Magazine Cinema

Gianni Martucci, un intellettuale al servizio del cinema di genere (Prima Parte)

Creato il 22 settembre 2013 da Fascinationcinema

Alto e dalla camminata morbida, viso allungato e sigaro sempre in bocca, occhio furbo e baffo fino “a matita”. Quando telefonai a Gianni Martucci, per concordare un’intervista, di certo non immaginavo di trovarmi davanti Vincent Price. Seduti sui divanetti, all’entrata degli studi di post-produzione di Saxa Rubra, a Roma, come pochi il regista di Milano: difendersi o morire è riuscito a dipingere, con i suoi racconti, le mille sfaccettature di un modo di fare cinema che non esiste più.

 

martucci fascination cinema Gianni Martucci, un intellettuale al servizio del cinema di genere (Prima Parte)
La tua carriera sembra composta di tentativi ed esperimenti. Al contrario di molti tuoi contemporanei, tu non sei andato a incastonarti all’interno di un genere specifico. Il tuo nome non è immediatamente associabile ad un filone. Quindi, prima di entrare nel vivo della tua carriera, vorrei chiederti come ti definisci all’interno di questa galassia chiamata “cinema di genere”

Piuttosto che parlare di un genere o di una galassia, caratterizzata da una moltitudine di generi, preferisco parlare di cinema in generale, e, nello specifico, di un modo di fare cinema artigianale. Io preferisco che mi si consideri come facente parte dell’artigianalità del cinema italiano… Martucci s’interrompe, distratto da un uomo corpulento che, appena fatto ingresso nell’androne , lo saluta con la mano; i suoi sandali strusciano sul marmo scuro del pavimento; la mole rinchiusa in una polo infilata nei pantaloni. Si danno reciprocamente una pacca amichevole sulla spalla. L’uomo ha un viso liscio e sorridente. “Ciao caro.” “ Il qui presente signore mi sta facendo niente poppo di meno che un intervista!” dichiara Martucci. L’altro gli stringe la mano chiedendo scusa per l’interruzione e scompare. “Quello è Antonio Siciliano.” mi informa Martucci (montatore tra i più importanti del nostro cinema che, tra gli altri, ha lavorato per: Damiani, Verdone, Barboni, Guerrieri, Salce, Cavara, Dallamano, Troisi e Campanile. Tornando alla domanda, io vorrei intendere questa attività non come ‘alta’ o autoriale, come molti pensano, ma come artigianale; in tal senso mi riesce difficile “collocarmi”. Io ho cercato di fare i film che potevano funzionare in quel momento specifico. Il nostro cinema, se non addirittura dominato, è stato comunque fortemente caratterizzato dai filoni. Filoni da intendere non all’americana, bensì come micro-generi. Come, ad esempio, tutti i Maciste, i peplum, dopodiché arrivarono i cappa e spada, poi, paradossalmente, i western, che sono diventati significativi quasi quanto quelli americani, e, arrivati agli anni settanta, che erano già anni di crisi, andava per la maggiore la commedia ridanciana e un po’ casareccia, erotica come la chiamano, anche se poi di erotico c’era poco. Io ho inseguito le esigenze commerciali del momento. Alla fine la questione è sempre quella. Questo riguarda e riguardava tutti, anche autori veri, ben inteso. Se il nome di un regista è talmente grande da superare qualsiasi fatto commerciale, diventando infatti esso stesso un’attrattiva commerciale, allora in quel caso è diverso; se no, anche autori non meno interessanti dovevano infilarsi all’interno di certe logiche di mercato.

 

Il non esserti “aggrappato” ad un genere, adesso, con il senno del poi, può essere stato un limite?

Si, con il senno del poi, riconosco che lo è stato. Quei registi che si sono incastrati in un genere hanno poi avuto modo di girarne tanti e quindi di lavorare molto, e poi, magari, diventavano iconici di quel cinema e quindi possono aver goduto di una certa visibilità in più.

 

Avendo avuto questa carriera metodicamente frammentata nei generi…

No, non c’era metodicità. Seguivo la corrente. Non voglio essere sminuente ma alla fine era quello che passava, come si suole dire, il convento. Facevo quello che c’era insomma.

 

Allora, parliamo della tua filmografia ma non muoviamoci cronologicamente, bensì, appunto, per genere. Tu vieni maggiormente ricordato all’estero per il tuo ultimo film: l’horror “ I frati rossi” (1988).

Si, è vero. Questo è dovuto al nome di Lucio Fulci che gentilmente presentò il film. Non partecipò alla realizzazione, lo presentò e basta, ma questo faceva gioco ai distributori, che avevano bisogno di un nome di peso per la vendita all’estero. Fulci ormai era diventato da tempo un nome, diciamo, esportabile. Lui era già malato, molto, ed io lo andai ad incontrare per parlargli del progetto. Lui accettò di prestare il suo nome come presentatore. Anche perché, e questo è importante da sottolineare, I frati rossi è stato concepito, prevalentemente, per il mercato estero.

 

Per molto tempo circolò la voce, parlo di un bel po’ di tempo fa, che a dirigere il film fu Fulci. Questo non è vero, ma lui venne sul set?

No, mai messo piede sul set anche perché, come ho detto prima, stava malissimo. Proprio in quel periodo stava attraversando un momento particolarmente difficile della sua malattia. Poi è riuscito a rimettersi in sesto, ma in quella fase non riusciva neanche a parlare, divorato, com’era, dalla cirrosi. Soffriva molto e aveva un livello di concentrazione molto basso, questione di minuti e poi aveva bisogno di riposare o di medicine, e dovevi proseguire a parlare il giorno dopo. Si, comunque è vero che si è giocato, e si gioca tutt’ora, per esempio con l’uscita dei DVD, su questa ambiguità legata al nome di Fulci. Mah… in realtà perché è l’unica cosa su cui si può giocare: il cast non ha personalità di grande rilievo e il nome di Gianni Martucci non è certo come quello di Lucio Fulci.

 

A questo punto ti chiedo cosa pensi di lui come regista.

frati rossi fascination cinema 300x225 Gianni Martucci, un intellettuale al servizio del cinema di genere (Prima Parte)
Un uomo intelligente e di indubbio talento che ha iniziato alla grande, in un ambiente cinematografico di un certo tipo intendo. Poi, malgrado si sia più volte svenduto, non ha mai perso la stima né degli addetti ai lavori né tantomeno degli appassionati. Persino la critica, che si sa, non ha mai amato un certo tipo di cinema, gli ha perdonato più di quanto abbia perdonato ad altri. Talvolta, va detto, si è svenduto e pur di lavorare ha fatto anche filmetti. Verso la fine non penso neanche sapesse cosa stava girando. Questo non lo dico in modo dispregiativo, anzi. Poi, credo lui avesse anche una situazione piuttosto complicata con famiglie sparse, parenti, figli… Insomma: aveva sempre necessita di lavorare. Perché ricordiamoci che questo è un lavoro. Viene naturale mitizzare la figura del regista, che è sicuramente un mestiere affascinante, ma è prima di tutto un mestiere. Da una parte si è rivalutata la categoria negli anni, tant’è che ora sono tutti diventati autori, ma dall’altra la si è privata della sua reale natura. Bisognerebbe riabilitare questa figura riportandola ad una dimensione di mestiere. Nel confezionamento di un film ci vogliono capacità tecniche e talenti che non tutti possiedono. Non mi riferisco solo a quelle che tutti conoscono. Per fare un film, anche becero come viene definito tutto un cascame di filoni, bisogna avere delle qualità particolari che ti consentono di accogliere le esigenze di un mondo, diciamo, promiscuo di distributori, attori, produttori che da quel film, che per quanto poco, costa sempre tanto, vogliono capitalizzare quasi subito. Quindi, l’abilità di saper coniugare esigenze amministrative, economiche e persino pubblicitarie con la tua visione e le tue esigenze artistiche. Parolone questo eh. (ride)

 

Torniamo a I frati rossi e parliamo di quel periodo. Arrivati alla fine degli anni ottanta il cinema italiano…

…era agli sgoccioli.

 

Esatto. Tutti i registi più importanti erano in una fase di assoluto declino: chi aveva smesso, chi faceva film fantasma per un mercato che non esisteva più, chi finiva nel porno, chi tornava alla televisione o agli spot. E tutto ciò senza che ci fosse stato un riciclo generazionale e con un’industria che non sapeva che strada prendere. Cosa pensi della messa in piedi della Commissione per il cinema ed il conseguente articolo 28?

Noi abbiamo il capitalismo più strano di tutti i capitalismi esistenti: il capitalismo con i soldi pubblici. Naturalmente il cinema risente di questa anomalia e quando nacque l’articolo 28 trascurarono un aspetto fondamentale e cioè la distribuzione…

 

Anche se talvolta questo aspetto non interessava neanche a chi i film li faceva, dato che nascevano come truffe.

Non penso che ce ne siano stati neanche pochi di film-truffa. Ti dico una cosa: nell’animo di un regista, anche il più puro, c’è sempre la consapevolezza e quindi il godimento di avere un potere che raramente si può avere nella vita. La possibilità di dire alle persone cosa devono fare e come, di entrare in contatto con una grande quantità di persone, dalle maestranze agli attori, che ti ascoltano e con cui ti esprimi e in qualche misura ti racconti. Il ruolo ti conferisce un potere che di per sé non è né negativo né positivo, ma ti dona un’autorità ed un’autorevolezza che è ambita e ricercata da molti. Questo per dire che sono molte le cose che spingono qualcuno a voler fare cinema: l’idea che si è speciali e che il mondo debba ascoltare e vedere quello che hai da esprime; la convinzione autoindotta che si è un grande autore. Persone come queste, non trovando modo di poter entrare a far parte del piccolo mercato libero esistente, si sono trovate costrette a chiedere denaro pubblico.

 

Con questo sistema è venuto a mancare, diciamo, la seleziona naturale.

trhauma fascination cinema 223x300 Gianni Martucci, un intellettuale al servizio del cinema di genere (Prima Parte)
Esattamente. Poi le vere e proprie truffe sono venute più che altro dalle produzioni, che si sono trovate già pagate e retribuite, magari prima ancora dell’inizio delle riprese. Non è il caso di fare nomi, anche perché sarebbero troppi da ricordare. Ma purtroppo il meccanismo fa sì che questi film nascano già con la truffa nel DNA. Ci sono molti registi in buona fede che, pur di fare il loro film, accettano qualsiasi compromesso che gli viene sottoposto. Poi c’è anche un altro problema. Mettendo da parte riflessioni sui criteri con cui vengono scelti i film, il problema è che tutti i soldi stanziati vanno solo a coprire la produzione e non si tiene conto minimamente del dopo. Quindi, vengono realizzati film che magari già di loro suscitano un interesse limitato, ma poi neanche si ha modo di vederli, dato che neanche finiscono in sala, e lo Stato regolarmente ci va in perdita. Dunque, il tutto fu concepito male perché, se decidi di finanziare dei film slegati da una qualsiasi logica di mercato, devi prevedere un budget per la distribuzione e il marketing. Che poi sono aspetti collegati tra loro.

 

Infatti, il problema sembra essere che non si pensa al mercato…

Diciamo che in Italia ce le abbiamo proprio tutte…. No, infatti non si pensa al mercato, che in questo Paese viene visto quasi come una cosa negativa, qualcosa di cui diffidare. Il mercato è il diavolo, quando invece dovrebbe essere il luogo dove tu ti confronti. C’è una sorta di avversione verso il termine “commerciale” come se fosse sintomatico di qualcosa di inferiore, degradante… Concludo dicendo che se dovessi scrivere ora il mio curriculum sarebbe una cosa brevissima: i film che ho fatto hanno sempre incassato. Sono un regista che non ha mai perso di vista i bisogni commerciali legati al mercato e ai generi.

 

Tornando, appunto, al tuo cinema, come nasce I frati rossi?

Non c’è stata una gestazione particolare. Il film veniva da un storia di una giovane (Luciana Anna Spacca n.d.r), che ho perso di vista, ma che aveva una grande visionarietà, seppur di natura letteraria più che cinematografica. Il produttore, di cui adesso non ricordo il nome (Pino Burricchi n.d.r), era un tipo molto simpatico che aveva bisogno di fare film per pagare i debiti. Altro non c’è da raccontare. Sicuramente io avevo voglia, ma già da tempo, di cimentarmi in questo genere, perché innanzitutto piace a me. Il produttore scelse questo soggetto piuttosto che un altro e il film si è realizzato. Mi rendo conto che sembra banale, ma spesso questi progetti nascevano così, per una semplice comunione di interessi.

 

Il film ha delle vaghe atmosfere gotiche e in generale un’atmosfera démodé rispetto a quello che si faceva in quel periodo.

Il discorso dei filoni vale sempre, soprattutto per me, ma talvolta c’è la possibilità di rianimare un filone o un genere dormiente, tramortito con la pubblicità. Non è che manchino gli spettatori; magari un determinato filone è morto perché c’è stato un abuso, un sovra caricamento, per cui con una strategia pubblicitaria puoi riaccendere l’interesse. Poi, se il film è fatto bene o funziona si può anche riesumare un filone, che per carità è sempre un rischio, ma un pubblico lo troverà.

 

Guardando gli incassi mi pare che I frati rossi non andò male.

No, non andò malissimo. Ma, essendo un film horror, aveva bisogno di molti più effetti speciali e curati meglio. C’era una scena, ad esempio, in cui si vedeva un coltello che volteggiava in aria, che ho dovuto escludere dal montaggio perché si vedevano i fili. Per poter realizzare effetti speciali devi poter sostenere costi speciali e su quel film non c’erano i soldi. Ci siamo dovuti arrangiare e questo ha penalizzato. Su un film di quel genere non puoi avere accrocchi messi lì così. Poi c’è una altra cosa da dire: io come regista amo la sintesi e, secondo il calcolo della segretaria di edizione, il film durava un’ora e trenta. Finito il mixaggio i produttori mi dicono che dura troppo poco e che per poter vendere il film all’estero la durata non poteva essere inferiore di, mi pare, un’ora e quaranta. Ora, per chi non lo sapesse, il mixaggio è l’ultima e definitiva fase della realizzazione di un film, è più che un chirurgo che ha già ricucito il paziente operato. Quindi ho dovuto rimontare il film, aggiungendo questi minuti e ricostruendo tutta la storia come un flashback.

 

Dove è stato girato?

È stato fatto quasi tutto a Roma, nella villa del principe Giovannelli. Simpatico quanto vuoi, ma, se la sera era tutto tranquillo, la mattina era un disastro. Perché la notte andava in giro per mondanità varie, per cui voleva dormire fino a tardi e, se lo si svegliava, stava incazzato. Ci è capitato più volte di dover aspettare che lui ci desse l’autorizzazione di girare in un determinato ambiente. La villa è particolare, ha l’aspetto di una fortezza e sta sulla Boccea. Una cosa molto regale, principesca, ma per molti versi non curata, dato che lui vive solo in ala. Il resto è in uno stato quasi di abbandono, cosa che a noi faceva gioco.

 

Passiamo ad un altro curioso film dello stesso periodo: Trhauma (1980), l’altro tuo horror.

trhauma frame fascination cinema 300x168 Gianni Martucci, un intellettuale al servizio del cinema di genere (Prima Parte)
Quello è un altro film fatto a costo bassissimo e anche quello realizzato grazie alla chiusura delle vendite all’estero, ma non ha avuto un esito altrettanto felice. Anche quella era una storia claustrofobica, circoscritta ad un luogo specifico in cui si aggira un mostro che, però, è sempre stato sotto gli occhi di tutti: un ragazzo con disturbi mentali a cui nessuno dava importanza. Il soggetto di partenza era, perdona la parola, intrigante.

L’ambizione era quella dell’intreccio psicologico fuso al giallo. In tutta onestà, non posso dire di essere riuscito nel tentativo e di essere soddisfatto del risultato. Se lo dovessi fare ora, agirei diversamente. Anche li ha giocato il disagio produttivo, nel senso che un produttore ti deve garantire una certa tranquillità, invece lì ogni giorno era un arrangiarsi, un inventarsi le cose strada facendo. È vero che Rossellini così fece “Roma città aperta” e che, quindi, anche così può nascere il capolavoro. Vabbè… ma io non sono Rossellini (ride).

 

Ma questa stranezza del titolo? Trhauma scritto in quel modo, perché?

C’era un altro film in fase di lavorazione con lo stesso titolo. Per non incappare in problemi abbiamo storpiato il nostro aggiungendo un ‘h’. Come ha fatto Tarantino per distinguersi dal film precedente. Inglorious Basterds con la ‘e’ al posto della ‘a’.

 

Anche se inizialmente si doveva chiamare Il mistero della casa maledetta…

Si, fu cambiato per ragioni speculative di natura distributiva. A me piacerebbe parlare di questi film in un’altra maniera, ma quell’ambiente funzionava così; le cose erano molto meccaniche, sempre appresso a ragionamenti ed esigenze burocratiche, contrattuali o in cui a dettare i cambiamenti erano le circostanze. Va detto che questo è successo anche in grandi film. Lo sapevi chi doveva fare Casablanca al posto di Bogart?

 

George Raft.

Esatto! Chissà che film sarebbe stato. Avrebbe avuto lo stesso successo se Raft avesse scelto di farlo?

 

Tornando ai tuoi horror… Sembra esserci un filo rosso che unisce I frati rossi con Trhauma e cioè una forte componente morbosa. Diciamo pure un erotismo sopito.

Arrivavo da precedenti esperienze in cui l’erotismo era qualcosa di piuttosto casareccio e qui volevo veramente mettere in scena una mia, personale, visione dell’erotismo, che non fosse però solo nudi integrali, ma che uscisse fuori dai comportamenti dei protagonisti, dai rapporti che li univano. L’idea, insomma, di coniugare l’horror con un erotismo, si, anche morboso. Se poi ci sono riuscito, questa è bontà di chi vede il film. Non voglio fare la parte di quello che si nasconde sempre dietro al fatto che non ci fossero i soldi. Ci possono non essere i soldi, ma talvolta può invece non esserci il regista. (ride)

 

Correggimi se sbaglio, ma è stata fatta una versione hard di Trhauma, giusto?

Si, a mia insaputa. Una cosa simile mi era già successo con un altro film, credo Milano difendersi o morire. Venni a sapere che sarebbero state aggiunte delle scene porno da unire alle sequenze d’amore già presenti. Proposi di girarle io, almeno per mantenere intatta la qualità fotografica, almeno quella. Negarono che avrebbero fatto questa cosa e solo più in là scoprii che invece erano state girate. Era una pratica comune soprattutto per quei film concepiti per il mercato estero. Uno dice estero, ma l’estero è tutto. Ogni Paese ha esigenze e censure diverse, per cui per alcuni Paesi si facevano queste versioni qui. I Paesi arabi erano tra quelli che volevano queste versioni.

 

Hai mai visionato le versioni hard dei tuoi film?

No, ma ho avuto modo di vedere il tipo di insert che usavano. Primi piani di un cazzo che entra. Roba girata malissimo tra l’altro. Ma va detto che i nostri porno hanno sempre fatto schifo. Mettendo a confronto un qualsiasi porno italiano con uno americano ci si rende conto della differenza. Manco a fare i porno siamo bravi.

 

A te è mai stato chiesto di girare materiale pornografico?

Si, ma avevo abbastanza ambizione per dire sempre di no.

 

Ricordi qualche proposta o un produttore in particolare?

No, ma perché erano personaggi veramente squallidi ed improvvisati. L’unico che è riuscito, all’epoca a dare un po’ di dignità al porno è stato Joe D’Amato. Ma perché lui era un grande direttore della fotografia. Io lo conoscevo piuttosto bene. Se ne andò nelle isole dominicane e ne girò tantissimi, ma perlomeno erano caratterizzati da un contesto naturale più gioioso del nostro e lui comunque aveva un certo gusto estetico. Un altro che ne fece alcuni era Bruno Mattei, che invece nasceva come (bravissimo) montatore, che poi ha diretto film di tutti i generi. Lui è un personaggio che andrebbe ricordato con più solerzia. Comunque, il nostro porno è un panorama da dimenticare. Siamo incapaci di farli.

Fine della prima parte. Continua…

Eugenio Ercolani

Trailer internazionale de I FRATI ROSSI (1988)


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :