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Galato, Giuseppe - Breve guida al suicidio

Creato il 10 ottobre 2013 da Ilibri
Galato, Giuseppe - Breve guida al suicidio Galato, Giuseppe - Breve guida al suicidio

Il giornalista Giuseppe Galato ha risposto con puntualità alle nostre domande sul suo Breve guida al suicidio, pubblicato da Edizioni La Gru (2013), fornendoci interessanti spunti di riflessione sul tema trattato e sulla scrittura in generale. Scritto sotto forma di saggio, Breve guida al suicidio si presenta subito come un ritratto impietoso e ben poco incoraggiante  della società contemporanea, in cui gli individui si condannano ad una sorta di autodistruzione cerebrale di gruppo, mediante la condivisione di schemi sociali e comportamenti errati.

 

 

D: Il tuo libro vuole essere una critica, neppure troppo velata, alla società moderna e alle sue controindicazioni: l’ansia, le frustrazioni, l’iperattività, la superficialità, il mordi e fuggi, l’usa e getta, il fast food e così via. Il suicidio non è una moda, ma quello che ci descrivi tu appare come una soluzione “surreale” allo schifo che ci circonda….E’ così?

 

R: No, non trovo che il suicidio sia una soluzione (altrimenti, forse, mi sarei già suicidato): trovo che però ci sono molti modi per suicidarsi, non necessariamente ponendo fine alle proprie funzioni biologiche ma magari “suicidando” il proprio intelletto: in un passo di “Breve guida al suicidio” dico, appunto, “Ma in cosa consiste il suicidio? In generale nell’autoterminazione delle proprie funzioni biologiche, anche se molte persone sembra riescano a porre fine alle proprie esistenze rimanendo in vita anche per molti anni, magari guardando soap opera o cimentandosi in attività similari”. L’essere umano ha un intelletto smisurato, eppure sembra usarlo ben poco: basta pensare alla violenza che giornalmente perpetriamo, contro il nostro vicino di casa, contro una popolazione intera, contro una fazione opposta, contro noi stessi nel non volerci bene. Thanatos? Sarà. Le pulsioni inconsce sono forti: quindi consiglio a tutti di andare in analisi. Perché, parliamoci chiaro, la violenza che perpetriamo noi, sia fisica che psicologica, non è quella data in natura, istintiva. O meglio, molti animali perpetrano violenza gratuita (pensa al gatto che gioca col topo non per mangiarlo ma per un “gioco di morte”) ma la differenza fra noi e loro sta nel fatto che noi siamo ipocriti, ci scandalizza la violenza ma poi aneliamo ad essa, alla distruzione. Ieri sono stato a teatro, in scena c’era Gianluigi Tosto in uno spettacolo tratto dall’Iliade, e in particolare incentrato sul conflitto Patroclo/Ettore/Achille: una cosa spaventosa, morte e distruzione, conquista e appropriazione (indebita). Ad ogni modo mi dispiace non tanto per gli esseri umani brutalizzati da questa smania di potere (perché la distruzione che perpetriamo si basa pressoché su quell’unico dettame) ma mi dispiace più che altro per il pianeta, perché l’abbiamo irreparabilmente distrutto. In un’intervista da me realizzata a Luca Romagnoli del Management Del Dolore Post-Operatorio, parlando di ecologia, mi disse “Cagare sul mondo o nel mondo è come cagare sul letto della propria cameretta, ma nessuno è tanto intelligente da considerare una cosa così banale”: ecco, il concetto è più semplice di quanto si possa immaginare.

 

D: Non ti hanno fatto la morale per questo libro, del tipo “non si scherza su cose del genere?”. Dove finisce la finzione e inizia la provocazione?

 

R: Si, molte persone si sono scandalizzate; o, quanto meno, si sono dette scandalizzate. Poi magari sono gli stessi individui che, guardando un film di Tarantino, dove vi è apologia della violenza, lucidità della violenza, inneggiano al capolavoro: Tarantino è volgare in ciò e trovo i suoi lavori aberrati e aberranti. È che la gente ha paura di poter pensare ad una presa di coscienza forte nei suoi stessi confronti. Mi spiego meglio: il suicidio, o meglio, anche il solo pensiero di esso, è forse il più grande atto personalistico che una persona possa mettere in atto, la scelta di poter porre fine alla propria esistenza. Però, culturalmente, rappresenta una disfatta della società, in quanto siamo tenuti a pensare che facciamo parte di un contesto sociale da cui siamo imprescindibili: la spinta a non suicidarsi è stata fortemente voluta da sistemi coercitivi di pensiero come le religioni e il capitalismo oggi, che deve sfruttare le risorse umane quanto più possibile. Quando pensi al suicidio sei un po’ meno schiavo delle logiche sociali e puoi iniziare a vivere una tua vita in maniera più personale e libera da costrizioni, puoi iniziare a concentrarti su te stesso al di là di ciò che la società in cui vivi ti dice. Ma fa paura ciò, perché il tutto si traduce nell’essere soli: fuori dagli schemi sociali ci sentiamo soli, perché abbiamo imparato che è all’interno della struttura sociale che siamo “giusti”, perché condividiamo qualcosa con gli altri e la cosa ci dà forza: “La maggior parte degli uomini non ha paura di avere un'opinione errata, bensì di averne una da sola”, appunto perché siamo abituati a forti spinte di condivisione con gli altri, con questa grande famiglia allargata che è la società. Buon divertimento.

 

 

D: Torni spesso, nel testo, sulla religione e sul rapporto con dio, anche se - a tuo modo - sempre in modo dissacrante. Non credo che tu l’abbia fatto solo per prestare una spalla al tuo sarcasmo. Da cosa nasce questa esigenza, da una sorta di ribellione contro i dogmi che ti hanno imposto – come di regola avviene - da bambino?

 

R: In realtà mi è stato imposto molto poco dalla mia famiglia, in quanto non ci sono mai stati ‘sti grandi cattolici e/o credenti. Mio nonno diceva il rosario pur non essendo credente: “Non si sa mai”, diceva ridendo. Le imposizioni dogmatiche (siano esse religiose o sociali in toto) comunque ti arrivano, al di là del contesto famigliare in cui vivi, per vie traverse: scuola, rapporti sociali di varia natura, il semplice vivere in un certo tipo di cultura. Puoi essere ateo quanto vuoi, ma quegli impulsi in qualche modo ti arrivano e ti forgiano, soprattutto considerando che le religioni sono dei grandi sistemi metaforici che dietro ogni atto, dietro ogni personaggio, nascondono un grande bagaglio inconscio: pensa al senso di colpa insito nella figura del Cristo crocifisso (fisso in ogni dove, sempre lì a ricordarti che sei colpevole); la Madonna, vergine e madre (una cosa schizofrenica), che da un lato spinge all’atto sessuale per via del suo aver partorito e dall’altro ti dice che è peccato; e via dicendo. Insomma, il senso di colpa ci accompagna come fido compagno e ci fa sentire infimi, fa abbassare la nostra autostima e ci “costringe” a cercare verità e sicurezza in qualcosa di preconfezionato. Le religioni hanno aperto al marketing, che sfrutta le stesse, identiche logiche. In questo senso le religioni sono state geniali nell’anticipare di secoli e secoli la psicanalisi freudiana riuscendo ad applicare quelle logiche di marketing che si rifanno a Freud in maniera del tutto naturale. Se pensi dogmatico di base pensi dogmatico in tutto, e quindi tutto diventa “dio”, dalla squadra di calcio alla tua nazione fino al cellulare, che magari non ti promette il paradiso ma ti promette un più elevato status sociale personale. In fin dei conti dio esiste: è la società.

 

 

D: Nel tuo libro non mancano di certo i richiami a personaggi, noti e meno noti, del mondo del cinema, della musica e dei fumetti. Un bagaglio di conoscenze e suggestioni da fare invidia. La musica in particolare, nel tuo curriculum, è forse l’elemento dominante. Una grande passione, o c’è qualcosa di più?

 

R: Passione, prima di tutto. Gioco in secondo luogo. Ho voluto omaggiare un po’ di persone/personaggi/opere che mi hanno influenzato o magari solo fatto compagnia (ma anche chi ti fa solo compagnia in qualche modo ti influenza). E li ho “rigettati” in “Breve guida al suicidio”, anche perché ho sempre trovato divertente il citazionismo e ho spesso apprezzato quando, in altre opere, più o meno nascosti, fanno capolino messaggi che rimandano ad altre opere ancora.

 

D: Ora una domanda che rivolgo spesso agli autori. Come si arriva alla scrittura? Come ci sei arrivato tu?

 

R: Forse per la semplice voglia di comunicare. Una delle mie prime passioni, a parte la musica e il cinema, è stata la filosofia. Non sono mai stato un grande lettore di romanzi, mi hanno sempre appassionato più i saggi (e da qui la forma di “finto saggio” che ho dato a “Breve guida al suicidio”): ricordo che al liceo scrissi una speculazione simil-filosofica, forse la prima cosa che abbia mai scritto, al di là dei temi in classe. In realtà ricordo con piacere un tema in classe che avrei voluto sempre ampliare ma che per pigrizia non ho mai terminato. Ho continuato, poi, scrivendo altri pensieri ed “analisi” del genere anche durante il periodo universitario. Dopo tempo aprii un blog sul compianto Splinder dove iniziai a scrivere un po’ di pensieri vari, fra il serio ed il faceto, fra il colloquiale e la ricerca stilistica: a leggerle ora, quelle cose, mi fanno sorridere per quanto fossi acerbo, ma sono state importanti per capire appunto “come si scrive”. Poi mi sono concentrato sul giornalismo (da settembre sono iscritto all’Ordine), sempre intervallando la stesura di articoli alla scrittura di racconti; fino a “Breve guida al suicidio”.

 

D: Ci sono tantissimi aspiranti scrittori, ma pochi riescono a raggiungere la grande editoria e spesso non sono neppure i migliori. Sono invece gli editori indipendenti a sorprenderci spesso con lavori di qualità. Direi che hanno quel coraggio di osare che manca ormai ai grandi.

Cosa pensi del mondo editoriale oggi, delle classifiche dei libri più venduti, dei premi letterari?

 

R: Non saprei risponderti: sono alquanto avulso dal mondo dell’editoria, in realtà. Potrei parlarti di Edizioni La Gru, che ha pubblicato “Breve guida al suicidio”, e che quindi conosco “da vicino”: loro sono, a mio avviso, dei pazzi, perché io non so se, personalmente, avrei il coraggio di investire come fanno loro. Ci credono, sono delle persone con le palle e ce ne vorrebbero molte di più di persone così, che investono nonostante il mercato sia in crisi. Attenzione: quando parlo di “crisi di mercato” non parlo della tanto millantata crisi economica che, a quanto dicono, stiamo vivendo (crisi del tutto fittizia, a mio avviso: ma non è questo il luogo dove parlarne); quando parlo di “crisi” parlo di “crisi culturale”. La gente non legge, non ascolta, non guarda, non si informa o, se crede di farlo, lo fa in una maniera sbagliata, veloce (siamo pur sempre nell’epoca dei social network), si limita a leggere i titoli e non il corpo degli articoli, quando ti va bene che gli articoli non siano merde sensazionalistiche o schifi del genere, quando il romanzo che compri non è solo frutto di un hype mosso dal marketing, quando la canzone che ascolti o il film che guardi non sono prodotti confezionati per essere venduti e che non hanno nulla di culturale e, anzi, aiutano a far morire la cultura: suicidio culturale. Il problema so’ i soldi, ad ogni modo. I soldi decretano, mediamente, ciò che è “giusto” e ciò che è “sbagliato”: la gente si lascia facilmente veicolare. Io non ho avuto problemi, una volta scritto “Breve guida al suicidio”, a rilasciarlo in free download: quindi, di base, me ne fotto dei soldi, me ne fotto dell’editoria e delle logiche capitalistiche legate alla cultura, che sono ‘na cosa alquanto deplorevole. La carta igienica si vende, non la cultura. Le persone che più mi fanno paura sono però quelle che hanno una fondamentale ampia cultura di base ma non sanno applicarla o la applicano a modo loro: ho visto gente citare a braccio Pasolini senza capirne il significato. Che senso ha? Si perde il senso critico che porta anche alla possibilità di dire “Pasolini qui ha detto una cazzata”: trasformiamo Pasolini (o chicchessia) in un dio, in un dogma. È ancora la religione, o, per meglio dire, il fare religioso, che torna a influenzarci sul nostro vissuto. Non va bene. Mi fa paura ciò.

D: Torniamo a Breve guida al suicidio. E’ senza dubbio un libro che fa sorridere e credo che tu sia divertito a scriverlo. Un po’ di amaro in bocca però lo lascia. Leggendo il libro ci si rende conto che parla di noi e delle nostre vecchie e nuove paranoie. La tua è solo un’analisi delirante della realtà o c’è un messaggio tra le righe per gli ignari lettori?

 

R: I messaggi, spero, siano tanti: forse ti ho preceduto nella domanda (e relativa risposta) nelle risposte precedenti. Volendo fare una summa e tirando le somme (e non le cuoia) potremmo dire che il messaggio finale è quello di lasciar perdere il pensiero del suicidio, tenendolo però sempre presente per abbattere quella paura atavica della morte che si staglia su tutte le nostre altre paure portandoci a cercare certezze fittizie in risposte fittizie. Forse il “messaggio” è, soprattutto, quello di cercare di evitare questo lento suicidio intellettuale che stiamo vivendo. Sai una cosa? Però credo che alla fine i messaggi servano a ben poco: sono abbastanza convinto che i messaggi arrivano a chi devono arrivare, e cioè a chi già la pensa come te. Quindi sono inutili. L’essere umano difficilmente capisce perché difficilmente si rapporta al diverso: guai a mettere in discussione i propri dogmi personali (torniamo all’influenza delle religioni su tutto il vissuto). Solo i bambini, che hanno una psiche ancora non del tutto formata, sono ricettivi. Dovrei mettermi a scrivere favole (e in realtà già l’ho fatto). Quindi... bho? Forse “Breve guida al suicidio” l’ho scritto solo per me; nonostante il messaggio (i messaggi) ci sia, eh. Il messaggio che posso lasciare, probabilmente, è solo uno: dubitate, di tutto, soprattutto di ciò in cui voi credete di credere, che forse non è ci credete realmente ma vi è stato fatto credere voi ci crediate. “Credo in un solo dio”: io.

   

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