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#GiornidiGiro | Imola

Creato il 20 maggio 2015 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

20 maggio. Imola, Circuito.

Le strisce della pole sono ancora più lucide e ancora più bianche sull’asfalto imbevuto di pioggia.
Da qualche parte c’è ancora il respiro di Ayrton qui. Stamattina Murilo Fischer aveva un casco coi colori brasiliani. Senna scritto sul lato.

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Per loro era una specie di dio. Lui che con Dio ci parlava tutti i giorni, era un ragazzo che si sentiva tremendamente in debito con la vita. Per i soldi prima e poi per la fortuna e il talento. Voleva restituire.
Ayrton.
Ultimo martire di uno sport che diventava troppo pericoloso. Ayrton che credeva nelle lacrime: non andavano nascoste. Perché la sensibilità è un dono prezioso.Ayrton che quella mattina di maggio restò per molto tempo con gli occhi chiusi nella sua monoposto. Giorgio Terruzzi racconta che a tutti era sembrato dolore per Roland Ratzenberger morto il venerdì prima. Invece forse era consapevolezza. Quella famosa sensibilità che lo metteva in contatto con sè stesso. Era come se sapesse.

Il ciclismo e l’automobilismo. Hanno sempre avuto qualcosa in comune. Due opposti con la stessa ossessione per la velocità. Per la strada. Sei pilota e sei ciclista perché ti scorre il sangue del tuo destino. Non puoi dire di no, non puoi ribellati. Devi solo pedalare, devi solo premere l’acceleratore.
Piove su questo circuito circondato dalle colline di questa terra che ad Ayrton piaceva ascoltare la mattina presto. Piove su questi ragazzi dalle facce annerite dal fango sei chilometri mischiato all’acqua. La maschera della vita che hanno scelto perché li chiamava.
Pazzi. Dice la società. È sempre così quando non capiamo qualcosa: diamo etichette sbagliate per dimenticarci che quella cosa non si può spiegare.
Incontrollabile. Abbiamo paura di quello che non si può controllare. L’amore, per esempio. Per il silenzio della bicicletta o per il rombo assordante di un motore.
Piove su questo ragazzo in fuga con due ali di acqua che sembra stia volando.
Solo all’arrivo esce un po’ di sole. Si guarda un po’ indietro, guarda la curva. C’è quella strada abituata all’olio dei motori e poi c’è lui.

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Luccicano le pozzanghere, riflettono le nuvole e i ciclisti che scivolano tra la folla chiedendo permesso attaccati alle loro biciclette stanche. Il silenzioso brusio di un paddok di pullman nella luce del pomeriggio capriccioso. Il ricordo lieve di una macchina che andava veloce e quello più tenace di un pilota che credeva ancora che la bontà d’animo avrebbe vinto tutte le tempeste.
E forse aveva ragione.
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