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Fotografia: intervista a Roberto Canò: tra Franco Pinna, Roma e il Vulture

Da Giovannipaoloferrari

Fotografia: intervista a Roberto Canò: tra Franco Pinna, Roma e il Vulture.
La fotografia viene presentata come un mezzo per poter dire tutto. Ciò non è vero?
Le immagini fotografiche sono un mezzo per esprimere molteplici intenzioni. Crediamo fermamente che la fotografia sia una forma artistica, soprattutto ?nell?epoca della riproducibilità dell?opera d?arte?, come avrebbe detto Benjamin. Ma quando la fotografia diventa denuncia, testimonianza, assume tutt?altro valore: va oltre l?arte per sé e si pone al fianco di chi è dimenticato, di coloro che Frantz Fanon chiamò ?i dannati della terra?.
Per esplorare questo campo alquanto complesso e di grande attualità abbiamo intervistato Roberto Canò, fotografo romano, da sempre impegnato nel mettere a nudo le problematiche sociali che attanagliano il nostro Paese e innamorato della terra lucana.
Può raccontarci la Sua esperienza di fotografo e la decisione che l'ha portata ad intraprendere questa difficile strada?
Si, ecco difficile è l?aggettivo giusto!? Ho iniziato nel 1986. Allora era tutto diverso: non c?era stata ancora l?ondata dei nuovi mezzi di comunicazione e delle nuove tecnologie sul mercato e, per inciso, si poteva lavorare meglio? Nell?86 avevo ventitré anni e, iniziare un percorso come fotografo era, per me, un ?andare controcorrente?, perché provenendo da una famiglia operaia è chiaro che non sei agevolato nel fare certe scelte o, meglio, è la tua condizione che te lo impedisce. Se vai a vedere da chi è formato il ?popolo? dei fotografi, di fatti, ti accorgerai che è tutta gente che proviene dai ceti sociali più agiati, tranne, naturalmente, le dovute eccezioni. Il mestiere di fotografo, alla fin dei conti, è un mestiere elitario e chi sceglie questa strada, a volte, è la ?pecora nera? di qualche famiglia dell?alta borghesia.
Oggi, però, la passione per la fotografia è dilagante tra i giovani?
Si, perché forse la fotografia viene presentata come qualcosa attraverso cui puoi dire tutto. Ciò non è vero: se la fotografia non viene scattata in una certa maniera, in realtà, non dice nulla. Si vedono molti fotografi che corrono, si agitano, si dimenano, ad esempio, ma alla fine i loro scatti non trasmettono poi molto? Molti partono e vanno dove sono in corso delle guerre: in Afghanistan, in Rwanda. A me, invece, interessa parlare dell?Italia, dove c?è molto da dire? Penso che sia più importante riuscire a descrivere il posto dove vivo, anziché andare in altre parti del mondo dove non saprei davvero come immortalare sulla pellicola altre esperienze, altre da me, senza averne alcuna percezione. Non so se, in quel caso, sarei capace di esprimere quello che quei volti realmente vorrebbero esprimere, non avendo cognizione delle esistenze che sono nascoste dietro quei volti.
Ritornando ai Suoi primi passi? a ventitré anni chi era Roberto Canò?
Avevo finito il liceo e nessuno si era preso la briga di spingermi a fare il fotografo. Nessuno mi aveva detto: ?Prendi la macchina fotografica in mano e vai per il mondo?. Certo mi ero avvicinato a questo universo vedendo e studiando il lavoro di chi mi interessava allora, come Franco Pinna ed altri. Rimasi colpito, all?epoca, dalle foto di Pinna sulla Lucania, sulla Puglia dei ?Tarantolati?. Una sorta di ?fotografia etnografica?, che, ancor oggi, mi smuove qualcosa dentro facendomi sentire vicino a quei ritratti di ?contadini del Sud?, come direbbe Rocco Scotellaro, come se ci fosse una sorte di ?affinità elettiva?, che mi legasse a quel modo di fare fotografia e a quel mondo, che mi ha indotto a prendere delle strade e ad escluderne altre. In un primo momento, agli inizi della mia carriera, era quasi come se io volessi cambiare il mio destino, vedendo i miei genitori che tornavano tutti i giorni a casa sotto il peso del lavoro in fabbrica. Il mio, probabilmente, è stato un tentativo di affrancamento da quella condizione, ma , in realtà, non mi sono affrancato da nulla, perché sono rimasto quello di prima. Non ho cambiato la mia vita, almeno sotto il profilo economico, attraverso la mia professione. All?inizio pensavo ad una cosa del genere, ma dopo poco ho compreso che le cose non vanno così, perché le cose che faccio, di cui mi occupo non mutano la vita in quel senso. Tra l?altro muovendomi in determinati ambiti e facendo un certo tipo di fotografia mi sono fatto ?odiare? dai giornali, da quelli che dovrebbero essere i miei ?referenti?. Quando cerchi di vendere le foto a questi giornali, che credi siano partecipi del tuo convincimento, noti immediatamente un ?muro di gomma?. Negli anni ?60 e ?70 si pensava che la fotografia potesse cambiare qualcosa, invece non è vero? la fotografia non incide minimamente in certi ambiti. Ad alcune redazioni giornalistiche non interessa affatto il senso, il significato di quello che fai: interessa solo se una foto è da scoop! Puoi pensare che il tuo lavoro, il tuo impegno, possa interessare a certe persone, ma, invece,? nel mio caso, ad esempio, parlo della ?sinistra?: intendo quella sinistra che si glorificava, che si vantava di assumere come cavalli di battaglia il Meridione, le lotte sociali, dove la figura del fotografo veniva vista come un?avanguardia, invece non è vero un tubo!? I bastoni tra le ruote sono proprio loro a metterli per primi. Ti creano milioni di difficoltà e ti sbattono continuamente la porta in faccia.
Però alcune immagini non è vero che non cambiano le cose?
Beh!? Può cambiare la prospettiva, il modo di vedere le cose?
Le immagini sviluppano anche una certa influenza in chi le osserva, le guarda?
Questo non lo so, sinceramente! Non ne sono sicuro!?
Il Suo discorso fa riferimento al fatto che quelli che Lei ha chiamato ?referenti? non fanno passare un certo tipo di immagini, poiché ne propongono, comunque, altre che impongono all?attenzione dell?opinione pubblica?
?propongono il punto di vista dei vincenti! Ti invito a sfogliare qualsiasi giornale o rivista italiana: troverai immagini, che non sono nient?altro che uno specchio dove si riflette il pensiero dei vincitori. Emblematico è il caso degli statunitensi fotografati, trionfalmente, nei palazzi di Saddam Hussein qualche mese fa. Siamo abituati a ?vedere? con gli occhi dei vincitori, grazie al fatto che quotidianamente veniamo inondati di immagini banali, comuni, di fotografie che non fanno pensare, incapaci di raccontare qualcosa.Tempo fa ho visto una rivista tutta incentrata su immagini di guerra: dalla Bosnia alla Cecenia , dal Rwanda al Kossovo. Un?orgia di immagini da?Grand Guignol?, un festival dell?orrore: soldati serbi uccisi da cecchini, mutilati afghani, profughi Kurdi . Tutto ciò presentato con il facile alibi della ?denuncia?, della ?testimonianza?, di un malinteso ?diritto di cronaca?. Credo che troppo spesso l?immagine fotografica si faccia scudo di queste sacre ragioni, ma ciò si verifica quando non ha niente da dire. Un?immagine di soldati serbi uccisi da miliziani dell?UCK non dice più di quello che vuol dire. È lapalissiana, ma anche infantile: dice quello che tutti noi sappiamo: la guerra fa morti, e che questi morti sono morti per pallottole. Sono immagini di una semplicità spaventosa, dettate dall?ignoranza, da una superficialità abissale che molti fotografi portano con sé, proprio perché non ?coscienti? di ciò che vanno facendo e perpetuano, d?altro canto, quella grande mistificazione del ?GRANDE INVIATO DI GUERRA?, del ?testimone? con le macchine fotografiche a tracolla, che ha sfidato i più grandi pericoli per riportare in Occidente immagini ?sensazionali? e di sicuro effetto. Rendendo eterna anche la convinzione, comoda per noi, che ?loro sono dei selvaggi? e che quelle immagini non potranno mai ripetersi da noi!? Le fotografie possono cambiare qualcosa, il modo di vedere le cose, il punto di vista?, però è sempre un discorso elitario!
La fotografia può essere una professione, un mestiere, può essere separata da una coscienza, dall?arte?
No, non credo che possa essere separata dalla coscienza dell?individuo: è chiaro che non siamo tutti uguali. C?è un paradosso a tal proposito: credo che chi provenga da famiglie proletarie si ritrovi, generalmente, a fotografare il ?Potere?, ad entrare in agenzie, che gli danno la possibilità di andare avanti, come si dice: ?di mettere il pranzo con la cena insieme?. Mentre la ?fotografia alta?, che tratta drammi universali o almeno pensa di trattarli, molto spesso è fatta da gente proveniente dall?alta e media borghesia. Alla fin dei conti la fotografia è un discorso di classe.
Chi fotografa gli operai?
C?è chi li fotografa ancora, me compreso!?Ma purtroppo sto trovando sul mio cammino molte difficoltà, perché questo tipo di fotografia non interessa a nessuno, solo a pochi! Come se gli operai non esistessero più , invece, ci sono!?
Nel Suo percorso si è imbattuto nelle comunità ?Rom?, nel disagio in fabbrica, nella ?Questione Meridionale?, nei movimenti studenteschi. Che cosa ha significato per Lei conoscere da vicino tali realtà?
Queste esperienze sono state molto importanti, forse troppo importanti! Perché certe cose entrano nella tua sfera privata: credo che la fotografia fatta in una certa dimensione e sentita in un certo modo non fa diventare ricchi, fa diventare più soli, paradossalmente. Non che pretendessi di diventare benestante, ma non sopporto l?ostracismo di chi ti dovrebbe prendere le foto nelle redazioni, ma non lo fa perché intuisce che quegli scatti sono ?pericolosi?, perchè descrivono un?altra realtà da quella che propinano i giornali alla gente. Il coinvolgimento è altissimo! Come quando sono stato a Termini Imerese: la tensione si tagliava nell?aria! C?erano questi operai che avevano perso tutto ed io mi ero presentato con la mia macchina fotografica. Sembravo un ?Dottor Livingstone?, un avventuriero dell?800, in piena epoca di viaggi alla scoperta di nuovi mondi, che va in Africa alla ricerca degli ottentotti o dei pigmei, con un misto di stupore bambinesco, di falsa coscienza civilizzatrice, ma, in realtà, impersonando un vero colonizzatore, essendo al servizio della Corona britannica; come molti miei colleghi, del resto, che alla stregua di avventurieri, di ?turisti per caso? imbracciano la macchina fotografica negli angoli più sperduti del pianeta. Credo che in posti come Termini Imerese, tra quella gente, sia più difficile scattare una foto rispetto che in Afghanistan o in Cecenia. In questi luoghi trovi la disperazione totale della guerra ed in quel caso si tratta soltanto di ?passeggiare? nella distruzione, tra le macerie ed immortalare la desolazione del nulla. Tutt?altro è, invece, passeggiare tra le macerie fisiche e mentali di gente che ha perso tutto in un Paese dove non c?è alcuna guerra in atto o, perlomeno, una guerra plateale fatta di fucili e cannoni. E? una guerra sotterranea, di tutti i giorni, dell?operaio che non può più comprare il pane ai figli, perché ad un certo punto l?azienda ha detto basta! In Italia non c?è una guerra, ma, probabilmente, c?è, come diceva Pasolini, una sorta di ?genocidio culturale?. Lì a Termini Imerese non ero solo un fotografo, un novello ?dottor Livingstone?, lì ero uno di loro, un operaio spossessato di tutto ciò che possedesse: il suo lavoro!?
Da dove nasce il Suo interesse per la Basilicata? Per un mondo, quello del Meridione d?Italia, che, oggi, viene trascurato dai fotografi di professione, ma anche dal giornalismo impegnato?
La terra lucana mi ha attratto a sé, come ho già detto, dopo aver subito la fascinazione della fotografia di Franco Pinna. Il suo lavoro è molto importante: riconduce il discorso alla funzione che ha o che dovrebbe avere la fotografia. In Pinna l?immagine è consapevole, va al di là del testo scritto: è testimonianza e nello stesso tempo presa di coscienza. Viviamo di luoghi comuni e il luogo comune della fotografia asserisce: ?Una fotografia vale più di mille parole!?. Non so se una fotografia possa valere più di mille parole; forse in alcune circostanze è così, è stato così? come nel caso di Pinna? oppure come nel caso di un grande fotografo americano William Eugene Smith. Ecco! Probabilmente Smith è stato l?unico fotografo che è riuscito a parlare con le immagini. Nei lavori di fotografi come Pinna o Smith ammiro ?l?onestà dello sguardo?, ?l?ecologia della visione?, che ridà dignità alla gente del Sud, ai migranti, agli operai, ai Rom che da sempre hanno visto abbattersi su di loro la ferocia dell?ingiustizia. La grandezza di questi fotografi è che con molta onestà e modestia si sono posti al servizio di chi sta ai margini, di chi c?è, ma non esiste per il ?mondo?.
Perché Lei fotografa in ?bianco e nero??
Credo che il bianco e nero rispecchi quasi una nudità: mette a nudo tutto ciò che c?è da vedere, capire ed interpretare nel soggetto immortalato. Il bianco e nero restituisce onestà all?immagine. Mentre il colore distrae l?attenzione dal soggetto, non riesce a trasmettere tutto ciò che c?è da capire: pensa alla fotografia che ho scattato nel Vulture, in Basilicata, della mamma con il figlio; se fosse stata a colori l?attenzione dello sguardo si sarebbe spostato sul fazzoletto rosso che ricopre il capo della donna, avrebbe vagato per un po? per il verde delle colline senza soffermarsi sull?espressioni dei soggetti. Il bianco e nero pone l?accento sui caratteri del soggetto, sul viso della donna, sulle rughe del viso, sullo sguardo sognante del bambino, sulle mani callose della donna che stringe a sé il suo piccolo.
Che cosa L'ha attratta della Basilicata?
La gente. Quando sono arrivato nel Vulture mi è sembrato di ritornare indietro negli anni: è come se quei volti mi riportassero indietro nel tempo, erano volti di migranti, che salivano al Nord con le loro valigie di cartone e le loro facce abbronzate dal sole nei campi di grano. È come se in Basilicata il tempo si fosse fermato: ormai quegli sguardi non esistono più, bisogna ricercarli! In Lucania ne ho trovati alcuni. È come se questa terra non fosse stata toccata da quello che, come dicevo prima, Pasolini chiamava ?genocidio culturale?.
Alcuni giorni dopo la pubblicazione dell'intervista che avete appena letto è intervenuto direttamente il fotografo Roberto Canò per fare alcune illustri precisazioni. Leggiamo di seguito quello che intende comunicarci...
"Volevo ringraziare l'amico e vostro collaboratore Giovannipaolo Ferrari, per l'intervista sulla Fotografia che Lucanianet.it ha pubblicato qualche settimana fa. Ho una piccola precisazione da fare riguardante un passo dell'intervista.
Alla domanda: "Nel suo percorso si è imbattuto nelle comunità Rom, nel disagio di fabbrica, nella
'Questione meridionale'...", c'è nella mia risposta una, chiamiamola così, ambiguità, dettata dalla forma estremamente colloquiale da me adottata durante l'incontro con Giovannipaolo Ferrari. Il brano è questo, nella versione attuale: "Sembravo un 'Dottor Livingstone', un avventuriero dell'Ottocento, in piena epoca di viaggi alla scoperta di nuovi mondi...".
Ebbene, il riferimento al 'Dottor Livingstone', arrogante e presuntuoso colonizzatore bianco al servizio degli Inglesi, non può essere riferito a me, come invece si evince nel passo dell'intervista, ma a quei miei 'colleghi', inviati di guerra o meno, che si muovono tra le macerie morali e materiali di un paese, di un gruppo di persone, con la disinvoltura di 'turisti per caso', con la leggerezza di un elefante in un negozio di cristallerie, con uno spirito avventuriero d'altri tempi, infantili e arroganti al tempo stesso.
Quindi il riferimento è "a quei novelli Livingstone, che si aggirano tra le macerie fisiche e mentali...", privi, tra l'altro, di quella 'coscienza politica' alla quale Giovanni fa riferimento poco prima (La fotografia può essere una professione, un mestiere, può essere separata da una coscienza, dall'arte?). Io, durante la lotta alla Fiat di Termini Imerese, non potevo che essere 'naturalmente' solidale con quegli operai, essendo io figlio di operai, e assolutamente non avrei 'passeggiato' in mezzo a loro alla 'maniera di un moderno Livingstone', a scapito del senso di tutto quello che ho detto precedentemente nell'intervista.
?Il mio interesse per le lotte del movimento operaio non è dettato da snobismo, da un operaismo di vecchio stampo e nemmeno da una mia identificazione con gli operai, non sono un operaio tra gli operai (poiché io non conduco la loro stessa vita, sfruttati otto ore alla catena di montaggio, non per loro scelta: anche io ho una vita difficile, ma scelta da me in totale autonomia), ma la mia, diciamo così, solidarietà va a coloro che ogni giorno subiscono la violenza del ?Potere?, siano essi davanti ai cancelli di una fabbrica, o nelle giornate di Genova, o nello sgombero di un campo nomadi. Credo che le immagini attengano più ad una questione etica, morale, che ad un affannoso ?documentare? giorno per giorno, neanche fossimo dei verbali di polizia viventi. Ecco quindi da dove nasce la mia ?critica? ad una nuova generazione di fotografi disposti a tutto, nel nome di una velocità acritica e inconsapevolmente supina a quello che i giornali vogliono mostrare. O forse a questo punto anche consapevoli di fare il gioco dei ?padroni del vapore?, contenti di impersonare il fotografo-tipo, come nei film americani.
Ed ecco perché non ho mai creduto alla ?fotografia che vale? le fatidiche MILLE parole! Mi sembra
che questo slogan sia stato inventato proprio per depotenziare certe immagini, per sterilizzarle, e non a caso sono sempre pronunciate da chi non si interessa di immagini fotografiche, da chi non le comprende, da chi non sa leggerle. Marc Ferro, uno degli storici degli ?Annales?, gli stessi di Marc Bloch, scriveva in proposito: E? evidente che gli storici non hanno mai pensato di studiare la fotografia come fonte storica. E non l?hanno fatto perché gli storici non si sono mai sognati di tentare la critica alla propria professione: criticano i propri metodi ma non criticano la teoria dei propri metodi? Ora, in nessuna società dell?immagine, il film, la fotografia o il quadro intervengono come fonte storica, perché dal tempo della Chiesa, dal Medioevo, l?Occidente è diretto dai chierici, cioè da gente della scrittura non da gente dell?occhio, non da gente dell?orecchio. L?orecchio, l?occhio sono privilegi delle società rurali, vinte dalla Storia. (?) Ciò che emana dall?orecchio e dall?occhio ha meno valore di ciò che emana il cervello. Non si sanno leggere le immagini, un?immagine è considerata come qualcosa di subculturale? L?immagine come fonte d?informazione non è mai stata presa in considerazione. Si considera l?immagine un?arte ? la pittura, un po? meno la fotografia ? ma non fonte scientifica.
Spero di aver chiarito il fraintendimento da me causato per una eccessiva colloquialità".
Con stima,
Roberto Canò


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