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Foschia settembrina

Da Zarizin

di Margot

Idi di settembre. L’estate si avvia, ogni giorno con passo più sostenuto, verso la conclusione e si inizia a respirare anticipatamente l’atmosfera di pre-letargo tipicamente autunnale. Sì, perché questo è l’inverno: il letargo. La bella stagione si porta via quella delicata, innocentissima leggerezza che negli ultimi tre mesi ha colorato a tinte pastello le nostre ore, serate e nottate di interminabile spensieratezza.
Ora ne porteremo dentro il dolce ricordo. Tra qualche mese – o forse sarà solo questione di giorni – quella ragazzina ingenua che si ostina a soggiornare prepotentemente dentro di te si rifugerà in un angolo della propria stanza a riguardare foto, riascoltare musiche, odorare la crema solare e sfiorare gli abiti velati che ancora profumano di mare; tenterà di risvegliare i più suggestivi ricordi, cercando in essi l’evasione dalla monotonia del quotidiano vivere. Riesco già a prefigurarmela mentre ripercorrendo trasognata frammenti d’estate si lecca il labbro inferiore, come a cercare stupidamente qualche residuo di salsedine e resuscitare (con un presunto effetto Madeleine) la sensazione dei raggi luminosi che le carezzano la pelle. Mai come in estate il vibrante calore del Sole, forte e rassicurante, è capace di isolarla, avvolgendola in un guscio protettivo. Per un attimo quel benessere le appartiene ancora, per qualche secondo si sente rigenerata. Poi in un batter d’occhio l’incantesimo s’infrange: la sua fantasia adolescenziale ripiomba pesantemente nella realtà, quel guscio che un istante prima la rendeva intoccabile si sgretola nell’impatto.
Anche qui a Parigi (nonostante turismo perenne, locali notturni, divertimenti e attrazioni culturali di ogni genere si coalizzino per eclissarti 365 giorni l’anno in una dimensione vacanziera) percepisco inaspettatamente quel solito senso di foschia. Foschia non è solo il polveroso velo atmosferico che vedo poggiarsi su Notre-Dame e su tutto l’Ile de la Citè, guardando fuori dalla mia timida finestra in rue de Bucherie. Foschia è fuori e dentro: i colori opacizzati, i tratti sfocati di strade ed edifici, le guglie della cattedrale che sembrano dissolversi nell’aria pesante, tutta Parigi è di colpo informe ed io mi confondo col grigiore del cielo. D’un tatto la foschia è fuori e dentro, mi travolge e mi trapassa, ma non mi provoca dolore. Mi dà solo noia, un irritante senso di non senso, il mio entusiasmo si spegne e perdo qualsiasi residuo di reattività. Ci sono ricascata: l’estate ancora una volta si è portata via la mia voglia di reagire, di fare e strafare, di amare. Il mio già precario ottimismo va uniformandosi alla piattezza dei sensi, che si assopiscono gradualmente.
Ripenso allora ad un anno fa’, quando davo la colpa al mio piccolo paesino di provincia che mi costringeva da più di vent’anni alla monotonia esistenziale. Ed invece sprofondo ancora una volta in quel torpore che il saggio Orazio definirebbe “funestus veternus”, del quale anch’egli infine si riconosce paradossalmente prigioniero,incapace di agire coerentemente con i propri precetti morali. Mi rifletto nelle sue ultime (a pochi note) epistulae, dove egli comprende la vanità del viaggio come fuga alla ricerca di un illusorio habitat ideale: equilibrio e benessere non si possono realizzare che nella pace interiore, ogni spostamento per rincorrere una gioia esterna si rivela inutile. E non c’è carpe diem che tenga.
Ho imparato la lezione: ora mi preparo, o meglio mi arrendo all’idea di affrontare il mio invernale veternus, malinconicamente qui nella ville la plus belle d’Europe così come nel mio paesino natale.

Pubblicato in:Racconti

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