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Giappone ed Abenomics: una ricetta vincente?

Creato il 18 novembre 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi
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di Alessandro Dalpasso

giappone-abenomics
Iniziare con una precisazione terminologica è essenziale ed obbligatorio: con Abenomics si intende la politica economica attuata da Shinzo Abe, attuale Primo Ministro del Giappone, a partire dalla primavera del 2013 con lo scopo di risollevare il Paese del Sol Levante dalla depressione economica che lo attanagliava da oramai più di dieci anni. Occorre tuttavia fare un’ulteriore puntualizzazione, che aiuterebbe più di un leader europeo nel caso in cui prendesse in considerazione la possibilità di adottare questo corso economico: Abe non ha inventato l’Abenomics in sé, ma ha al massimo contribuito a creare un nomignolo simpatico per tutte quelle iniziative macroeconomiche racchiuse all’interno di esso.

Lo stile di Abe è fatto di annunci molto ambiziosi e di parabole tradizionali, come le “tre frecce” con cui riassume il suo programma di riforme, molto distante dalla cautela e dal consenso con cui si muove solitamente la politica giapponese (cautela e consenso che costituiscono parte dei suoi problemi). Per ora, la strategia del Premier sembra pagare e il suo gradimento è intorno al 70%: i giapponesi sembrano aver dimenticato il breve e disastroso periodo al potere di sei anni fa, quando diede l’impressione di essere un nazionalista litigioso che non aveva ancora chiuso i conti con la sconfitta giapponese nella Seconda Guerra Mondiale. Base di tale consenso è inoltre il fatto che egli sembra aver tralasciato la storia come principale materia di interesse per occuparsi con maggior dedizione, appunto, all’economia (che durante il primo mandato aveva pressoché ignorato). Le direttrici lungo le quali si stanno pertanto cercando di sviluppare le riforme sono così riassumibili: politica monetaria, politica fiscale, strategie di crescita.

Nello specifico questi tre punti vanno a comprendere: il deprezzamento della moneta nazionale giapponese, lo Yen, al fine di incentivare maggiormente l’export nipponico, seriamente minacciato da un vicino ingombrante qual è la Cina; il tasso di interesse fissato in negativo al fine di disincentivare il risparmio; una politica monetaria esplosiva – laddove per espansiva si definisce quella che, attraverso la riduzione dei tassi d’interesse, voglia stimolare l’offerta di moneta delle banche alle imprese, e quindi gli investimenti e la produzione di beni e servizi (si badi invece come quella restrittiva, caratterizzata dall’aumento dei tassi d’interesse, riduce l’offerta di moneta e rende quindi meno conveniente investire e produrre a fronte di una riduzione dell’inflazione o del disavanzo pubblico) – con lo scopo di aumentare dunque l’inflazione (almeno al 2%) ed uscire dalla situazione di deflazione cronica; un aumento dell’1.5% della spesa pubblica, che ha portato al raggiungimento dell’11.5% nel deficit pubblico.

Questa è una necessaria premessa per comprendere come il programma giapponese si stia dunque basando su una forte espansione di spesa pubblica: un primo intervento di circa 10 trilioni di yen, ovvero circa 85 miliardi di euro, ad opera del governo centrale dovrebbe essere affiancato da un altro analogo da parte dei governi locali e dei capitali privati. Si arriverebbe ad un intervento pari a 170 miliardi di euro finalizzati ad incentivi per investimenti in tecnologie avanzate (specie in energia e ambiente), in ricerca e sviluppo, in sostegni di varia natura alle imprese – con particolare riferimento alla ricostruzione infrastrutturale e abitativa post tsunami, alla sicurezza anti-sismica, al sostegno ai redditi dei meno abbienti –, nonché, infine, in spese varie nelle aree più deboli del Paese. Il Governo ritiene che il programma dovrebbe portare già nell’anno fiscale 2013 (che inizia ad aprile) ad una crescita del PIL del 2% con conseguente aumento di 600 mila posti di lavoro.

PIL Giappone - Dati: Economist Intelligence Unit

PIL Giappone – Dati: Economist Intelligence Unit

Questa politica aggressiva di spesa pubblica va peraltro valutata in relazione a due aspetti dell’economia nipponica. Il primo è la deflazione di cui Tokyo soffre da 15 anni e dalla quale vuole uscire. La situazione non è tuttavia peggiorata, comparativamente all’Eurozona, dall’inizio della crisi iniziata nel 2008. Piuttosto in contrario. Nel 2012 il PIL giapponese è infatti cresciuto intorno al 2% (mentre quello dell’UE si è attestato ad un -0,4%), la disoccupazione ha toccato il 4,3% (quella europea è previsto che nel 2013 raggiungerà l’11,1%), la bilancia dei pagamenti di parte corrente (e cioè il saldo tra esportazioni ed importazioni del Giappone per beni, servizi e redditi) è all’1,6% del PIL (contro l’1,1% europeo). Il secondo aspetto riguarda le finanze pubbliche dalle quali verrà lo stimolo alla crescita. Nel 2012 il debito pubblico lordo sul PIL è pari al 245% e il deficit sul PIL pari al 10% (scenario decisamente più positivo per l’Unione Europea che gode di un 82% rispetto al primo e di un 4,4% relativamente al secondo). In queste condizioni avviare una politica di spesa pubblica appare un azzardo che il Governo nipponico affronta però con due ammortizzatori: uno riguarda il finanziamento del debito pubblico che per la quasi totalità è detenuto all’interno del Paese e sul quale si pagano tassi di interesse sui decennali allo 0,82% e quindi minori di quelli tedeschi e americani. L’altro riguarda l’enorme entità di crediti sull’estero accumulati con i surplus commerciali.

Rapporto Debito-PIL - Dati: Economist Intelligence Unit

Rapporto Debito-PIL – Dati: Economist Intelligence Unit

Nell’immediato termine, i benefici dell’economia nipponica sono stati indiscutibili. Nel primo quadrimestre del 2013 il tasso di crescita annuale del Giappone si è attestato attorno al 3,5%, mentre il mercato della borsa valori è cresciuto del 55% (solo nei primi fatidici “cento giorni” dall’insediamento di Shinzo Abe del 37%); l’avanzo commerciale è cresciuto di 300 miliardi di yen grazie all’aumento del 12% delle esportazioni. Nonostante ciò, dopo questo primo balzo, l’indice Nikkei ha sperimentato tra gli scorsi mesi di maggio e luglio un improvviso calo, rimanendo comunque in positivo rispetto alla quotazione che aveva ad aprile 2013.

Le critiche che più vengono mosse contro la politica aggressiva giapponese riguardano i salari reali che vedono nell’aumento dell’inflazione in coppia ad un aumento meno che proporzionale dei salari nominali, una riduzione del potere d’acquisto della popolazione. Il Governo risponde che attraverso una maggiore competitività (ricerca e sviluppo unite ad una riforma del sistema fiscale) sarà in grado di contrastare questa tendenza. Questo infatti è solo l’inizio e gli analisti governativi sono convinti che nel medio-lungo periodo gli effetti si allineeranno con le aspettative e permetteranno al Giappone di tornare sulla scena mondiale in maniera competitiva e contrastando il gigante cinese che, ad oggi, gode di vantaggi demografici non indifferenti, ma che nel giro di due decadi si troverà in una situazione ben peggiore di quella giapponese dove ad oggi si va in pensione a 70 anni con il 35% dell’ultimo stipendio.

Difatti il maggior rischio è la demografia: il Giappone resta il Paese con l’età media più alta del mondo (il secondo è l’Italia), a cui si somma un’immigrazione quasi inesistente: questo significa che la spesa totale per le pensioni e la sanità pesa per circa un quarto del PIL. L’invecchiamento della popolazione causa la diminuzione della forza-lavoro: meno persone che lavorano e pagano le tasse a fronte di un crescente numero di pensionati.

L’unica cosa che potrebbe salvare il Giappone anche dalla trappola demografica – anche in questo caso, senza garanzie di successo – è la creazione di una solida crescita di lungo periodo, indipendente dagli entusiasmi dei mercati finanziari e dagli enormi stimoli monetari. Per questo Abe ha annunciato di voler riformare praticamente ogni comparto dell’economia giapponese. Tra le misure promesse c’è l’introduzione di maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, il miglioramento dell’educazione, maggior concorrenza e, forse la questione più delicata, la volontà di concludere il regime di protezioni nei confronti di coltivatori, medici e società farmaceutiche.

Come sempre sarà il tempo l’unico giudice.

* Alessandro Dalpasso è iscritto al corso di laurea in Giurisprudenza (Università di Torino)

Photo credit: mindweb2 – Fotolia.com

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