2.666, capolavoro postumo dello scrittore cileno Roberto Bolaño, si presenta come una compilation di pezzi di varia lunghezza. E’ però un’opera “sinfonica” in cui Bolaño non racconta una storia coerente, ma è più interessato alla ricerca e allo sviluppo di temi.
Un’opera “immensa” di stupefacente ambizione espressamente composta di cinque libri distinti tra loro che differiscono, a volte in modo molto sottile, non solo nel tono e nel timbro, ma anche nel genere (Bolaño gioca con i generi), saltando dalla satira accademica al thriller psicologico.
Cinque libri in uno magistralmente intrecciati non solo da idee e personaggi ricorrenti, ma anche da un umorismo torrenziale, da una profonda umanità e da una eccellente narrazione.
Con 2.666 Bolaño riconosce le difficoltà e le assurdità della vita, ma non si arrende, le vede come sfide da superare, soprattutto attraverso la devozione alla vita letteraria.
E’ evidente come Bolaño sia stato influenzato dal Simbolismo che ha ispirato scrittori modernisti come Proust e Joyce (l’epigrafe, “un’oasi di orrore in un deserto di noia”, è tratta da “I Fiori del Male” di Baudelaire, testo cardine del Simbolismo).
Tuttavia, e ci si rende conto leggendolo, sarebbe un errore catalogarlo in un determinato stile o genere poiché il suo modo di fare letteratura è una sorta di unicum.
Chi ha intenzione di leggere 2.666 con l’intenzione di scoprire cosa succede dopo, probabilmente non ce la farà fino alla fine… La densità e i riferimenti inter-testuali sono notevoli. Per questo 2.666 è un’altra cosa dal resto dell’intera opera di Bolaño.
Ci vuole una certa forza di volontà per portarlo a termine ed è un’esperienza difficile da scrollarsi di dosso che rimane nell’inconscio per giorni o settimane dopo la lettura. Forse perché, a volte, si legge come una corsa contro la morte…
La traduzione di Ilide Carmignani è notevole.
Magazine Cultura
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