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Foto di famiglia

Creato il 16 dicembre 2010 da Fabry2010

di Alfonso Nannariello

IIIIIIIVVVIVIIVIIIIXXXIXIIXIII - XIV

XVXVI

 

Bloccate dai lampi di magnesio,

le inquadrature sul vetro smerigliato,

allora nessuno lo sapeva,

erano quelle che si sarebbero

impresse dentro il nostro occhio.

Incancellabili i volti con le pose

di quegli esseri di rango,

di quegli dèi eccelsi

con le scarpe sporche di fango.

Le fotografie erano una prova della propria identità. Avendo tutti la stessa elevatezza nell’ordine delle cose esistenti, in quelle di allora non c’è differenza di posa, di impostazione o di decoro.

Per chi restava diventavano quasi oggetto di culto. Le persone ritratte sembrano ritratte una volta per tutte,  con un’aura traslucida intorno a loro.

In vista tra i vetri e le cose di casa, i fotografati erano più santi dei santi sul comò. Loro, prima che fossero consacrati dalla morte o da un’altra distanza, s’erano toccati uno ad uno, e s’erano impressi dentro dal palmo della mano.

A guardare quelle foto tutto balzava indietro, ai sensi, al tatto, a tutto quell’affetto che ora ricadeva su un oggetto.

C’erano anche foto di famiglie intere: nonni, genitori, figli, nuore, nipoti. Erano generazioni, genealogie quasi complete. Storie di tutta una casata.

Scritte con la luce di quell’aura, dentro le figure erano forse quasi ancora vive. I baci che, devoti, loro si davano se per poco non affermavano che i ritratti erano sensibilmente lì, di certo confidavano che avrebbero avvertito quella tenerezza, che si sarebbero sentiti lambiti, se non proprio dalle labbra, almeno da una carezza.

Consacrati alle tinte scure, dentro quelle foto avevano tutti lo stesso atteggiamento. Dentro la stessa intonazione, un’onda di risacca.

A cosa stavano pensando nel momento della posa? Come si sentivano? Cosa avvertivano tra i denti avanzato al cibo, quale sapore in bocca?

Non stavano pensando ad altro, ne sono sicuro, se non a fare bene quello che stavano facendo. Credo si impostassero sul torso concentrando in esso tutto lo spirito richiamato dalle periferie del corpo dov’era sparso. Credo lo radunassero in quel punto per venire tutti interi nello scatto. Al resto non credo facessero poi caso. Il resto, era in quel momento come abraso.

Raccogliere lo spirito deve essere stato naturale anche per i bambini. Pure loro, infatti, in quelle foto, hanno la stessa struttura, la stessa consistenza e durezza dei genitori. Gli dèi, in effetti, nascono già dèi.

Il fotografo non lo immaginava che, impressi in latenza su vetri in negativo, i sali d’argento avrebbero rivelato quegli esseri come querce e monti tra nubi dense indurite dal gelo, come esseri confusi con il cielo.

Consacrati alle tinte scure, dentro quelle foto quegli uomini avevano tutti la stessa espressione, solo una sommessa differenza d’accento. Su fondali dipinti con interni classici c’erano i soggetti con posture erette appoggiati a una consolle o a un mobile intagliato. Solo dall’abbigliamento si distinguono le classi, irrigiditi alcuni dagli amidi ai colletti.

Soltanto i genitori erano seduti. I padri con le mani sulle gambe appena un po’ divaricate, sembravano la pietra angolare di tutta la famiglia. Le madri erano loro accanto, con l’abito tradizionale e le mani sulle ginocchia unite. Il figlio appena nato lo teneva la mamma in braccio, gli altri erano tutti intorno, in piedi.

Consacrati alle tinte scure, dentro quelle foto anche gli abiti erano quasi tali e quali. Gli uomini con la giacca, la camicia e il panciotto. A qualcuno, a volte, all’occhiello o tra un’asola e il taschino, brillavano brevissimi bagliori. Le figlie più giovani con un vestito semplice, a volte con la cinta o qualche piega su un lato della gonna, all’altezza del ginocchio. Di tanto in tanto qualche vestito a fiori.

A volte me le immagino cacciare quegli abiti sepolti con le grucce dal chiuso dell’armadio. Me le vedo lasciarli un poco appesi all’aria per far perdere l’odore dello scuro. Me le immagino, prima di indossarli, per essere più belle, lavarsi per bene i piedi, il collo con le orecchie, e poi le ascelle.

Qualcuna la vedo, nella neve smossa dal vento, dentro il suo cappotto con il suo passo lento.



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