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Genetica, farmaci e oligopoli alla base della filiera di massa

Creato il 10 dicembre 2014 da Informasalus @informasalus
CATEGORIE: Denuncia sanitaria , Alimentazione
allevamento bovini
Il sistema carne coinvolge molti comparti. Ma a comandare sono in pochi. E la varietà di ciò che consumiamo è sempre più ridotta

Il sistema carne coinvolge molti comparti. Ma a comandare sono in pochi. E la varietà di ciò che consumiamo è sempre più ridotta.

Ci sono i grandi e i piccoli allevatori. Ci sono i grandi gruppi della commercializzazione e della distribuzione. E ci sono i mega operatori dei comparti paralleli (ma non per questo meno coinvolti) dalla genetica al settore farmaceutico. Nel sistema produttivo della carne, in un modo o nell’altro, ci entrano più o meno tutti. Ma il peso di ciascun attore resta profondamente diverso e i profitti, in definitiva, si concentrano nelle mani di pochi. Per capirlo basta guardare alle dinamiche stesse della produzione che, negli ultimi anni, sono sempre più dominate dagli allevamenti intensivi. Un trend non privo di conseguenze.
Allevamenti intensivi
In primo luogo c’è la spinta alla produttività che crea un eccesso di offerta ai primi livelli della catena. «Il risultato è che i grandi gruppi, quelli che in definitiva fanno il prezzo, possono acquistare carne e latte a prezzi molto bassi», spiega Sebastiano Canavesio, titolare dell’omonima azienda agricola a Vittuone (MI). «I prezzi riconosciuti agli allevatori in Italia – prosegue – vanno incontro a variazioni annuali, ma in media sono fermi agli anni ’80, senza contare che negli ultimi anni sono aumentati i costi di alcune materie prime come il fieno e la farina, cosa che ha ridotto
ulteriormente i margini già bassi ottenuti dagli allevatori». Come a dire che i prezzi corrisposti a questi ultimi non sono aumentati sebbene, dal 1996 ad oggi, il costo della carne al supermercato (dati Istat) sia aumentato del 42% (in linea con l’inflazione complessiva del periodo, 46,6%).
Canavesio ha scelto da tempo la strada dell’allevamento biologicopuntando, al pari del collega Nicolò Reverdini, titolare dell’Azienda Agricola La
Forestina Bosco di Riazzolo di Cisliano (MI), sulla conservazione della “varzese”, razza autoctona lombarda miracolosamente salvata dall’estinzione nei primi anni 2000. Canavesio e Reverdini utilizzano da tempo mangimi bio pur sapendo che la qualità di questi ultimi, di regola,
non influisce sul prezzo che i grandi gruppi riconoscono agli allevatori. Quello della varzese, in definitiva, sopravvive come mercato di nicchia (è un Presidio Slow Food), ma è un caso relativamente isolato.
Perché la realtà, a conti fatti, è costituita da un mercato dominato da pochi attori – nel 2013 il gruppo Cremonini, leader italiano, ha fatturato da solo 3,5 miliardi – e, particolare significativo, da poche razze.
Un circolo vizioso
Il fatto è che la grande industria ha sviluppato negli anni poche razze iperproduttive che, ricorda l’ultimo rapporto FOE, «necessitano di nutrimenti ad alto contenuto proteico, medicinali costosi e ambienti climatizzati» dove crescere e produrre. Anche per questo le major dell’allevamento – come la thailandese Charoen Pokphand, la tedesca EW Group, la britannica Genus o la francese Groupe Grimaud, per citarne solo alcune – finiscono per dominare le attività di ricerca e sviluppo nel comparto della genetica animale.
«Il problema – spiega ancora Canavesio – è che un animale che garantisce 15 litri di latte al giorno mangia come quello che ne produce 50». E, siccome i costi fissi incidono molto, «dal punto di vista economico a chi alleva in serie conviene puntare su animali che rendono di più come la frisona, ad esempio, o le razze francese e belga che hanno una massa muscolare enorme». Oggi, rileva il FOE, l’83% dei prodotti caseari viene
dalle frisone.

Sul fronte della macellazione bovina, tre sole razze – Angus, Hereford e Simmental – compensano oltre la metà della produzione. Di fatto si tratta di un circolo vizioso ad ogni livello, a partire dalla diffusione stessa dei mangimi industriali che, nota Reverdini, «sono studiati per spingere l’animale al massimo e portarlo il più rapidamente possibile alla macellazione». La conseguenza? «Le razze si indeboliscono – precisa – e sono più facilmente esposte alle patologie, come dimostra il caso delle razze più diffuse nell’allevamento in serie come la frisona». E così, mentre l’Europa riabbraccia le contestatissime farine animali, le industrie farmaceutiche possono venire incontro alle esigenze degli allevamenti intensivi. Oggi, gli animali allevati in Italia consumano circa 370 milligrammi di antibiotici per chilo. Il livello più alto d’Europa dopo quello
registrato BOX a Cipro (408).



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