uomo oppure non ha il diritto di determinare con la genetica, in un modo oppure in un altro, la particolare vita di un altro individuo da far nascere? La raccolta e l’uso degli embrioni umani per far nascere altri individui è lecita? L’inseminazione artificiale e soprattutto quella eterologa di una donna è lecita? L’impianto di un embrione di una donna nell’utero di un’altra è lecito oppure no?

XX. In caso di agonia lunga e sofferta è lecita oppure no la eutanasia o “buona morte”?

XXI. È lecito oppure no il suicidio assistito da un medico?

XXII. È lecito oppure no il prolungamento, con particolari apparecchiature, della vita vegetativa di un uomo che registri una totale mancanza di attività cerebrale?

XXIII. Rispetto alla esplosione demografica nel pianeta e alla conseguente fame e sete mondiali è lecita la “regolazione delle nascite” e con quali mezzi e modalità?

XXIV. Per la “regolazione delle nascite” è lecito oppure no l’aborto e soprattutto quello “selettivo”?

XXV. Uno Stato ha oppure no il diritto di intromettersi negli affari interni di un altro stato?

XXVI. Uno Stato ha oppure no il diritto di esportare la “democrazia” in altri Stati che non la conoscono né la praticano?

XXVII. Uno Stato ha oppure no il diritto di adoperare la “bomba atomica” nel caso che stia per essere sopraffatto da un altro Stato aggressore?

XXVIII. Uno Stato ha oppure no il diritto di adoperare la tortura per estorcere notizie che pregiudichino i suoi reali diritti ed interessi attuali oppure eventuali pericoli futuri?

XXIX. È giusto e sopportabile che 10 famiglie di una Nazione posseggano tanta ricchezza quanto ne posseggono tutte le altre famiglie assieme? Che i popoli delle poche Nazioni del benessere godano della massima parte dei beni del mondo? Che alcuni singoli personaggi delle Nazioni del benessere abbiano tanta ricchezza quanta non l’hanno i popoli di intere Nazioni del terzo mondo?

XXX. È giusto e sopportabile che alcuni banchieri delle Nazioni del benessere siano in grado, per i loro esclusivi interessi personali, di mettere in crisi l’intera economia di molte Nazioni del mondo?

 

È del tutto certo ed evidente che questa “nuovissima” ed “attualissima” casistica o serie di problemi trae la sua esatta origine dagli studi e dalle tecniche delle moderne “scienze della natura” e inoltre dalla «economia», intesa come scienza e come “tecnica”, ma è altrettanto certo ed evidente che la soluzione di questi problemi non è propriamente di pertinenza della “scienze” e dell’”economia”, ma è esclusivamente di pertinenza della “filosofia”, sia pure in accordo oppure in contrasto con le religioni.

La definizione della filosofia

17. Fatta questa lunga premessa sulla problematica della filosofia, una semplice e sintetica definizione della stessa potrebbe essere questa: «la filosofia è la disciplina umanistica che tratta i problemi fondamentali della realtà e inoltre quelli essenziali ed esistenziali dell’uomo, cioè il suo essere e il suo operare nel mondo, il suo agire nei confronti dei suoi simili e il suo sperare in una eventuale vita dopo la morte».

 

La filosofia e le religioni

18. A questo punto c’è da fare un’altra importante precisazione: a dare risposte a molte delle domande su elencate sono intervenute, nella storia dell’uomo, in primo luogo e in prevalente modo parecchie e differenti religioni, “naturali o spontanee” oppure “rivelate”, e ciò esse hanno fatto in quella loro sezione che genericamente si chiama teologia.

Rispetto alle quali risposte date dalle varie religioni, è intervenuta in seguito e deve intervenire la filosofia per giudicare se esse siano “risposte motivate o razionali” oppure siano “risposte immotivate o irrazionali” e, in via particolare, se le tesi affermate dalle varie religioni siano altrettante “certezze” oppure siano solamente ed esclusivamente “speranze”. Nei confronti delle varie religioni pertanto la filosofia assume e deve assumere l’importante ruolo di «coscienza critica».

E ancora a questo proposito si deve riconoscere che in linea di fatto le religioni sono nel passato intervenute e tuttora intervengono a determinare l’atteggiamento dell’uomo rispetto all’eventuale Dio, ai suoi simili e pure riguardo alla realtà, molto più spesso e assai più ampiamente della filosofia e delle filosofie. Lo dico in un altro modo: nella storia umana, la “morale” degli uomini è determinata e guidata molto più spesso e molto più ampiamente dalle varie “religioni”, pure con le loro numerose irrazionalità, che non dalla filosofia.

D’altra parte c’è da considerare che la morale degli uomini intesa nel suo essere di fatto in effetti non entra nello studio della filosofia, mentre entra in quello della antropologia culturale e della sociologia. Alla filosofia invece la morale interessa nel suo aspetto deontologico, interessa cioè studiare e indicare la serie di doveri che si impongono agli uomini nel loro reciproco comportamento di convivenza. E io sono dell’avviso che questi doveri abbiano come basi fondamentali queste tre:

I. «Fa’ agli altri uomini ciò vorresti che sia fatto a te stesso».

II. «Non fare agli altri uomini ciò che non vorresti che sia fatto a te stesso».

III. «La tua libertà di azione è tanto ampia finché non trovi il suo limite là dove inizia una uguale libertà di ciascuno degli altri uomini».

La filosofia e le filosofie

19. Ho già fatto notare che dalla storia della filosofia risulta certo e anche evidente che a tutti i su elencati problemi filosofici non è stata data una risposta unica ed univoca dai singoli filosofi, mentre ne sono state date numerose e anche molto differenti. Tanto che è del tutto lecito parlare di varie e differenti “filosofie”, di vari e differenti “sistemi filosofici” (il vocabolo “sistema” implica un riferimento al carattere o almeno alla esigenza di una fondamentale coerenza intrinseca di tutte le sue singole parti).

La filosofia pertanto non può essere concepita come un “unico grande edificio” alla cui costruzione partecipino e contribuiscano i singoli filosofi con uno sforzo convergente e con una intenzionalità unitaria. La filosofia pertanto non può essere affatto paragonata alla “matematica”, nella quale invece quell’unico grande edificio esiste e alla cui costruzione partecipano e contribuiscono i singoli matematici con uno sforzo convergente e con una intenzionalità unitaria.

Come ho accennato in precedenza, è abbastanza chiaro che la pluralità delle “filosofie” è conseguente da un lato alla grande difficoltà dei problemi che i filosofi affrontano e tentano di risolvere, dall’altro alla circostanza che nei loro tentativi di risoluzione non interviene solamente la “razionalità” dei singoli filosofi, ma interviene molto spesso e pesantemente anche la loro “sensibilità” o “passionalità”, la quale “turba” in maniera più o meno accentuata la loro razionalità.

E non può essere diversamente: ad esempio, di fronte a quel problema ineludibile e ineluttabile, sostanzialmente umano e filosofico, che è la “morte”, come non può non essere differente il modo di atteggiarsi del singolo uomo e del singolo filosofo?

Invece una questione di “perturbabilità passionale” non si vede come possa sorgere in problemi tipici della matematica e pure di altre scienze esatte.

 

La filosofia e le varie scienze o discipline

20. Siccome l’uomo è anche un essere “biologico”, cioè vivente ed animale, è certo che lo studio che la filosofia fa intorno all’”uomo” debba essere strettamente agganciato allo studio che dell’uomo fa la «biologia», come “scienza degli esseri viventi”. In questo settore a me sembra senz’altro legittima e perfino doverosa la “distinzione” fra l’uomo e gli altri animali, ma non è affatto legittima la loro “separazione”.

Questa distinzione che la filosofia mantiene con la «biologia» è una distinzione che riguarda – in via metaforica – il “basso”; ma esiste anche un’altra distinzione e qui pure una separazione che riguarda l’”alto” della filosofia, quella nei confronti delle “religioni”, delle quali ho già parlato.

D’altra parte esistono anche rami della filosofia che studiano “i problemi ultimi e fondamentali di numerose discipline”: la filosofia del diritto, la filosofia dell’arte od estetica, la filosofia del linguaggio, la filosofia della storia, la filosofia delle scienze od epistemologia.

In tutti questi rami specialistici della filosofia l’intervento dei filosofi è legittimo e corretto ad una precisa e imprescindibile condizione: che essi abbiano almeno una “buona conoscenza” specifica di ciascuna delle suddette discipline umanistiche, delle scienze della natura e delle scienze esatte o positive. Se manca questa “almeno buona conoscenza specialistica”, si rendano conto i filosofi che i loro ragionamenti non sono altro che profusione di parole, di parole molto spesso prive di senso, le quali suscitano giustamente la reazione negativa degli studiosi che invece di quelle discipline e scienze sono specialisti.

D’altra parte è bene precisare che, quando gli “scienziati” procedono a trattare i “problemi ultimi e fondamentali delle loro scienze”, senza tralasciare di essere “scienziati”, in effetti si trasformano anche in “filosofi”. E in questo loro avvicinarsi alla “filosofia” gli “scienziati” molto spesso operano assai meglio di quando i “filosofi” si accingono a trattare questi stessi problemi.

Infine appartiene al dominio della filosofia anche un altro suo ramo, il quale non rientra nella caratterizzazione e definizione or ora prospettata della filosofia stessa. Si tratta della logica, la quale studia il vario e corretto modo di combinarsi delle idee o concetti dell’uomo, dei suoi giudizi e dei suoi ragionamenti. Questo particolare ramo della filosofia può essere lecitamente collegato con quella scienza delle “verità di ragione” che è la matematica; tanto è vero che è stata anche creata una “logica matematica o simbolica”, la logistica.

 

La filosofia e la “fine ultima”

21. Nella vita dell’uomo due momenti sono fondamentali e assolutamente determinanti: il “nascere” e il “morire”. Sul suo “nascere” il singolo uomo non può fare assolutamente nulla, dato che la “vita” gli è stata data ed imposta totalmente ed esclusivamente dai suoi genitori. Sul suo “morire” o sul suo “finire” invece l’uomo può e deve interloquire con svariate modalità e decisioni. Le fondamentali decisioni del singolo uomo sono due: o l’attendere che la morte venga da sé oppure il decidere di darsela da se stesso col “suicidio”.

Anche in questo caso, anzi soprattutto in questo caso della “morte” o della “fine ultima dell’uomo” sono intervenute nel passato ed intervengono quasi sempre nel presente le religioni a prospettare le loro rispettive soluzioni. Anzi sull’argomento ha affermato – ritengo giustamente – Epicuro che la causa prima o la ragione essenziale del nascere della religione è la “paura della morte”; è cioè la possibilità che essa ha di offrire agli uomini il conforto riguardo a quell’evento sicuro e da tutti atteso con timore e pure con terrore, che è la “morte”.

Ovviamente non si può negare il diritto alle varie “religioni” di prospettare le loro soluzioni circa «l’essere e l’operare dell’uomo nel mondo, il suo agire nei confronti dei suoi simili e soprattutto circa il suo sperare in una vita dopo la morte»; senonché tutto quanto le “religioni” dicono e possono dire su questi problemi, non è affatto “filosofia”, è invece solamente ed esclusivamente “religione” appunto.

D’altra parte è del tutto certo che la filosofia non può tralasciare di affrontare anch’essa, con argomenti filosofici ossia razionali, il problema universale, ineluttabile e temibile della “fine ultima” o “morte”. Non si può nemmeno negare che sulla «speranza dell’uomo in una eventuale vita futura» pure la filosofia possa e debba prospettare la sua soluzione. Non è stato per caso che quel grande filosofo che fu Platone affermò che la «filosofia è la considerazione della morte»; e quell’altro maestro della civiltà europea che fu Michel Montaigne affermò che «la filosofia insegna a morire». La “morte” non è una cosa da nulla, un episodio trascurabile nell’essere e nell’operare dell’uomo e per questa ragione non può essere ignorata o trascurata neppure dalla filosofia. 

Del citato Epicuro è abbastanza nota la sua presa di posizione di fronte alla morte: «Quando ci siamo noi, la morte non c’è, quando c’è la morte noi non ci siamo». Ma è questa una risposta adeguata al problema della “fine ultima” dell’uomo? Questa risposta può essere adeguata per quando la morte ormai è venuta; ma non è affatto adeguata per quando essa sta per venire, quando la si vede e la si teme venire, anche per i suoi effetti fortemente invalidanti, come i morbi di Halzheimer e di Parkinson, quando tarda a venire e soprattutto quando si soffre – anche parecchio – nella sua attesa.

Di fronte alla recente morte di una mia abbastanza giovane figlia, madre di tre ragazzi, un’altra mia figlia mi ha fatto, suppergiù, questo assai sensato ragionamento: «Rispetto alla morte non conta il suo venire (che è immancabile), ma conta il modo in cui essa viene»; e per fortuna essa per mia figlia è venuta – almeno così ci sembra – non troppo male, senza lunghe sofferenze e, forse, senza piena consapevolezza da parte sua.

Ma, quando la morte tarda a venire ed è preceduta da una lunga e dolorosa agonia, quale risposta razionale dà e può dare la filosofia?

Su questo problema della “morte” sono da sottolineare due circostanze importanti: I) Il problema della “morte” è un problema “perenne”, che cioè ricorre sempre nella storia degli uomini e del singolo uomo e ciò dimostra anche la “perennità” della filosofia e pure della religione. Il sapere di tutte le altre scienze o discipline è “caduco”, “transeunte”, “provvisorio”, nel senso che un loro stadio precedente viene sempre superato dal loro stadio successivo (esclusa la matematica): si pensi al veloce scadimento cui va soggetta la medicina sia come scienza sia come arte. Invece il sapere della filosofia non scade mai, ma si presenta sempre tale e quale ad ogni generazione di uomini e, anzi, ad ogni singolo uomo. Ed anche in questo consiste la “superiorità” della filosofia nei confronti delle altre scienze o discipline. II) Sul problema della “morte” si incontrano e pure si scontrano da una parte la filosofia e le filosofie, dall’altra la religione e le religioni, con le loro rispettive soluzioni che talvolta convergono, tal’altra divergono radicalmente.

A questo punto non mi riesce difficile immaginare la reazione negativa che la maggioranza dei miei lettori, soprattutto se giovani, faranno alla circostanza che io stia terminando il mio discorso con un vero e proprio “cantico di De Profundis” fatto intorno al problema della “fine ultima” o della “morte” e penseranno che ciò dipenda dalla mia molto avanzata età (91 anni). Ma questa non è una colpa mia e tanto meno della filosofia; egregiamente dice un proverbio popolare: «I vecchi debbono morire, ma i giovani possono morire». Si pensi alle numerose morti di giovani causate dal continuo uso di droghe; si pensi alla strage di giovani che si verifica settimana per settimana dopo le nottate passate nelle discoteche. E nell’uno e nell’altro caso non c’è verso di far cambiare le abitudini ai giovani. Si pensi alla morte di milioni di bambini uccisi dalla fame e dalle malattie; alla strage di giovani stroncati dalle innumerevoli guerre e guerriglie che insanguinano in maniera permanente molte parte del nostro pianeta. E non c’è verso di convincere gli uomini a fare finalmente la pace ed a procedere a istituire la giustizia.

Non si può pertanto negare – lo si voglia oppure no – che abbiamo continuamente di fronte un grande “quadro di morte” nel mondo, certamente effetto anche dell’assenza della “razionalità” da parte degli uomini, cioè effetto anche dell’assenza della “filosofia”.

E concludo pertanto affermando che la filosofia ha un suo posto, solido, dignitoso, regale ed anzi “fondamentale” nel quadro della vita e del sapere degli uomini.

D’altronde, se non fossi del tutto convinto di questo, sarei in disaccordo con me stesso, posto che sono autore del presente saggio, il quale è e vuole essere un sensato “piccolo saggio di filosofia”. In esso a me sembra soprattutto di avere mostrato e dimostrato che il “linguaggio” è uno strumento assolutamente indispensabile per chiarire, approfondire e definire le nostre “idee” e per rendere corretti e veritieri i nostri “ragionamenti”, ma insieme può costituire un pesantissimo fardello e un gravissimo impedimento per la definizione delle nostre idee e per il procedere dei nostri ragionamenti. Pertanto ritengo di aver dimostrato che il filosofo rispetto al linguaggio è come un «equilibrista», il quale pencola continuamente fra l’asserire idee e tesi esatte e profonde e il pronunziare parole del tutto prive di senso o di significato.

Featured image, Morte di Socrate, tela di Jacques-Louis David.


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